Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Giuseppe Carnabuci
Ha pubblicato il libro
Giuseppe Carnabuci - La ragazza dimenticata

 

 

 

 

 

 

 

Collana I salici (narrativa) 14x20,5 - pp. 88 - Euro 8,10 - ISBN 88-8356-526-6

Prefazione
Incipit  


Prefazione

 

Dopo aver pubblicato negli ultimi anni numerose raccolte di poesie ora Giuseppe Carnabuci ritorna alla narrativa con La ragazza dimenticata ma non è una novità perchè ha già pubblicato altri tre romanzi che però non ho avuto l'onore di recensire.
Sotto questa nuova veste si presenta in modo garbato e con un capriccioso diario delle storie d'amore dove non manca nulla: incontri inaspettati, turbamenti, innamoramenti, sensi di colpa, scenate, abbandoni e colpo di scena finale.
Le prime pagine del libro attirano decisamente alla lettura perchè sono intriganti e maliziose: sembra esservi una sorta di compiacimento nel raccontare della bellezza femminile o di memorabili conquiste.
Tanto per dare un breve assaggio leggiamo del corpo fremente di una donna, e sembra di toccar con mano, pronta all'aggressiva morsa del piacere, palpitante, infiammante, travolta dal vortice d'amore, assalita da una frenetica foga, frenesia e sommersa da una tempesta di passione travolgente: ma si tratta solo del racconto di un collega che è fantastico nell'affabulare con fantasie di ogni sorta.
Ma la realtà è il lavoro quotidiano in ufficio, i colleghi, la vita con gli amici, i ricordi d'infanzia, i problemi con le donne, il desiderio di libertà, la sofferenza dell'abbandono e via dicendo.
Grazie ad una scrittura lineare e divertita, eccetto che in alcuni episodi, l'autore vuole riportare vicende sentimentali raccontate con un tono quasi distaccato ed ecco passare in rassegna le varie donne amate o solo conosciute: Tecla viziata ed immatura, bisognosa di molti regali ed attenzioni particolari, Daniela bruna, snella e dal portamento professionale, Giuliana intellettuale e anticonformista, e infine Viviana mora, ventenne, e fotomodella.
Sarà proprio Viviana a nascondere un segreto che si tramuterà in un colpo di scena inaspettato che farà scoprire la sua vera identità.
Le storie si fanno leggere con interesse e le figure femminili sono sempre rese con mano fedele e sapiente senza enfasi o inutili divagazioni: una costante attenzione è riservata ai dialoghi che scorrono veloci e alle riflessioni del narratore che non sovrasta mai la scena.
Giuseppe Carnabuci costruisce insomma, tratto dopo tratto, storie di donne amate o solo conosciute, ricorda incontri, scenate e turbamenti talora contraddittori che tendono a trascinare verso le sabbie mobili.
Si avverte la sensazione di voler raccontare cercando di rendere efficace il fremito dell'innamoramento, l'apparizione celestiale, l'inquietudine che turba, l'amore rivelato, e nell'ultima figura femminile l'amarezza per un sogno finito.
 

Massimo Barile


La ragazza dimenticata

Ogni riferimento a persone esistenti e/o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

 

ad Ettore Schmitz

 

 

Alla "Donna", che, nonostante tutto,

resta sempre "l'invenzione" più bella,

più complessa, più oscura di questo nostro mondo.

