sent
Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Gloria Bossi
Ha pubblicato il libro
La muta - Gloria Bossi


  
 
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
 
14x20,5 - pp. 120 - Euro 11,00
 
ISBN 88-8356-013-2
 
 

Pubblicazione realizzata con il contributo de
IL CLUB degli autori in quanto l'opera «La muta»
è segnalata nel concorso letterario «J. Prévert» 2005
 
Prefazione
Incipit

 

Prefazione
Nel mondo di Sara si cambia pelle ogni sette anni e nelle "centrali della salute" si provvede a curare i pazienti nel periodo della muta.
Si abbandona qualche tratto del viso, si perde qualcosa ma dentro si rimane sempre gli stessi. Una sorta di sospensione in attesa della decontaminazione dalla vecchia pelle, una perdita di tessuto solo materiale che lascia comunque inalterata l'interiorità, l'essenza umana. Chiamare questo processo una lenta e costante depurazione dal passato poteva dirsi cosa vera ma in questa metamorfosi epidermica la vita poteva svanire, la mente perdersi ed essere incapace di trattenere i pensieri. L'involucro esterno si disfaceva ma l'individuo rimaneva al centro del suo corpo e il suo cuore si dimenava ancora tra gioia e dolore. L'attesa della muta portava con sé un senso d'angoscia, l'ansia e la paura della perdita, il timore di vedersi cambiati.
La sensazione di sentirsi alieni a se stessi poteva invadere le cellule e iniziare a fare i conti con il proprio "vuoto" alimentava l'inquietudine.
La vita come continua ricostruzione, come mutazione, come appartenenza a un mondo in perenne "muta": alla soglia dei cinquantanni Sara si trova davanti allo specchio l'immagine d'una donna dalla bellezza "impietosamente sprecata" mentre Lilli non ha rimpianti, ha preso dalla vita tutto ciò che le interessa, le sue scelte, vincenti o errate, erano state delle "vere scelte" e Maria "non ha rimpianti solo perché non ha incontrato mai cose da rimpiangere".
 
In questo romanzo di Gloria Bossi il testo necessita di una continua decodificazione perchè v'è sempre qualcosa di sotterraneo che si cela, le riflessioni sono sovente occulte, e l'Autrice pare impegnarsi alla bonifica dell'humus tossico che spontaneamente si sviluppa.
Gloria Bossi riesce a creare e ricreare una serie di visioni letterarie che devastano un tessuto narrativo che comunque è ben presente: la sua intenzione è di andare al di là del visibile, condurre "oltre" un ipotetico confine che delimiti il pensiero dei protagonisti, e quell'insistere sul fatto di coltivare la mente e la gioia della parola che renda esattamente le esperienze vissute avvicina alla desolante constatazione che è ardua impresa accorgersi che, ad un certo punto, ci si possa trovare nell'impossibilità di agire, con le gambe che non sorreggono più, in balìa degli eventi. L'impossibilità di compiere un gesto o di coronare un progetto diventa dolorosa "presa d'atto" d'una condizione disperata.
La colpa e "l'ineluttabilità che libera dalla colpa", il Bene e il Male, il desiderio o il bisogno d'amare, la natura e la filosofia dei colori, le elucubrazioni, le riflessioni che nascono spontanee e la consapevolezza che nasce dal confronto con gli altri, non sono altro che gli ingredienti d'una miscela esplosiva che tocca l'umano vivere, la conoscenza di sé, la possibilità di perdersi nella solitudine d'un "sapere melodioso".
"Meglio vivere e basta" si legge ad un certo punto. Il tempo scorra pure con i suoi minuti, le sue ore, i suoi giorni e gli anni "pesanti nel loro divenire", uguali nell'allontanare e nell'avvicinare: il problema è contenere la mente, frenare il suo potere di dissociare il tempo dal corpo.
Alle prime avvisaglie della "muta" gli specchi vengono accuratamente rimossi per impedire di vedere le sembianze informi e l'impossibilità di usare il corpo per assaporare il piacere diventa "pena intima", lamento ancestrale, lacerante e salvifico al contempo: sicuramente capace di offrire il campo a nuove dimensioni, pensieri ed attese.
"È come se nel corpo ci fossero intrecci che altrove non puoi trovare, connessioni uniche e irripetibili, un'intelligenza delle cellule, dei muscoli e dei vasi che sa del corpo perché lo compone, ma altrettanto sa della mente e del cuore. Non so bene perché. Sente, vede, respira e sceglie. Soffre le mancanze e desidera il cambiamento": togliere tutto, la pelle, i pensieri, le aspettative, i traguardi e le mancanze, e solo allora rimanere veramente "nudo".
Improvvisi varchi vengono inaspettatamente aperti da Gloria Bossi, e il suo stile onirico ed angosciante, non vuol far parte di niente e di nessuno: si assiste ad una lenta profanazione del corpo, ad una manutenzione di ciò che rimane, ad un dissidio tra "il riconoscersi e non appartenersi". Espiazione per ricominciare e riuscire a "sopportare" i ricordi: una crescita lungo la quale la "costruzione pratica" è affiancata da quella "ideale" in un continuo compromesso, con la speranza che finalmente la realtà e l'ideale si possano fondere e noi non sentirci più "spezzati". "Come se fosse davvero possibile ricominciare all'interno della stessa vita".
 

