Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconto di
Italo Schirinzi
LA NOTIZIA
 
 
Uomo di molteplici interessi, nonno Albertino, come tutti lo chiamavano, amava la pittura, la buona tavola ed in particolare il caffè alla napoletana, per il quale nutriva una vera passione. Nel corso dei suoi ottant'anni ne aveva visto di tutti i colori ma, nonostante la vita travagliata, aveva conservato un invidiabile buon umore, che lo rendeva particolarmente simpatico agli altri.
«Hai avuto la notizia?» domandò alla figlia Maddalena, dopo essere rincasato da una breve passeggiata, con rituale sosta al bar da lui preferito.
«Non ancora, ma ci sono già diversi amici, che attendono in salotto» rispose lei.
Nonno Albertino andò, perciò, a salutare i suoi ospiti: «che piacere avervi in casa mia!» disse e chiese subito licenza di assentarsi per qualche minuto con la scusa di avere bisogno di meditare.
Nessuno fece caso alle parole del vecchietto né mostrò alcuna meraviglia per il suo comportamento. Lo conoscevano tutti molto bene i suoi concittadini ed erano, quindi, pienamente consapevoli della sua innata eccentricità, che si manifestava anche nei momenti più delicati.
«Non c'è cosa peggiore» disse don Remigio, il parroco del paese, «che attendere una notizia che tarda ad arrivare. E' come avere fame e non potere mangiare».
«O avere sete e non potere bere» aggiunse con prontezza l'avvocato Papalia, vecchio amico di famiglia, soprannominato il trombone, a causa della sua voce profonda, con la quale, a giudizio degli amici, diceva, peraltro, sempre cose piuttosto ovvie e spesso anche banali.
Il passaparola aveva coinvolto in una specie di veglia collettiva alcuni amici, fra quelli più influenti, di nonno Albertino i quali, pur non sapendo di quale notizia egli fosse in attesa, avevano deciso comunque di andarlo a trovare a casa, per fargli sentire il loro appoggio e manifestargli piena solidarietà.
Era corsa voce, infatti, fra gli amici che nonno Albertino fosse in trepidante attesa di una notizia per lui importante e questo era stato sufficiente per fare scattare una sorta di affettuosa mobilitazione generale.
Per discrezione nessuno aveva, però, osato fare domande, per cui ciascuno dei convenuti credeva di essere il solo a non sapere di cosa si trattasse e, per non fare trapelare di non essere al corrente, partecipava alla discussione, che si stava sviluppando, cercando di barcamenarsi alla meno peggio, con l'intento di capire dalle parole degli altri le ragioni di quell'attesa collettiva in casa del comune amico.
«La notizia è come il veleno» disse ad un certo punto Pasquale Mezzaluna, farmacista in pensione, conosciuto per la sua capacità di coniare proverbi e similitudini molto spesso un po' azzardati «perciò, andrebbe presa a piccole dosi. Bisogna essere preparati ad accoglierla, per non intossicarsi. Sia che si apprenda per iscritto o per via orale non fa alcuna differenza perché la notizia, qualunque essa sia, crea sempre turbamento. E' come se ti entrasse nel sangue attraverso un'endovena. Perciò, io sostengo che andrebbe presa in pillole e non tutta intera in un solo colpo».
«Signori miei» intervenne Assuntina, la levatrice amica del cuore della signora Maddalena, che aveva tanti anni prima aiutato anche a nascere «solo chi non ha mai aspettato una notizia non sa cosa si provi nell'attesa. Io ho un'esperienza di oltre cinquant'anni di lavoro ed ho visto padri fremere nell'attesa di ricevere la notizia».
