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LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
  Poesie di
Giancarlo Albisola
Albertalli
Un Maestro della Poesia
omosessuale del '900


Dal volume
Poesie per un "diverso"


SINE TITULO (Elegia)

"... le tue impennate improvvise,
la tua dolcezza estrema, il tuo coraggio".

 
Ecco, già sono scomparse le lucciole fienaiole,
è la tua ora questa, già trascorso
il giugno in un baleno (ove più il cielo
d'un tempo cristallino e azzurro e terso,
limpido, il cielo ormai fatto di piombo
(oh!, il maggio ch'era un tempo il mese già
della calura, dei carri di fieno,
lente passavano in coppia aggiogate
candide vacche per via - l'effetto
certo - sentenzia, armato, il contadino
- delle esplosioni atomiche - e s'arresta,
mentre la falce affila colla cote;
ora, spetazzi e fumo, traballando,
passano rapidi in corsa i trattori),
l'ora che stanco e innanzi il tempo chiedi
ti si faccia salire prima che
(paterno t'accompagna l'infermiere)
gli altri risalgano in gruppo, ed a volte
davvero sei precocemente stanco;
o non più spesso a volte la vergogna
di doverti spogliare, Tu restio,
mentre ti osserva il compagno di camera,
avidi gli occhi, flosci i pendenti,
mentre il compagno di camera indugia
gli occhi stravolti su di te(1) (oh!, il tuo corpo
di fanciulla pudica)...
Né mai discioglierò le belle membra
dagli abiti che offendono, che celano,
passa lo sguardo come una carezza
sulle tue spalle nude, sopra i bei
capelli biondi, lisci su la nuca,
e poi le mani che sciolgono, svestono,
emerge il torso, docile, alla vista,
fa ch'io ti stringa le mammelle forte
di bianco efebo nordico, le natiche,
le belle natiche e folle di gioia,
lussurïoso, Tu fatto impudico
di dolce, o dolce Tu, dolce e sodale,
oh!, ch'io ti strappi di dosso gli abiti,
Tu chino e lento (cade la sera)
ti sfili piano i "blue-jeans", ti mordo,
mi ridi, languida fanciulla e timida
(ma questo già lo sai, lo so, non è
comprendi, sai, che illusione ancora),
a volte forse il pudore soltanto
non ti si veda, impietosa bisogna,
mentre che ti si lega il piede e il polso,
misura (precauzione) per la notte.
E il rossore che allora ti pervade
le bellissime guancie adamascate
e tutto il volto, o Tu che forse in volto
(oh!, il male, il male, il volto sfigurato) e forse
un poco ti assomiglia in volto il biondo
Napoleone Francesco fanciullo
Duca di Reichstadt, nel dipinto del Lawrence.

1962


(1) gli occhi stravolti su di te...
Il compagno di camera che indugia gli occhi stravolti etc. è persona di versa dal Poeta: Del giovine R... il Poeta non è stato mai compagno di camera. Alla scena il Poeta ha avuto modo di assistere
 


ANGELO DELLA LUCE

...Forse non ti vedrò mai più, ma so
che resterai sempre con me indiviso
come sei stato già dal primo istante
che t'ho veduto. Ecco, ho pensato allora,
ma non come l'Orfeo e l'Euridice
di Jean Anouilh, troppo tardi incontrati,
di troppo tardi usciti nella notte
dalle tenebre informi del Destino.
Pensa io 22, Tu tredicenne,
pensa io 24, Tu quindicenne, (2)
le cinque, le sei, già discende la sera,
noi due soli e s'accedono in basso
le prime luci del neon, la scritta
"MARTINI & ROSSI" accesa alterna sui
tetti della Stazione e spenta, noi due soli, Tu disteso
nudo fra le mie braccia, lente calano
lacrime come caldi rubini dalle tue ciglia, Baby.

1962

(2) Lapsus freudiano: In realtà è stato il giovin R... a dire al Poeta: "Pensa, se ci fossimo conosciuti quando tu avevi 22 anni io ne avrei avuto tredici, se ci fossimo conosciuti quanto tu ne avevi 24 io ne avrei avuto quindici.