Massimiliano Del Duca

 
 
La muta

1
 
IL PAESE DEL "RI-SETTE"
 
 
Nella terra di Sara la pelle si cambiava completamente ogni sette anni.
Come i serpenti.
Squamandosi e cadendo a brandelli, a volte staccandosi qua e là mentre sotto i tessuti erano ancora granulosi e palpitanti di sangue vivo. Troppo delicati per reggere la luce del sole e il calore.
Spesso questo accadeva nei bambini, dove forse il sistema di ricambio non era ancora perfezionato. Allora venivano portati nelle Centrali della Salute: grandi case bianche, di aspetto vagamente coloniale, con porticati che correvano lungo tutto il perimetro delle costruzioni, sorretti da lunghe e lisce colonne e intervallati da ampie scalinate.
Intorno giardini dall'erba cortissima, rasati e innaffiati ogni giorno con cura.
Dovevano servire a riposare lo sguardo e a promettere benessere e serenità, soprattutto ai familiari, ma nessun ospite della casa vi metteva mai piede poiché l'alternativa alla guarigione e alla successiva dimissione era la morte.
Infatti quando i bambini, o in generale i futuri ospiti, arrivavano alla Centrale con lesioni troppo estese o troppo profonde o addirittura infette, spesso l'esito era segnato.
Ma di solito ciò non accadeva: tutti gli altri erano impegnati e guidati in ogni modo a riprendersi velocemente all'interno di quelle mura candide e protette e appena era possibile se ne andavano.
 
Sara puliva le grandi sale comuni e le piccole camere a due letti e amava con pena infinita coloro che arrivavano e di una gioia orgogliosa quelli che ne uscivano.
Ma forse più di tutto li amava mentre guarivano, mentre le piaghe si chiudevano e gli strati cutanei si depositavano, tornavano i sorrisi e i movimenti, ricomparivano i vestiti al posto delle bende.
Nella Casa tutto era lucido e liscio e dai colori tenui.
Niente doveva costringere gli occhi a uno sforzo troppo grande o provocare il minimo sfregamento contro la pelle.
Letti sedie armadi e divani erano realizzati in marmo bianco appena venato di grigio, facile da pulire e fresco al contatto.
Dopo avere lavato le superfici, Sara passava più volte al giorno un liquido oleoso medicato dal lieve profumo di menta.
Quando vi era stato un decesso doveva prima aspirare e poi passare con il getto bollente del vapore.
 