«Che può essere bella, ed in tal caso ti ripaga della sofferenza ma può, purtroppo, essere anche brutta ed allora aggiunge alla sofferenza dell'attesa anche il dolore» disse l'avvocato Papalia «è nella natura delle cose, non c'è nulla di nuovo in questo mondo» concluse.
«Nessuna nuova, buona nuova» lo rassicurò don Remigio «lo dicevano anche i latini, che non erano certamente degli sprovveduti».
«Lei dice bene, reverendo, ma poi l'ansia dell'attesa non si spegne» ribatté Papalia «perché c'è comunque bisogno di sapere con certezza quale sia la verità in ogni circostanza, qualunque essa sia, non è vero professore?»
Orazio Campanella, professore di filosofia al Liceo Classico del vicino capoluogo, aveva fino a quel momento seguito il piccolo dibattito, che si era sviluppato, in un silenzio sospetto per chi conosceva di lui la verve, la capacità oratoria ed il gusto per la parola. Egli, coetaneo di nonno Albertino, era un uomo ancora affascinante con una bella chioma bianca e folta e che aveva insegnato per quasi quarant'anni con grande passione. Diceva sempre che sulle cose bisognava ragionare e, quando interveniva in una discussione già avviata, cosa che faceva quasi sempre nel momento più opportuno, invitava per prima cosa gli interlocutori a seguirlo nel suo «ragionamento». «Caro avvocato» disse «io non sarei così sicuro che ciascuna notizia rechi con certezza la verità o la conoscenza della stessa. La notizia di un fatto di per sé non rappresenta la verità su di esso ma più semplicemente l'interpretazione che di quel determinato fatto fornisce colui che la diffonde. Se la interpretazione di un fatto già accaduto o che si prevede possa accadere è, per esempio, costruita a bella posta per orientare o per disorientare la pubblica opinione, siamo in presenza di una vera e propria manipolazione della notizia e, quindi, a maggior ragione anche della verità. Come vede, caro avvocato, la notizia non è la verità anche perché la verità non sempre fa notizia. Dal che si deduce che si possono provare emozioni anche intense e, naturalmente vere, in ragione di una notizia completamente falsa. In tal caso» continuò Campanella «chi ci ripaga dello stress che noi abbiamo subito nell'attesa e della conseguente delusione nel costatare che abbiamo sofferto o gioito inutilmente?»
«Per questo io mi fido solamente delle notizie di prima mano» esclamò l'avvocato.
«E quali sono le notizie di prima mano?» domandò il professore.
«Quelle che io apprendo direttamente, quei fatti cioè che accadono sotto i miei occhi o dei quali ho personale conoscenza».
«Mi segua nel ragionamento, avvocato. Lei sa benissimo, data la sua esperienza professionale, che ciascuno di noi reagisce di fronte ad un medesimo fatto in modo diverso a seconda dello stato d'animo nel quale si trova. La sua stessa valutazione di un qualunque accadimento può essere diversa a seconda che lei, per esempio, abbia dormito bene oppure male o che una ragazza, incontrandola per strada, le abbia regalato un bel sorriso, dandole il buon giorno. Non esiste la verità assoluta su un fatto ma esiste solamente la percezione, che ciascuno di noi ha di quel fatto. Per cui, quando lo raccontiamo agli altri, nella migliore delle ipotesi, noi riferiamo fedelmente la percezione che di esso abbiamo avuto noi e così faranno anche gli altri, ai quali il primo ha comunicato la notizia».
«E con questo suo ragionamento cosa ci vuole dire, professore?» chiese il farmacista.
«Voglio dire molto semplicemente che non esiste «la notizia» ma piuttosto «le notizie», tante quanti sono i referenti. E quando siamo in attesa noi non sappiamo con esattezza quale delle possibili notizie, che riguardano quel fatto che ci interessa, giungerà fino a noi per cui, secondo me, non vale la pena nemmeno di stressarsi più di tanto prima di venirne a conoscenza».