 
APOCALITTICA (II, 43) (Il volto)

Una sera, poco prima la fine,
quando i cieli smarriti già saranno
prossimi a decadere, adolescenti
bellissimi, sparuti, accesi in volto,
si diranno Rafele (allora il volto
già solcato di rughe guarderai
un istante allo specchio, scosterai
inorridito il volto (lenta avvolge
una rovina sola uomini, cose),
Rafele, ti dirai, dirà il ricordo:
"...me célébrait, du temps quej'étais beau!"(3)
Se una lacrima allora il bianco volto
solcherà, le tue mani se un tremito leggiero
sconvolgerà bianchissime (si leva
di fumo (al fumo s'appanna Io specchio)
amara una boccata), allora in pianto
si disciolgano i cicli e Tu sconfitto
già da la vita, dal male, Tu, io,
noi, voi tutti, si vedrà nell'istante
supremo che il globo sul marasma liquido
precipiti al sole che s'oscura fulgido
splendere tra le rovine i fumi il Marc'Aurelio d'oro(4).
 

1962

 
(3) "...me celebrali, du temps quej'étais beau!".
"Ronsard me celebrali, di temps que jétais belle!", Ronsard, II, 43,
"Quand vous serez bien vieille, au soir a la chandelle", Sonnets pour Hélène. Ma in luogo del "fier dédain" (la "parfaite amitié", la calda amicizia del Poeta è qui corrisposta), sta la presenza allucinante, ossessiva del male, il "male-di-vivere" fatto malattia.


(4) ...il Marc'Aurelio d'oro
Secondo l'antica profezia, quando (per agenti atmosferici?) ricomparirà sulla statua dell'imperatore in Campidoglio la doratura che la rivestiva un tempo, allora la "civetta" canterà, Roma cadrà e, colla caduta di Roma, verrà la fine del mondo.
La "civetta" è il ciuffo di bronzo che spunta fra le orecchie del cavallo.
 