 

IN UFFICIO LE ORE NON PASSAVANO MAI
 
 
 
"77".
"Le gambe delle donne".
"Sbrigati, dammi un numero".
"Al giardin ti porterei".
"Faccia presto: non dorma".
"Hai sbagliato tutto il protocollo".
"Lo scecco e lo mulo sono nati per dare lo culo".
"Che fai, non timbri le ministeriali?".
"Un momento, aspetti".
"Hai mangiato fagioli?".
"È un'ora che cerco una pratica".
"Questa la vuole il capo".
"C'è un numero che non quadra".
"Stai zitto che mi confondi".
"Abbia pazienza un momento, dottore, e sono da Lei".
"Chi ha vinto giovedì al Rischiatutto?".
"Qui c'è un gran casino".
"Giovedì c'era il torinese".
"Parla piano, mi fai sbagliare".
"Che farà l'Inter domenica?".
"Vota MSI che ti salvi".
"Oggi che mangia, Lei?".
"Devo prendermi le ferie".
"Piantala, hai rotto".
"Lenticchie".
"Hai visto quella puttana ammazzata ieri?".
"L'aereo che è caduto portava venti italiani".
"Bisognerebbe ammazzarli tutti, i capelloni".
"Dammi il timbro della 'copia conforme'".
"Ai tempi di Mussolini queste cose non accadevano".
"Eccì".
"Dove hai messo il timbro di facente funzioni? Da lunedì il capo manca. Non dimenticare la data".
"Salute".
"Un altro che prendeva droga: bisognerebbe ammazzarli tutti!".
"Grazie, poca".
"Dove?".
"A pagina 3".
"È stata spedita la raccomandata a Milano?".
"Quale?".
"Sta' zitto, fammi sentire le notizie sportive".
"La frusta ci vorrebbe per quel disgraziato!".
"Quella del 3 scorso".
"Questi giovani d'oggi...".
"Dammi il datario. La data di ieri: mi sono scordato".
"Vogliono tutta la pappa bell'e pronta".
"A questo gli scriviamo di regolarizzare il bollo. E poi lo freghiamo e non gli diciamo niente: segreto d'ufficio. Così impara a fare il furbo".
"Ahi! Mi hai urtato!".
"E chi se ne frega! Scusa".
"Fate meno casino".
"Scusa questa minchia".
"Allora, la pratica della Ornelli?".
"Quant'è la tassa sul bollo?".
"Aho, piantala, abbassa la voce!".
"Oggi mangio pollo lesso".
"Questo ha fatto la richiesta due mesi fa".
"Che ti possa restare sul gargarozzo!".
"Dammi il timbro tondo".
"Questa non me l'ha firmata".
"Accidenti, mi si è scaricata la penna".
"Che fai, non mi senti?".
"Non fare il tonto".
"Datemi una gomma per matita".
"47, morto che parla".
"Come sta tua moglie?".
"Dov'è il bollo della franchigia?".
"Parla piano: mi sto concentrando".
"Ancora un po' raffreddata".
"Con la nuova legge, guadagniamo due anni".
"L'anno venturo devo prendere ottimo".
"hanno censurato L.".
"Vòi fari a muzzicuni?".
"'Stu dì' e strunz...".
"Puru u cestinu m'hai arrubbatu!".
"Sfaccimm...".
"Dove minchia t'à pijasti a laurea?".
"Cesso!".
 
Era finalmente ora d'uscita. Ridiventavamo tutti amici, eravamo compagni d'un unico destino. Una giornata era passata, una come tante. Ci aspettava un solito percorso straconosciuto in ogni piccola ruga, nella linea d'una "rotaia" che conduceva al tragitto d'ogni giorno. Ed era sempre un giorno in meno da trascorrere, da vivere. Era un bene o era un male?
 

 
ROBERTO SI RACCONTAVA...
 