«Professore» disse don Remigio «ma questo suo ragionamento ci conduce in un vicolo cieco, in pratica a non credere più a nulla, mentre l'uomo, vivaddio, ha bisogno di certezze».
«Di certezze preconfezionate a sommo scopo da chi esercita il potere, di artificiose sicurezze, di verità prefabbricate? Io non credo che l'uomo abbia bisogno di questo. Egli deve, invece, a mio parere, alimentare il dubbio, che è dentro di lui e ricercare una sua verità, che dovrà poi confrontare con quella degli altri, per non sentirsi mai sicuro di averla raggiunta definitivamente».
«Lei è proprio un miscredente, professore» lo apostrofò don Remigio, preoccupato della piega che aveva preso la discussione.
«Signori» disse nonno Albertino, rientrando nel salotto «se gradite un buon caffè, non fate complimenti. Mia figlia Maddalena mi ha detto che la sua nuova collaboratrice familiare, che è una giovane filippina, ha già imparato a farlo bene».
«Questa si che è una notizia» esclamò il farmacista. «Professore, cosa ne dice lei, dobbiamo credere a quello che dice il nostro amico Albertino?»
«Bisogna sperimentare e, partendo da una posizione iniziale di ragionevole dubbio, disporsi alla verifica individuale senza pregiudizio alcuno né eccessivo pessimismo. Alla fine, ma solamente alla fine del processo cognitivo, ciascuno darà il suo responso o, se preferite, la sua verità sul caffè, preparato dalla ragazza filippina».
«Ha ragione il professore» aggiunse don Remigio «la notizia va sempre controllata, prima che si propaghi o che si diffonda».
«Voi preti avete sempre bisogno di controllare tutto e tutti» disse sorridendo il professore «la notizia dovrebbe, invece, essere libera di correre senza alcun impedimento per giungere a destinazione e farsi valutare criticamente. Le notizie sono fonte di conoscenza, spesso imperfetta ed a volte anche errata, ma dobbiamo essere noi a giudicarle, senza delegare ad altri questo compito delicato».
«Vi prego, assaggiate il mio caffè» propose timidamente la filippina, tenendo in mano un ampio vassoio con sopra le tazzine «e, se vi piacerà, fatemelo sapere, così quando telefonerò a casa darò la bella notizia a mia madre».
«Prego, signori,» disse allora nonno Albertino «servitevi pure, senza fare complimenti. E' una cosa eccezionale un caffè alla napoletana, preparato da una ragazza filippina».
«Buono, veramente buono» disse il farmacista dopo averlo assaporato.
«Molto gradevole al palato ed anche profumato» aggiunse don Remigio, buon intenditore.
«Trovo che abbia la giusta densità, come l'espresso fatto al bar» commentò il professore, il cui giudizio aveva un grande peso. «Albertino, sai cosa ti dico, che tua figlia ha fatto proprio un buon affare ad assumere codesta ragazza filippina. Da oggi in poi verrò molto più spesso a prendere il caffè in casa tua».
«Questa che mi avete testé dato, cari amici, è veramente una gran bella notizia» disse nonno Albertino «non osavo nemmeno sperare che sarebbe arrivata e per giunta così presto. Vi ringrazio, perciò, per avermi tolto dall'angoscia. Il caffè, cari amici, è una cosa molto seria ed internazionale ma chiunque sia a farlo, fosse anche una ragazza filippina, per essere fragrante e sprigionare tutto il suo sapore, dev'essere fatto sempre e scrupolosamente alla napoletana. Ed ora che mi avete rassicurato, se permettete, vorrei gustarmi anch'io finalmente una buona tazzina di caffè in casa mia».
 