 
ELEGIA N° 14 "La luce"
(o "DI KOHOUTÉK")
Urge la morte immobile nel vespro,
si nasconde fra gli alberi, ti spia.
Da le forre deserte, fra gli sterpi
arsi dal gelo, i rami ischeletriti
si protendono al ciclo, bianchi e nudi,
su la brina dei prati. Lentamente
cade la sera. I pali della luce
si profilano giganteschi e bruni
lungo i navigli, nella nebbia fitta,
radi splendono a tratti. Un'ombra passa
(muto fantasma) al buio e s'allontana.
Tu sei per me la luce che mi guida.
Stanotte ti ho sognato. Stavi ritto
a me dinnanzi, il capo chino, gli occhi
puntati su di me dal basso, il labbro
dischiuso appena a un timido sorriso.
Nel sogno m'hai rivolto la parola
(mesto l'indugio), m'hai guardato a lungo,
m'hai sollevato colla fredda mano
di su la fronte e bei capelli d'oro.
Poi nel mio dormiveglia, colle luci
prime dell'alba (un'alba fredda e grigia,
pallida, muta, livida, spettrale),
piano ti sei dissolto, nel mattino
piano sei dileguato. M'eri in sogno
come quel giorno che spiccasti al sole
(calda l'estate ricca e sonnolenta)
fatidiche le prime tue parole
(monosillabi appena), ma dicesti,
meglio lasciasti intendere, allungato
il braccio sulla ruvida spalliera,
impercettibilmente la vergogna
tua di fanciullo timido e infelice.
Sono "così", ma non me ne vergogno.
Tu te ne vergognavi. Esperto all'arte
nobile del silenzio, non volevi,
non "potevi" accettarti. Tu mentivi
te stesso agli altri. Questo era il tuo dramma.
Ricordo il giorno che gonfiando il petto,
prima che Tu ti aprissi, che ammettessi
quello che Tu credevi il tuo segreto
(rifugio certo al tuo riserbo altero
- lo sentivi ripetere dagli altri -),
Pierino quasi ridipinto a festa,
dicesti con orgoglio ridanciano:
"lo non mi sparo...", e quel che segue taccio(5).
E invece, preda facile dei sensi
(l'apporto d'una pubertà tardiva),
t'abbandonasti lento, incominciasti
piano, nel sogno, a scendere la china,
ti logorasti (il grave assillo) a lungo
sempre cedendo, sempre più calando,
cogliesti il fiore, divorasti il frutto(6),
giungesti in breve, rapido, alle soglie
d'una calzante e lucida follia.
Non ti fermasti. Proseguisti ancora
caparbio, attento, vigile, tenace,
alla ricerca solitària e cieca
dell'attimo infecondo, raccogliesti
(vuota la mente, prosciugato il corpo)
le sparse forze, sprigionasti al vento
l'ultime fiamme, l'ultime scintille,
toccasti il fondo, poi, placato i sensi,
giacesti vinto alfine. E fu la notte.
Gn giorno, presso la finestra aperta
del salottino, contro la specchiera
dorata un tempo, ridipinta a freddo,
"pitturata" in ismalto verdolino
(già t'eri confidato in parte, già
 fuori, in cortile, avevi udito attento
di noi, del gruppo (io, Maffei, Gianfranco,
il Professore), il conversare dotto
(Pasolini poeta ("L'usignolo
della Chiesa Cattolica")(7), e il candore,
la smaliziata grazia, la bellezza
estrema dei garzoni giovinetti
(i ragazzi di Càorle), dipinta
in quei suoi versi limpidi e perfetti),
dopo che t'ebbi posto la domanda
bruciante come su le carni il ferro,
dicesti amaramente, alzato il braccio
verso di me: "Io sono... beh!, io sono
(mi davi ancora, fra di noi, del "lei")
praticamente "Veneto"', e lasciasti
cadere il braccio, pigramente, in terra.
Da quel giorno accettasti il mio discorso.
Oscillavi, indeciso, fra le opposte
scuole in diretta antitesi fra loro
(inversione congenita e acquisita,
turbe mentali e sviluppo tardivo,
traumi d'infanzia e complessi irrisolti).
Ora tiravi in ballo, corrucciato,
l'ereditarietà, l'"atto" inconsulto
("Prima di mettere al mondo dei figli
dovrebbero... (le conseguenze... il danno... )"),
ora l'assenza d'un sia pur qualche
forma d'educazione sessuale ("Qui
dovrebbero passarci le p... (Puntini)
(poi dicesti "le donne", rosso in volto),
ogni quindici giorni!"). Era la tua
timidità soltanto oppure tara,
abbandono dei sensi o mero istinto?
Il dubbio mi riguarda e m'accompagna.
Gn giorno, camminando su la ghiaia
del sentiero assolato, lungo l'alto
 muro di cinta (m'ascoltavi attento,
teso sino allo spasimo), ti dissi:
"Scusa, se ci trovassimo sperduti
entrambi su di un'isola deserta,
soli, in questo preciso istante, senza
traccie di vita, proveresti ancora
la vergogna cocente che t'opprime?
Secondo me "ti accetteresti", fiero
di te, di quel che sei (la tua natura)".
Alzasti il capo: "Io... certo, con te
... Non mi dispiace d'essere "così"!".
"Dunque", ripresi (e chiusi il mio discorso),
"è il timore soltanto della "gente"
(quel che ne pensa il filisteo borghese,
quel che ne pensa il filisteo codino
(ma la "gente", per gli altri, siamo noi,
Tu, io, Gianfranco, l'ingegnere, Teddy)(8),
che ti fa maledire l'ora e il giorno
e il mese e l'anno che venisti al mondo"(9).
Chinasti il capo in segno di consenso.
Poi, quasi come adultera sorpresa
nel sonno e trascinata al suo supplizio,
venne la confessione più bruciante.
T'era vergogna atroce, mi dicesti,
il tuo prepuzio intatto. Decidesti
allora il gesto insano, il gesto al fine
solo in parte condotto (una lametta
da barba usata indarno alla bisogna):
"Mi sono circonciso... (o l'ho tentato),
per questo m'hanno messo qui". Sostai,
ti presi il mento, ti guardai negli occhi,
ti carezzai la guancia. Dolcemente
una lacrima scese dal tuo ciglio,
un raggio apparve nelle tue pupille.
Tu sei la luce, ho detto, che mi guida.
Quando, nell'ore tristi della vita,
come taglienti cocci di bottiglia,
lacrime acute pungono ai miei occhi,
quando una mano pervicace e ignota
m'afferra per la gola e mi costringe
a un impietoso, rapido, singulto,
quando, in procinto di troncare alfine
i giorni miei, m'accingo a soppesare
quel che d'amaro mi serba il dimani
e indugio, differisco, azzardo, tento,
esito, aspetto, valuto, ritento),
come un faro puntato nella notte
buia m'appari e ne distogli in pianto.
Deposto il ferro allora od il tubetto
letale del sonnifero, ansimando
volgo lo sguardo alla finestra: in alto
stagliata in mezzo a un mare di fiammelle,
caudata come la cometa Kohoùteck(10),
non già foriera di rovina e morte,
lucente in cielo splende la tua stella.
 