Sara era stata portata lì per la prima volta a sette anni e poi a quattordici e di nuovo a ventuno.
Sempre lo stesso problema: il distacco cominciava dai piedi e procedeva senza intoppi lungo le gambe e il busto, ma poi si arrestava alla base del collo.
Sembrava non volesse continuare.
La pelle penzolava dalla mandibola un po' sanguinante e un po' rinsecchita: normalmente il processo avrebbe dovuto completarsi nel giro di un paio di giorni ma in lei pareva fermarsi. C'era un'ultima tenace resistenza nel viso che col passare dei giorni diventava insofferenza e disgusto e irritazione. Anche e soprattutto per i genitori.
Il padre diceva che nessuno nella sua famiglia aveva mai avuto questo inconveniente, alla madre sembrava di ricordare una lontana parente, morta peraltro abbastanza presto, forse al quinto tentativo.
D'altronde non esistevano ancora le Centrali della Salute e si ricorreva a impacchi di dubbia natura o all'opera imprecisa e dolorosa delle forbici.
Ma Sara era sempre stata molto bella, troppo perché si potesse pensare di non intervenire adeguatamente.
 
"Proprio bella!" pensava Sara bambina mentre si guardava allo specchio, controllando contemporaneamente il distacco procedere lungo le gambe.
Belli quegli occhi verdi dalle ciglia lunghe e curvate all'insù, quelle guance sempre rosse e lisce, le orecchie piccole e ben attaccate alla testa, la massa di capelli castani coi riflessi color rame.
Una volta la madre era riemersa dal proprio "Ri-sette" coi capelli biondi e le sopracciglia nere. Avevano riso tutti tranne lei.
La parte più delicata era il viso e spesso sembrava richiedere un piccolo tributo: la perdita di un neo con cui avevi convissuto per almeno sette anni, una fossetta diversa ai lati della bocca che non ti apparteneva, una piega sulla fronte che non ti riconoscevi.
Dentro eri ancora tu, con gli stessi pensieri, con l'acquolina in bocca per il cioccolato, con i tuoi ricordi, ma da ogni superficie riflettente ti guardava un viso diverso.
 
Sara aveva temuto soprattutto per i suoi capelli.
Arrivavano fino a metà schiena in lunghe onde lucide che l'umidità dell'aria arrotolava e lei li raccoglieva spesso sulla spalla sinistra, rigirandoli in continuazione fra le dita, mordicchiandoli e stringendoli tra il naso e il labbro superiore.
Li vedeva dunque, continuamente, e non tollerava l'idea che adesso potessero cambiare.
Dopo giorni di attesa e di piccoli maldestri tentativi di intervento dei familiari, Sara venne portata alla Centrale.
Tutta un'ala della casa era riservata al primo ciclo, a bambini quindi fra i sei e gli otto anni (una piccola flessibilità nell'età era ammessa) con eccezione di due spilungoni di dieci anni che erano in evidente e spaventato ritardo.
La retta era molto alta ma si mangiava benissimo e il risultato era quasi assicurato.
Più volte al giorno i bambini dovevano immergere la parte refrattaria o l'intero corpo in vasche piene di un liquido azzurro e frizzante, dove si poteva giocare e anche bere.
Nel giro di poche ore tutti erano impegnati a fare solenni rutti e la guarigione era generalmente accelerata dall'entusiasmo con cui stavano in acqua.
Sara ruttava con difficoltà anche perché doveva stare il più possibile completamente immersa sotto la superficie , ma in compenso imparò presto a nuotare in apnea per lunghi tratti.
Poi c'era l'asciugatura sotto a un dolcissimo getto di aria tiepida e il massaggio con unguenti profumati.
E ancora il gioco e il pranzo e la televisione, abbandonati su poltrone e sofà rivestiti di un materiale speciale che non si attaccava alla pelle, ma che lasciava addosso un vago aroma di calendula.
E così fino a sera e fino al momento di andare a riposare.
Generalmente bastavano due o tre giorni. Qualche volta un po' di più.
Alla fine del quinto il viso di Sara era incorniciato dalla pelle staccata che ancora resisteva prima di arrendersi a coinvolgere il cuoio capelluto.
Le sicurezze economiche del padre vacillarono alla notizia, ma il direttore promise un forte sconto in virtù dell'interesse scientifico che il caso presentava.
Ci vollero altri sedici giorni perché il processo si completasse.
I nuovi capelli di Sara erano ovviamente appena accennati, ma tutti dichiararono che sarebbero stati altrettanto belli.
Lei non ascoltava.
Restò per altri due giorni distesa sul suo letto bianco, a passare le mani avanti e indietro sulla curvatura quasi liscia della testa.
Poi arrivò il padre, si sedette vicino a lei e le disse di non avere più un soldo.
Allora Sara si alzò e tutti tirarono un sospiro di sollievo.
 