Da Trenta e Lode (Prospettiva Editrice)

 
 
PREGHIERA
(di un pollo allevato in batteria)
 
 
«Ti prego» disse il pollo «Tu che sei onnipotente, fammi volare in alto, per una volta solamente.
Io non so volare, perché sono allevato in batteria per crescere più in fretta e passare in pochi giorni da pulcino a pollo adulto.
Ma se Tu lo volessi, potresti per un giorno farmi assomigliare anche all'aquila reale, il più imponente degli uccelli.
Mi piacerebbe nella circostanza poter lasciare la mia minuscola prigione, dove mi hanno rinchiuso e condannato a mangiare notte e giorno senza un attimo di tregua, con la luce sempre accesa.
Se tu mi farai librare nell'aria, leggero, ti giuro sulla mia testa, per quello che essa può valere, che io non fuggirò. Sono un pollo molto serio e di parola e non voglio certamente approfittare della tua misericordia e bontà.
Dopo avere sorvolato i cinque continenti, come un uccello migratore, farò ritorno sulla terra, senza alcun tentennamento. Conosco molto bene il mio dovere.
Io non sono mica sciocco ed ho buon senso anche se, per antica consuetudine nazionale, all'ingenuo, che subisce un bel tracollo nell'amore o negli affari, si affibbia, poverino, senza alcuna attenuante, la qualifica di «pollo». Nudo e crudo perché, si dice: ci ha lasciato anche le penne.
Sono onesto e moderato e non ho l'ambizione di volare tutto l'anno ma per una volta, una soltanto, vorrei andare in alto nel cielo, fino a raggiungere le stelle e raccontare a queste e a quelle come si vive sulla terra e quanto sia difficile la vita per coloro che sono polli.
Vorrei che lo sapessero anche lassù, nelle alte sfere del creato, che qui vi sono i furbi, che prevaricano e che maltrattano i più deboli e gli indifesi.
Se mi farai questo grande piacere, ti assicuro che, poi, continuerò tranquillamente a fare il mio dovere e ad essere quel pollo, che sempre sono stato per la delizia degli altri.
Lo so che sono nato per essere mangiato alla diavola (chiedo scusa per l'accenno), lesso o alla brace e che la mia presenza sulla terra si giustifica solamente con il fatto, che arricchisco un pochino la mensa di coloro, che hanno fame. Ma io vorrei volare perché, prima che mi facciano la festa, com'è, peraltro, giusto e naturale che avvenga, avrei da fare gli sberleffi a mezzo mondo, guardando per qualche minuto dall'alto verso il basso gli uomini, che mi hanno sempre sottovalutato.
Mi vorrei, insomma, vendicare in un solo colpo di tutti i torti e le offese che, quotidianamente, subiscono quelli come me, che sono miti e generosi. Sono certo che morirei molto contento e sarei, perciò, un po' più saporito.
Ti prego, quindi, accogli la mia umile preghiera, sincera ed accorata e per una volta fammi volare in alto come l'aquila reale, il condor o il gabbiano con le grandi ali al vento. Se me lo consentirai, te ne sarò riconoscente per la vita, sia pure breve, che mi tocca ed al mio ritorno sulla terra, prenderò per mano un pulcino appena nato, gli parlerò di Te e della mia esperienza di pollo fortunato e, prima di morire, te lo prometto, gli insegnerò a pregare, dando anche a lui la speranza, che ho sempre avuto io, di ricevere da Te la grazia di volare».
 

 

 

Da La palla di pezza (Prospettiva Editrice)

 
 
LA FAME NEL MONDO
 
 
 