 
... Era eccitatissima. Il suo corpo fremeva come fosse sul punto di fondersi, di sciogliersi al contatto con la mia sbalordita presenza. La vestaglia s'aprì e apparve il suo corpo imperioso, pronto nell'aggressiva morsa del piacere senza confini, avanzante verso la mia inerme nudità, la mia sbalordita presa di coscienza.
Era eccitatissima. Mi piovve addosso con mille tentacoli di palpitanti contatti, simili a ventose di risucchianti vortici. Mi travolse nelle frenetica foga d'un abbraccio furente, da peso morto, ma vivo nel contempo, di alitanti respiri. Mi baciò con frenesia. Poi fui inghiottito dal suo vortice, fui risucchiato nella tempesta della sua snervante e predominante passione: ero completamente in sua balia: venivo sballottato tra le sue tenaglie furenti del piacere, ero nulla, o meno di nulla. Obbedivo, trascinato, agli impulsi della sua corrente vorticosa, lacerante, travolgente. Era infiammata, quasi febbricitante: venivo stretto nelle spire dei suoi baci vorticosi, dei suoi morsi rabbiosi, degli assalti del suo corpo ormai schiavo soltanto degli impulsi incontrollabili del piacere fisico.
Era sopra di me. Mi chiamava. Chiedeva un prolungamento estremo al suo piacere, imprecava, m'implorava d'essere un dio, soltanto per lei, e di non lasciarla sola negli spasmi d'un piacere sovrano e poderosamente sfibrante, quasi scioccante nell'assoluta acuità dei sensi, nell'estremo limite del piacere, confinante col dolore spasmodico d'ogni fibra nervosa chiamata in causa e, come tale, totalmente condizionata ed assolutamente immedesimata alla sua richiesta di collaborazione. Si distese. Poi si contrasse chiedendo il massimo a sé stessa, alle sue possibilità. Prendeva il sopravvento su qualsiasi cosa si trovasse a passare nel suo snervante cammino: era lei la dominatrice. Ingigantì i suoi sussulti come amplificandoli in intensità da una cassa di risonanza, in durata come dal passaggio attraverso un diapason. Era una belva sciolta da ogni freno e saettante su sentieri in salita, dove le sue unghie raspavano il terreno producendo surriscaldati attriti, simili a brucianti scintille. Io ero parte di lei. Ero la sua stessa pelle.
Finalmente, si smorzò, ansimando piano in brontolii sommessi eppure provenienti da vorticanti tonalità, che s'attenuavano gradatamente. Giacque supina. Esausta, quasi inerte, mentre rivoli di sudore, quali minuscole ma persistenti fontane, sgorgavano dalla sua pelle ancora bruciante, inondando il letto di affluenti rigagnoli, già trepidanti ruscelli che scorrevano lenti come un palpitare di gocce frementi. Era esausta, ma felice. M'invocava, chiedeva una conferma di presenza alle mie vuote energie, alle mie travalicate sostanze. Mi chiamava, serena. Era finalmente in pace con sé stessa e con il mondo. Non aveva più lacrime, più dolore, solo stille di piacere, che lambivano, quali nugoli intensi di sudore, la sua pelle in lento, inesorabile raffreddamento...
 
Eravamo in cinque ad ascoltare l'ultima avventura amorosa di Roberto. Che fosse tutta una storia vera? Nel corridoio dell'ufficio, c'era poco spazio, ed eravamo stipati nella descrizione di quella storia straordinaria. Certo, di sicuro c'era che sapeva raccontare con dovizia di particolari, forse anche eccessiva; intanto, il tempo passava, e ci avvicinavamo tutti all'orario d'uscita. Almeno questo...
 