Il secondo "Ri-sette" passò senza particolari inconvenienti.
Sempre un po' lento, un po' protratto nel momento del distacco definitivo, ma complessivamente buono.
Il viso spesso brufoloso degli adolescenti, o comunque la fatica nell'accettarsi in sembianze quasi sempre poco amate, favoriva l'evento.
Probabilmente per quel meccanismo animale e profondo per cui i calori e le mestruazioni tendono a sincronizzarsi all'interno di un gruppo femminile, le ragazze esaurivano la muta generalmente tutte insieme negli ultimi giorni di maggio e i maschi le seguivano di poco. Come se la vista dei nuovi corpi che tornavano a uscire dalle case scatenasse in loro il desiderio e il bisogno di adeguarsi e raggiungerle.
Allora, nel mese di giugno, in tutti i paesi, si teneva una grande festa durante la quale era permesso bere e fumare e baciarsi in pubblico.
Cose ritenute molto disdicevoli in qualsiasi altra occasione.
Non che gli abitanti di questa terra fossero particolarmente moralisti, ma l'organizzazione sociale prevedeva un'estrema libertà solo all'interno del proprio gruppo e ciascuno di questi viveva rigorosamente separato e indipendente.
Essi riguardavano principalmente le varie fasce di età, la suddivisione in maschi e femmine fino al secondo "Ri-sette", in omosessuali ed eterosessuali dal terzo in poi e anche i single distinti dalle coppie distinte dalle famiglie.
Ogni insieme si diversificava poi in base all'occupazione, allo sport, all'alimentazione, e così via.
C'era insomma una naturale inclinazione a riconoscersi o escludersi, veloce e rigida nel suo strutturarsi.
La nascita di un figlio faceva scivolare serenamente dalla categoria "coppia" a quella "famiglia". Ma una separazione trascinata e dibattuta, una malattia che obbligava a una dieta particolare, la perdita non pianificata di un lavoro, lasciavano l'individuo a lungo sospeso e solo, come se egli fosse stato contaminato dalla sua appartenenza trascorsa e ora dovesse depurarsi da essa.
Non si riconosceva negli altri né essi lo riconoscevano.
 
Anche per costoro esistevano dei centri di ritrovo.
Le chiamavano le Case Pallide.
Mentre tutte le varie categorie si configuravano nitidamente attraverso i colori o l'abbinamento di essi con semplici disegni stilizzati (le famiglie si distinguevano per un sobrio e uniforme rosa ciclamino, così le case ne avevano dipinti i muri esterni e ciascun membro portava sempre almeno un indumento di quel colore, possibilmente anche le moto, le automobili, gli ombrelli o gli zaini della scuola; lo stesso succedeva in rosso per i single, in sfumature di verde variamente intrecciate per i giardinieri o in bolle di ogni tonalità del blu per i subacquei, e così via per ogni altra possibile tipologia, abbandonando l'una per rientrare in un'altra e solo in casi particolari potendo sommarne più di una) invece gli appartenenti a questa terra di nessuno ne perdevano il diritto.
Ad essi erano semmai concesse le sfumature e i toni smorzati.
Niente di netto e ben definito.
Niente che desse una forma e una possibilità di precisa configurazione e catalogazione.
Le Case Pallide erano silenziose: la gente parlava sussurrando, rideva piano e si muoveva con attenzione. La carte e i giochi da tavola erano le occupazioni preferite, ciascuno si preparava il suo mangiare e lo consumava preferibilmente da solo, magari leggendo qualcosa.
Vi erano solo due camerate, con un numero variabile di brande grigie addossate alle pareti, poiché chi arrivava montava la propria e andandosene la riponeva.
Si aspettava.
Che la vita cambiasse, che arrivasse ad offrire un'opportunità di rientrare con impegno e sollievo nella normalità che scorreva limpida e colorata fuori di lì.