«Sono la fame, sono nota in tutto il mondo per la mia capacità di respingere gli assalti, per lo più inconcludenti, di chi dice di combattere la mia presenza fra la gente.
Io sono potente, resistente, popolare..., nel senso che colpisco soprattutto la gente del popolo, i semplici cittadini non protetti da nessuno. Sono presente e abbastanza radicata su tre quarti almeno del pianeta.
L'altro quarto mi utilizza.
Ho clienti in ogni luogo, io li attiro e li conquisto.
Mi insinuo e mi affermo fra le schiere numerose dei poveri, dei barboni, dei cittadini del terzo e quarto mondo, dove domino incontrastata.
So fare, quando occorre, l'indiana, l'africana, la sudamericana, sono un essere camaleontico e mi so mimetizzare. Sono alquanto tollerante e non sono assolutamente razzista, anzi mi esprimo pienamente e mi sento realizzata quando posso essere una fame veramente... nera.
I bambini, soprattutto, mi piacciono... da morire, nel senso che li faccio proprio morire... di fame, poverini, per senso umanitario, per non farli crescere e diventare adulti in questo strano mondo, che li considera già morti... di fame, ancor prima di essere nati.
Chi mi frequenta, mi conosce e sa bene cosa vuol dire avermi come compagna della sua vita.
Io sono attenta a tutto: terremoti, alluvioni, siccità, ogni sorta di evento naturale mi interessa.
Disoccupazione, licenziamenti, sono pane per i miei denti, specialmente quando sono fenomeni collettivi o riguardano famiglie numerose. Io ringrazio tutti coloro che mi sono compiacenti e mi spianano la strada.
Insidio persino i pensionati e, con il beneplacito dello Stato, qualcuno l'ho già beccato sotto il minimo vitale.
Se qualche sprovveduto spende e spande per sua gioia o per diletto, vivendo al di sopra delle sue possibilità, io l'aspetto.
Inseguo l'emigrante nel suo lungo peregrinare e non mi lascio facilmente abbandonare; solo uno su mille ce la può fare, come canta il Morandi nazionale. Gli altri mi devono accettare.
Io sono anche uno strumento nelle mani dei potenti della terra, che mi usano a loro piacimento. Ma io non lavoro in nero né di soppiatto. Se mi chiedono di affamare un popolo, io ubbidisco, ma richiedo e pretendo, prima di qualunque mio intervento, che siano state regolarmente decretate le apposite sanzioni economiche dalle Nazioni Unite. Su questo punto non transigo. Senza l'embargo non agisco. Se mi chiamano, io rispondo, felice di ampliare il mio raggio di azione, ma nel massimo rispetto delle regole, che garantiscono l'equilibrio mondiale.
Di fame si muore, certamente, ma c'è anche chi ci campa.
Per combattere la mia presenza, soprattutto in certe zone della terra, sono nati numerosi comitati, fondazioni, associazioni, organizzazioni nazionali ed internazionali e per la verità qualche risultato è stato già ottenuto: qualcuno dei componenti di questi organismi si è effettivamente arricchito, con la scusa di salvare gli altri dalla fame.
In mio nome sono state compiute azioni scellerate da politici e da filantropi.
C'è la fame detta atavica e c'è quella più moderna, c'è la fame individuale, familiare, collettiva, locale, nazionale, mondiale; c'è una grande varietà di fame, che soddisfa le esigenze anche più sofisticate. Ma non lasciatevi ingannare, non c'è alcuna differenza, la fame è fame, comunque la chiamiate sono sempre io, la fame ufficiale, universalmente riconosciuta, l'unica vera ed originale, spontanea o procurata che essa sia.
Ho temuto qualche volta che i paesi più fortunati, che si chiamano industrializzati, si facessero corrompere e accettassero di seguire le indicazioni pericolose e destabilizzanti di chi continua a parlare di solidarietà, in nome di un diritto naturale alla vita, valido per tutti gli essere umani. Ma, fortunatamente per me, ormai ho capito che sono solo chiacchiere di comodo, promesse sulla carta, sono più che altro sentimenti, dettati dalle cosiddette concezioni umanitarie, che non potranno mai attecchire nel mondo civile, economicamente sviluppato e così, rassicurata che, nonostante il progresso mondiale, ci sarà sempre grande spazio per la fame in questo mondo, io mi sono un po' tranquillizzata ed ora posso guardare con fiducia all'avvenire.
 
 
 

Da Lo Scirocco (Prospettiva Editrice)

 
 
QUANDO IL SOGNO E' VITA
 
 
 
In una bella notte stellata di un rigido inverno, una goccia di rugiada si posò leggera sull'erba morbida di un grande prato verde. In attesa del nuovo giorno si preparò a vivere la sua breve esistenza notturna.
Cominciò a saltellare da un filo d'erba all'altro, alla ricerca della posizione più comoda per dormire.
Quando, finalmente, credette di averla trovata, si fermò e poco dopo si addormentò.
Sognò di essere diventata una stella, di far parte, insieme a tante altre, della immensa volta celeste e di avere così conquistato l'eternità.
Ai primi raggi del sole, però, il suo sogno svanì, essa si sciolse e la sua vita si spense per sempre.
 