CON ROBERTO, QUALCHE VOLTA,
CACCIAVAMO STRANIERE
 
..."Buttati con quella a sinistra. L'altra è il mio tipo".
Roberto si aggancia. Ride, parla, gesticola: nulla di fatto.
"Non può andare sempre bene" (è il suo desolante commento).
Ma si riprende quasi subito:
"Ci abbiamo ancora tanto tempo. Ed è una bella giornata. Lascia fare a me".
Intanto, le due straniere, che lui ha tentato di abbordare, continuano imperterrite ed altezzose nella loro direttrice di marcia, quali puledre non dome. Ed è ora il turno della marina. Dietro, ci sono già pronti, ghignanti, due marinai in formazione d'attacco.
"Carne a dritta!".
La vichinga trotterella con i suoi gamboni di cavalla di razza, supervitaminizzata, omogeneizzata, a testa alta, palesemente appropriabile, gli occhi chiari e trasparenti come l'acqua di fontana, gelidi nell'espressione.
Roberto parte deciso, sicuro, ostinato; ha ritrovato la "carica iniziale". La fissa lungamente con i suoi grandi occhi bovini. Seguono pochi gesti. Poi:
"Com'è andata?".
"Bisognerebbe perderci tempo".
"Non ci è mica scappato il 'vaffan', eh?".
"No. Stai tranquillo. Era andata quasi bene".
"Ma se sta ancora bestemmiando nella sua lingua...".
"Eccone altre due: buttiamoci".
"C'è troppa gente che guarda".
"La solita vergogna. Fregatene. Vado avanti io. Coprimi con quella di sinistra: sembra la più malleabile. Mi raccomando, sorridi e parla, sii naturale, soprattutto, cerca di rompere il ghiaccio. Ma fa' presto: ci sono dietro altri due e stanno per farsi avanti".
"Vado".
"Di dove sono?".
"Eccomi, sono americane".
"L'hai agganciata?".
"Quasi. Che fai? Seguimi".
"Queste corrono come gazzelle".
"Allunga il passo, svelto".
"Mi sembra di fare una campestre"
Lasciamo perdere: non è aria. Non valgono neanche la pena. Lasciamole a quei due
burini. Sono scarto, per noi".
"A sinistra, bionde in vista".
Roberto rassetta la sua figura, si passa una mano nei capelli, tira su il nodo della cravatta:
"Tedesche; attacca in inglese".
"Sembra facile...".
"Dài, le solite cose... lo sai a memoria il discorso".
Inaspettatamente, l'urlo vittorioso di Roberto rompe l'incertezza:
"Hanno sorriso: ci stanno, ci stanno, forza e coraggio!".
"Chiedile quanto si trattengono".
"Una settimana: 'na pacchia!".
"Daje sotto".
"Chiedi stasera che fanno. Che vogliono vedere: Ce le portiamo al
Pighetti?".
"Vai così, vai forte, vai sicuro".
"Questa me la pappo io. Guarda quanto è bbona! Vedi come ride la verginella, non sa che l'aspetta. Ci penso io a te, pollastrella del mio cuore, sei tutta mia, parola di Roberto, detto Robin".
"Dài, non ti emozionare".
"E chi s'emoziona? Tu, piuttosto".
"Non sono il tipo".
"Lo dici ora che ho rimorchiato io".
"E perché, io...?".
"Te l'avevo detto: su 10, dicono le statistiche, 2 ci stanno. Su 5, 1. Parola di ABC. È la terza volta che ci buttiamo e ci è andata bene. Le americane non contano: erano troppo
ragane. Bisogna sempre fidarsi delle statistiche. Co' queste ce vo' la macchina. Penso a tutto io stasera. E mi raccomando: poi, ognuno pei fatti suoi senza impicci o inghippi, sennò siamo fregati. Intesi?".
"E come no..."...