Dicembre 1973  




(5) "Io non mi sparo...", e quel che segue taccio.
La frase integrale, degna di Pierino, suonava: "Io non mi sparo delle
seghe, chiavo!".

(6) cogliesti il fiore, divorasti il frutto
Leggi: il fiore della giovinezza e il frutto del piacere.

(7) Pasolini poeta ("L'usignolo/della Chiesa Cattolica")...
Il riferimento è alla lirica "L'Italia", Capitolo I

(8) Teddy. Era il fratello minore del Maestro Willy Ferrero.

(9) che ti fa maledire l'ora e il giorno/e il mese e l'anno che venisti al mondo.
Cfr. Dante: "Bestiammavano Iddio e i loro parenti/l'umana spezie, il luogo, il tempo e il seme/di lor semenza e di lor nascimenti". Inferno, Canto III

(10) caudata come la cometa Kohoùtek
La tradizione vuole che la comparsa in cielo di una nuova cometa sia foriera sempre di sventure e di lutti. Quella scoperta nel 1974 dall'astronomo Lùbos Kohouték ci ha portato in regalo la crisi del petrolio e l'austerity".
 
 
 
Dal Volume
 
"Così"
(Poesie per Lelio)



ELEGIA N° 3 "FOR A DEAD POET"
(In morte d'un poeta)

 

"Morte, commossa da si gran beltade,
..................lo levò da terra"
.
(Michelangelo, "In morte di Cecchino Bràcci")

"E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...".
(Ungaretti, Giorno per giorno)



Lelio, quest'anno il Settembre gentile
batte con foga insistente alle soglie
(dopo tanto rigore e tanta pioggia
il sole chiaro e tiepido risplende
vivo sull'orizzonte) e, mentre indulge
nell'afosa quiete del meriggio
ad un autunno languido e precoce
(è nell'aria serena e senza vento
l'eco d'una canzone trasognata),
il bel Fanciullo (
11), a lesti passi, vibra
le sue quadrella e, il sottobosco e il prato
di bei còlchici lilla e il capo ornati,
le nere chiome audacemente infiora.
Ma se sull'orizzonte la foschia
si delinea a un tratto (sale allora
l'eco d'un canto doloroso e grave,
rapide si ragunano le nubi e
funebre una caligine dall'alto
su gli uomini e su le cose incombe),
ora improvvisamente il cielo indulge
alle tenebre della diurna notte.
- ...Giancarlo, ho tanto freddo, ho freddo al cuore! -
E la voce che sale su dal gorgo
del fiume immenso, dalle arcate oblique
dei ponti, quale vulture spaziando,
fende le fitte tenebre del giorno
e, quasi l'eco profonda della fine
che te e il tuo nome avvolge, aspra diffonde
la sua cadenza vana e il tuo tormento.
Fiume che lento scorri(
12) e, mormorando,
vai delle nebbie siderali quasi
disamorando piano il tuo lamento,
fiume che lento scorri e, oblivïoso,
attingi in seno all'onda lutulenta
gli alti fastigi delle guglie gotiche(
13)
te dissacranti, nel tuo vasto seno,
è la sua voce disperata e affranta
che me chiama dal fondo e in seno all'onda
sé, ne la tua caligine, confonde:
Lelio è laggiù, laggiù morto per sempre
(già s'offusca la nebbia, già nel buio
della notte imminente sta sospesa,
al lume del ricordo, ogni passione...).
Una riva del fiume, una spalletta
deserta, il parapetto e, forse, un ponte;
un tuffo, ed ecco l'onda avida inghiotte
te e il tuo bel corpo e, péso, lo trascina
prima sul fondo ne la melma e poi
dal fondo limaccioso, rimestando
la fanghiglia del fiume lo scandaglio,
dopo sei giorni la corrente ostile,
placata la sua furia, lentamente
riporta a galla te, naufrago e vinto...
Ecco la chiusa; e qui dove la Stura
scarica l'acque dentro il Po (
14) e i rifiuti
ammucchia coi detriti e col liquame,
lento t'arresti e la tua voce, Lelio
(voce sofferta, voce meditata),
ora giunge e si fa pietosa...