2
 
LA TERZA MUTA
 
 
Il terzo "Ri-sette" era iniziato tardi, quasi allo scadere del ventunesimo anno.
I mesi passavano e Sara si controllava ogni giorno con ansia crescente.
L'angoscia tratteneva la pelle, abbarbicata ad ogni centimetro, inondando di un timore incontrollabile l'attesa di quel momento.
C'era la solita paura della perdita, di ritrovarsi troppo diversa, ma anche qualcosa di sconosciuto e sottile.
Gli studi erano finiti e la sua famiglia premeva perché lei trovasse un lavoro.
Un lavoro e un colore.
Commessa in un negozio: giallo coi pois neri.
Bidella in una scuola: a righe rosa e azzurre.
Cameriera in un ristorante: a scacchi rossi e bianchi, ma se la cucina era vegetariana diventavano rossi e verdi.
Per qualche inspiegabile motivo l'abbinamento del colore condizionava dentro di lei la scelta e la spaventava.
Erano tutti belli e gli stendardi che sventolavano colorati fuori da fabbriche uffici o negozi erano allo stesso tempo essenziali e curati nel disegno e nella manifattura nei minimi particolari.
Eppure le sembrava che a ciascuno mancasse qualcosa o che al contrario ci fosse troppo o che comunque mancasse il suo, quello che le corrispondeva, quello a cui poteva appartenere. O infine che fosse lei che non voleva far parte di niente e nessuno.
Come i ladri le prostitute e gli assassini.
Come tutti coloro che si ponevano al di fuori o contro la loro struttura sociale.
Come i vagabondi, gli studenti fuori corso, i pensionati che volevano lavorare e i lavoratori che chiedevano la pensione anticipata.
E anche come coloro che erano impiegati nei cosiddetti servizi, i quali sfuggivano alla classificazione attenta di questa società poiché appartenevano a tutto e a niente in particolare, producevano senza che si vedesse il prodotto, erano tanto meno sopportati quanto più necessari.
E non avrebbero dovuto esserlo: in una società così ben divisa e organizzata, con un colore per ogni nome e un nome per ogni cosa, essi avrebbero dovuto naturalmente venir assorbiti in un proprio settore e tingersi di esso.
E invece no. Poiché servivano senza neanche poterli considerare servi.
Si era tentato di uniformarli almeno al loro interno, di farli diventare un'entità unica, connotabile e colorabile, ma la varietà delle loro specificità continuava a rimandare il completamento di questo lavoro. Da lì sembrava nascere una ribellione poco appariscente e non dichiarata, scuotendo la solidità di tutta la nazione che si era eretta su quella frammentazione infinita e infinitamente rigida.
Sara percepiva ma non sapeva, respirava ma non riconosceva.
Una sua amica studentessa che accudiva nel pomeriggio i bambini di una casa agiata aveva rifiutato di prendere il colore ciclamino delle famiglie ma anche quello azzurro e rosa degli studenti o quello marrone attraversato diagonalmente da una scala a gradini bianchi e neri della facoltà di architettura che frequentava.
L'imbarazzo era stato grande e palpabile.
Le ragioni confuse e insufficienti.
Dopo un mese la ragazza era sparita.
 