 
 

Da Lo Scirocco (Prospettiva Editrice)

 
 
FANTASIA
 
 
«Venga avanti, dottò, venga avanti».
L'uomo, che portava una borsetta a tracolla, mentre pronunciava queste parole, faceva ampi gesti con le mani, invitandomi ad accostare al marciapiede. Egli si muoveva con evidente difficoltà su quel tratto di strada in ripida salita, che da Piazza di Spagna conduce fino al Pincio, la terrazza di Roma, che si affaccia su un bellissimo panorama con al centro la cupola di San Pietro. Mi fermai ed, attraverso il finestrino osservai: «in questa salita mi pare che ci sia il divieto di sosta permanente in ambo i lati».
«E' vero» confermò l'uomo «ma non è così importante».
«Non vorrei beccarmi una multa salata» replicai.
«Non si preoccupi, dottò, ci penso io».
«E voi chi siete?» domandai dandogli del voi, come faceva normalmente un mio amico calabrese, quando voleva essere cordiale.
«Io sono Robin Hood e difendo i cittadini dalla forza del potere».
«Ma se viene un vigile cosa fate?»
«Stia tranquillo, dottò, so fare il mio mestiere».
Così, nonostante fossi certo dell'esistenza di quell'esplicito divieto di sosta, mi lasciai convincere a parcheggiare la macchina nel posto, che mi era stato consigliato. Scesi, poi, dall'auto ed andai incontro all'uomo con la borsetta a tracolla. «Scusate» gli dissi «ma come fate ad essere così sicuro che non ci faranno la multa a tutti quanti? Questo è un luogo veramente a rischio, siamo ad un passo dal centro».
«Dottò, è l'esperienza che mi aiuta. L'esperienza di un uomo, che ha sofferto nella vita e che si è dovuto sempre arrangiare per guadagnarsi la pagnotta. Io sono stato sfortunato. Non ho mai potuto fare quello che gli altri, invece, hanno fatto. Vede, questa gamba malandata che mi costringe a zoppicare? Piuttosto che aiutarmi a camminare io me la devo trascinare, facendo affidamento sull'altra che sopporta la fatica».
«Perché?»
«Perché è una gamba parassita, non per sua scelta ma per necessità. Le nostre gambe, dottò, sono come i cristiani: ci sono quelli che hanno voglia di lavorare e quelli vagabondi, ci sono quelli intelligenti e ci sono quelli somari, ci sono quelli fortunati e quegli altri disgraziati. Questi ultimi sono costretti a vivere alle spalle degli altri come la gamba mia, che sfrutta la gemella. Se per tutti gli altri uomini è un vantaggio avere due gambe, per me lo stesso fatto è stato sempre un grande ingombro perché una di esse non ha fatto mai il suo dovere. In compenso, quando giocavo a saltarello, ero sempre un campione perché ero abituato a stare su una gamba sola e non facevo alcuna fatica a zompettare».
«Non capisco con questo ragionamento cosa volete dimostrare».
«Dottò, le sembra giusto che io con questa gamba sgangherata debba fare le salite e le discese?» domandò «non le sembra che il mondo è fatto male?»
«Ma Dio ha creato i monti e le vallate probabilmente per dare a noi l'idea delle difficoltà, che ciascuno dovrà affrontare» risposi.
«Secondo me Dio, nella sua onnipotenza, ha pensato solamente agli uomini che Gli sono venuti bene, ma non ha tenuto conto delle cosiddette malfatture. Forse quando ha ordinato di fare gli uomini si è servito di una ditta poco esperta. A me hanno raccontato che, quando il Padreterno si è accorto che alcuni non erano perfetti, si è incazzato da morire con i suoi collaboratori ed ha fatto una scenata della Madonna. Quindi ha deciso di correre ai ripari ed a quelli, che erano venuti male, per compensarli li ha dotati della fantasia. Se non fosse per la fantasia e per l'esperienza, che ho accumulato in tutti questi anni, farei ancora la fame come quando ero ragazzino».