SI CHIAMAVA VIVIANA
 
A mezzogiorno, in ufficio, avevamo una piccola pausa, un quarto d'ora circa: ne approfittavamo tutti per riversarci nei bar dei dintorni a consumare una piccola colazione: un caffè, un cappuccino, panini, brioches, tramezzini, sandwiches. Io prediligevo un piccolo bar dove trovavo degli ottimi tramezzini di vari gusti, ed erano abbastanza freschi, potevo contare su pochi minuti, perché l'obbligo del rientro incombeva fatalmente e non avevo neanche il tempo di sedermi ad un tavolo, (a patto che lo trovassi libero), leggere il giornale, conversare con qualcuno.
L'avevo vista, qualche volta, seduta al tavolo, che consumava una piccola colazione: era mora, carina, sui vent'anni o poco meno, sicuramente abitava o lavorava nella zona.
Quella volta, ero entrato prima io, c'erano rimasti solo due tramezzini al prosciutto/funghi di cui andavo ghiotto, e, che, scoprii, prediligeva anche lei. Mi offrii di dividerli con lei: uno a testa, così non si scontentava nessuno. Sorrise con gratitudine: per così poco. Cominciammo a scambiare due chiacchiere: si chiamava Viviana, abitava ad un centinaio di metri dal bar, in affitto. Era del nord, esibiva un inconfondibile accento lombardo.
Disse che era a Roma per lavoro: sperava di fare la modella o l'indossatrice. Adesso viveva lavorando in uno studio fotografico, dove si prestava per foto pubblicitarie o per servizi di gruppo, in sponsorizzazioni propagandistiche e commerciali.
M'apparve una persona di palpitante vitalità, forse con una punta d'ombra nello sguardo: era sincera? Era soddisfatta della sua vita? Sicuramente era in leggera difficoltà, dovendo sopravvivere in una città che non era la sua, forse non poteva contare su amici, su gente che la proteggesse. Aveva frequentato il liceo artistico, per cui, mi raccontò, avrebbe potuto aspirare ad una carriera di disegnatrice o di figurinista; ma non conosceva nessuno nella grande città, dove tutto le era estraneo, poteva diventarle pericoloso, specie per una donna bella, giovane e sola, senza punti di riferimento e protezioni disinteressate, amichevoli, soprattutto proficue. Era in via di confidenze, cominciava un po' ad interessarmi tutto di lei? Che ci faceva una donna sola in una città così grande, ostica, imprevedibile?
Forse, m'ispirava un sentimento a metà tra la tenerezza ed un leggero senso di pena: la vedevo così espressamente inerme ed inguaribilmente ottimista.
Mi ventilava un sommesso desiderio di proteggerla in qualche modo; ma, in effetti, chi ero io, per lei? Soltanto un estraneo, conosciuto di vista, per casuali coincidenze, in un bar. Sicuramente, i nostri mondi erano diametralmente diversi: io, anche se in pianta avventizia, avevo un impiego fisso, ero "quasi" di ruolo, avevo uno stipendio su cui potevo contare (anche se non "robusto", anzi, più modesto, che gratificante); lei, come viveva? Quanti pasti poteva permettersi? Ed, ammesso, che avesse trovato un "vero" lavoro nella grande città, ne sarebbe rimasta contenta?
Lei non si sbilanciava più di tanto, non mi raccontava niente che potesse aiutarmi a completare un mosaico sulla sua persona o sulla sua vita, quasi a volermi tenere a distanza, al margine della sua vicenda, di ciò che era effettivamente la sua esistenza di quel momento.
Io non chiedevo nulla che lei non volesse discoprirmi, ero sulle mie, con cortese, controllata indifferenza. Uscimmo insieme dal bar. Camminandole vicino, ebbi modo d'accorgermi che possedeva un corpo quasi perfetto: snella di fianchi ma ben imbottita nei punti giusti. Il tutto era sovrastato da un viso leggermente acerbo (e causa di ciò era, o almeno contribuiva a porlo in risalto) un trucco molto leggero, quasi assente, un accenno di matita alle palpebre, ed una punta di cipria sulle guance, quasi una spolveratura, niente rossetto, niente fard, niente rimmel, solo un volto fresco e pulito nell'offerta d'una sensazione di candore, di genuino senso d'alitante respiro.
Mi salutò con un mezzo sorriso, un luccichio vivo, brioso, negli occhi neri, che forse voleva dire qualcosa di più: grazie dell'attenzione, grazie d'avermi scoperto come persona, senza secondi fini, con un calore spontaneo, giovanile, forse cameratesco.
Oppure era un semplice saluto, per di più frettoloso.
Quindi s'immerse nella folla, cercando la sua strada.
Anch'io, di fretta (il quarto d'ora di pausa era abbondantemente scaduto) mi diressi verso l'ufficio.


 
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Ins. 11-08-2003