In quella inquietudine crescente Sara temeva l'avvento della sua terza muta.
Temeva i progetti e i desideri che i suoi familiari probabilmente nutrivano e soprattutto il proprio vuoto.
Quando iniziò la muta smise di mangiare.
Mancava poco più di un mese al suo ventiduesimo compleanno: la trovarono priva di sensi in una bella mattina di marzo, di quelle fredde e limpide, e la portarono subito alla Centrale della Salute.
Il distacco avvenne quasi completamente a sua insaputa poiché era praticamente sempre sotto l'effetto di potenti sedativi.
Quando le permettevano di svegliarsi urlava e si dibatteva, finché non veniva nuovamente addormentata.
Così il ricambio della pelle si completò più rapidamente del solito.
La madre chiese che venisse protratto il suo sonno fino a che i capelli non raggiungessero i due o tre centimetri e così fu.
Mentre dormiva molti dottori si succedettero al suo capezzale per studiare e sperimentare, molte mani di giovani infermiere la lavarono e unsero, molte fotografie furono staccate.
Quando riuscì a sopportare di essere sveglia ci vollero ancora parecchi giorni perché la sua mente tornasse lucida e il suo corpo totalmente autonomo.
I genitori erano molto provati: parlarono a lungo fra loro della necessità di fare qualcosa per arrivare al successivo "Ri-sette" in una condizione migliore.
Nacque l'idea di farla lavorare lì, che lei entrasse a far parte proprio di una Centrale della Salute come quella da cui era appena stata salvata. Che si trovasse ad aiutare altre persone a superare quella difficoltà. Che ripagasse almeno in parte in quel modo i debiti che il padre aveva accumulato con la lunga degenza.
 
Lo stendardo delle Centrali era formato da tanti piccoli e regolari mattoni rosa pallido, appena leggermente profilati di bianco.
"Insignificante" - pensò Sara.
Non era vero, ma proprio l'avversione che provava per quel chiarissimo significato le faceva rifiutare la comprensione.
Perché quel destino di doversi sempre e totalmente ricostruire? Per niente, per essere di nuovo e ancora qualcosa di codificato e stabilito dall'esterno.
Perché mutare? Perché dover appartenere?
Perché perdere per riavere più o meno uguale?
Perché doverlo per forza subire?
"Perché è così - le diceva un po' stizzita la madre - ci sono voluti millenni e centinaia di generazioni per mettere a punto un sistema così intelligente e funzionale.
Adesso tu arrivi e lo rifiuti.
Ma ti rendi conto che io ho cinquantasei anni e la pelle liscia e levigata e morbida come quella di una quattordicenne?"
"Però sotto la pelle gli acciacchi ci sono..."
"Ma non si vedono - la donna sbuffava con impazienza - e potevi fare a meno di ricordarlo."
"Non penserai di cambiare le cose tu - insisteva più pacatamente il padre - di invertire il cammino dell'evoluzione di cui parlava tua madre?
Le malattie della pelle, tranne gli incidenti occasionali durante la muta, sono praticamente scomparse. La gente si vede più giovane e si piace di più. Qual è il problema?"
Sara non lo sapeva.
A distanza di qualche mese dal "Ri-sette" era tornata bella come prima.
I capelli ancora corti incorniciavano un viso luminoso e attraente. Le braccia erano lunghe e flessuose, il seno alto e pieno, le gambe dritte.
Guardandosi così nello specchio, qualche volta da sola e nuda, non poteva dire che ci fosse qualcosa che non andava. E neanche pensarlo.
Era solo un sentore profondo e senza nome che borbottava dentro di lei e che talvolta si faceva strada fino alla sua bocca mischiandosi inaspettatamente con le parole che allora uscivano aspre e insofferenti.
"Hai deciso?" - chiedeva il padre.
"Che cosa?" - ribatteva lei, pur avendo capito benissimo.
"Per il lavoro. Non che sia urgente, ma sai, dopo l'ultima muta non ci siamo ancora ripresi e poi... certo puoi stare qui quanto vuoi... però, alla tua età..." - concludeva neanche poi tanto sibillino.
"Magari non dice niente e invece c'è già qualcuno pronto per sposarla!" - tentava la madre.
Ma nessuno ci credeva.
Sara alzava gli occhi al cielo e se ne andava brontolando, mentre i genitori scuotevano la testa pensando a quella loro croce.
Qualche volta Sara accettava di discutere.
"Io vorrei lavorare ma non so... non c'è niente che mi piaccia davvero. Oppure mi ispira ma ha dei colori e dei disegni così brutti!"
"I colori non mi sembrano tanto fondamentali per scegliere.
Fanno parte della nostra cultura ma sono solo dei segni su un pezzo di stoffa.
E poi potresti inventarti una nuova occupazione, con lo stendardo corrispondente, e farlo approvare alla Camera degli Stemmi!"
"Dio che onore sarebbe! Nella nostra famiglia nessuno l'ha mai fatto!
Pensa, potremmo ottenere di aggiungerlo al nostro fucsia se tu continui a vivere con noi!"
La voce della madre squittiva dall'eccitazione.
Sara si sentì per un attimo sopraffatta, dalla fatica di dover pensare e inventarsi un lavoro e i colori corrispondenti, dall'idea di rimanere più a lungo in quella casa, ancor più legata ad essa dal suo genio creativo, dal divenirne addirittura l'orgoglio.
Li lasciò che parlavano animatamente fra loro, consolati dalla visione appena avuta.
 