«Ma cosa c'entra la sua esperienza di vita e la fantasia, che Iddio le ha donato, con il fatto che si possa impunemente parcheggiare dove c'è un divieto di sosta?»
«C'entra, c'entra, dottò. Ed ora mi spiego. Quando ero ragazzino e vedevo tutti gli altri miei compagni, che correvano da matti sulla scalinata di Trinità dei Monti, io pensavo che per me non ci sarebbe stato posto in questa società. Mi sentivo inadeguato di fronte alle insidie della vita quotidiana. Se tutti corrono ed io non posso farlo, dicevo, come potrò andare appresso al mondo, che va così veloce? In quei momenti sentivo di essere destinato a rimanere sempre indietro e, di conseguenza, di non avere alcuna possibilità di crearmi un avvenire».
«E come avete poi risolto il problema?» chiesi.
«Con la fantasia. Io sono quasi analfabeta ma ho capito con l'esperienza, a forza di commettere errori e di subire sconfitte che, quando non hai nulla cui appigliarti, basta un po' di fantasia per cambiare il tuo destino».
«Ed è la fantasia che vi ha suggerito di fare questo lavoro?»
«Oggi questo, domani un altro. L'importante è non starsene con le mani in mano a contemplare le proprie disgrazie ed a piangere sulle stesse. Bisogna reagire ed inventarsi la giornata. Io la mattina, quando mi alzo dal letto, non so mai come andrà la mia giornata. Non è affatto programmata. Me la devo costruire per tentare di sopravvivere nonostante le difficoltà. Oggi faccio il posteggiatore in questa ripida salita a due passi da Piazza di Spagna, domani sarò sicuramente in un altro posto magari a fare un lavoro completamente differente».
«Ma tutto questo a me non sembra giusto» osservai.
«E cosa c'è di giusto a questo mondo? Le sembra giusto, per esempio, che c'è chi nasce sano e chi claudicante? Le sembra giusto che uno sia africano ed un altro americano, uno palestinese e l'altro israeliano, che qualcuno abbia tanto ed un altro non abbia niente? Se siamo tutti appartenenti a questo mondo e siamo creature dello stesso Dio dovrebbe esserci più eguaglianza tra di noi. Io non mi meraviglio più di nulla ed accetto tutto quello, che la sorte mi riserva. Mi trascino la mia gamba e cerco di andare sempre avanti».
«Cosa vi debbo dare per la custodia della macchina?»
«Un euro soltanto».
«Ma voi siete un abusivo?»
«Certamente. Io sono abusivo anche come cittadino perché nessuno mi ha autorizzato a nascere. E' stata una sorpresa anche per me, non me l'aspettavo affatto. Mi sono trovato vivo senza che io me ne accorgessi. Ma poi, strada facendo, mi ci sono abituato».
«Ma lo sapete che la Cassazione ha stabilito che non potete chiedere denaro, se no vi possono arrestare?»
«E chi è 'sta Cassazione?»
«Un tribunale grande. Anzi, il più grande che ci sia».
«Li mortacci. Un tribunale così grande si interessa di un abusivo come me?»
«E come no?»
«Con tutto quello che succede in Italia, la Giustizia trova il tempo di occuparsi di un povero diavolo disoccupato?»
«La giustizia non guarda in faccia a nessuno, caro amico, perché è completamente imparziale».
«A nessuno? Nemmeno a Berlusconi?»
«Quasi a nessuno, per essere precisi. Ma visto che ci siamo, mi volete dire in confidenza come fate a convincere i vigili a non fare la multa a tutti noi poveri automobilisti contravventori per necessità?»
«Con la fantasia, dottò. Oggi i vigili sono in sciopero ed io ne ho approfittato improvvisandomi Robin Hood. Domani pensa Dio».
 
 

Da La piacentina (Prospettiva Editrice)

 

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Ins 18-02-2007