I passi la condussero verso la Centrale.
Provava verso quella costruzione un trasporto quieto e sincero.
Ricordava lo sgomento con cui era entrata ogni volta e il sollievo con cui ne era uscita. E anche i giorni trascorsi lì, quando la progressiva accettazione dell'ineluttabile le permetteva pian piano di godere il candore delle stanze e la presenza dei profumi che si sostituiva a quella ingombrante dei colori.
Più discreta e libera, adattabile e mutevole.
Attaccato al cancello vi era un cartello di ricerca del personale: si richiedeva qualcuno di attitudine gentile e riservata, con precedente esperienza lavorativa nel settore.
Sara non ne aveva, ma sapeva di possedere quella comprensione profonda dell' altrui sofferenza che si espande nello sguardo nelle parole e nei gesti, creando un ponte con l'altro che gli diventasse possibile accettare.
Allora suonò il campanello.
Fu accolta con un iniziale stupore e un progressivo entusiasmo.
Era strano vederla quando una muta era appena passata e l'altra era molto lontana.
Ancora più strano ascoltarla spiegare il suo desiderio di lavorare lì.
Quando le persone, bimbi o adulti che fossero, venivano dimessi, ne stavano ben distanti.
Anche per strada il personale veniva trattato gentilmente ma un po' evitato, come se a nessuno piacesse confrontarsi di nuovo con chi aveva potuto guardarli e maneggiarli nella loro nudità.
Spesso le assunzioni si riuscivano a fare solo fuori città o provincia. Fuori dall'ambito delle conoscenze e dei rapporti personali e possibilmente dei legami familiari.
E invece ora Sara tornava e si metteva a disposizione, con lo sguardo timido ed eccitato di chi sta per compiere una marachella, o l'ha già compiuta, o ha un pensiero troppo grande e spiritoso dentro di sé.
 
Il reparto per cui si cercava personale era quello degli anziani. Come sempre.
Se c'era una profonda pena mista alla tenerezza per i bambini, e ancora comprensione per gli adolescenti, tutti questi sentimenti che rendevano possibile e valida la qualità dell'assistenza via via diminuivano, fino a lasciare solo il fastidio, l'esasperazione, il disgusto.
Il personale resisteva poco.
Si tentava di fare dei turni con gli altri reparti, ma chi lavorava coi vecchi per più di due o tre volte ne usciva svuotato, contagiato dalla loro apatia, dalla perdita della memoria che sembrava partire proprio dai colori per estendersi poi lentamente all'indietro su tutta la vita.
Sara non fece obiezioni e cominciò a lavorare.
Lo stipendio era buono e sicuramente proporzionale all'ingratitudine del lavoro.

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