È l'alba

e, quale Ofelia pallida, in un canto
del fiume, presso un languido boschetto
(un angolo remoto) affiori e l'onda
calma e dorata dall'insenatura
te guida lentamente e te distende
lungo la chiusa che nel fiume immette
e in seno all'Eridano, mormorando,
gli abiti sfatti, sfigurato il volto,
già putrefatto il corpo, te abbandona...
Chino sull'onda, un salice piangente
sopra il tuo volto le sue chiome scioglie
e un ramo quasi immobile, nel rado
chiarore del mattino di settembre,
al fruscìo dell'onda sé ondeggiando,
carezza il tuo bel volto... Attorno io vedo,
ne la pietade avvolti che cancella
l'ombra dei vivi, attorno a te, i custodi
del fiume e, intenti, i vigili nell'atto
di trarre a riva te dall'infierire
della bocca vorace che gorgoglia
e col risucchio tenta sottrarre
alla pietà dei vivi ogni cadavere,
te e il tuo bel corpo sfatto... Oh!, la bellezza
delle tue membra, il nero zingaresco
delle tue chiome brune, e affida all'onda
bionda del fiume, al collo tuo allentata,
una rossa collana e sui blue-jeans
corrosi e su gli anelli de le chiome

un solenne abbandono...

Ahimè!, lo strazio

di tua madre angosciata, ahimè!, il tenace
dolore di tuo padre (né a lui vale
la negazione d'un destino infame),
ahimè!, il diniego pronto e la difesa,
difesa ferma, coraggiosa e vana,
di tuo fratello, è voce grave e antica,
è voce di compianto, voce forte
per la tua morte, di chi non s'arrende
all'evidenza d'una realtà crudele,
spietata, atroce: è voce che, incalzando
(oh!, la tua triste fine) e trasalendo,
su la pianura avvolta da la nebbia
prima d'autunno (è il 13 settembre)
travalica e precipita e, scorrendo,
nell'aria sorda e tragica risuona...
E il mio dolore, da le antiche volte
dei ponti di Torino, la regale
città nemica a me e a te letale
(oh!, Roma bella, Roma e la sua favola,
e noi fra le sue mura esausti e paghi,
e l'amicizia nostra, e la calura
dell'estate romana, circonfusa
di calde fiamme e d'un bel sole d'oro),
il mio dolore, superando il pianto
e la rovina, eco si fa e lamento:
Roma ci chiama, e la sua voce amica,
colla alura e il suo bel sole d'oro,
sino a me giunge, sino a me trasvola
e, insidïando, offusca il mio lamento...
Non ho veduto il tuo bel corpo sfatto
rigido nel torpore della morte,
già intaccato dal miasma che corrode
le membra agli annegati e le avviluppa
d'un lento, inesorabile, abbandono,
non ho veduto te, cereo il volto,
sul tavolo di marmo, all'obitorio,
te non ho visto, bianco ne la morte,
contornato dai tuoi piangenti e in lacrime,
non ho seguito il funebre corteo
che te ha condotto all'ultima dimora,
ho atteso, prima, che la mia presenza
non turbasse dei tuoi l'intimo affanno,
ho atteso che dei tuoi si fosse in parte
placata l'ansia, e il lutto, ed il dolore,
e adesso vengo a te, a te mio Lelio
vengo, e tua tua madre in pianto e con mia madre
porto, Lelio, l'ultimo saluto...

...Immaginavo una tomba

sopra la nuda terra, contornata
di lapidi e di croci, ove deporre
un fiore rosso rorido di pioggia
recente e intorno, vigili, i cipressi...
Ma vedo una cappella gentilizia
presso due file di cipressi neri
che proiettano la loro cupa ombra
sopra i suoi marmi e i suoi mosaici orrendi...
Ci accostiamo in silenzio. Cigolando
si dischiude il cancello. Lo varchiamo

tristi e muti, accorati e collo sguardo
inteso al grigio loculo di marmo.
Batte il sole in un canto e, illuminando
il marmo, ingentilisce il tuo ritratto.
Accanto n'è mia madre e, guida a entrambi,
tuo fratello... (Puntini)...
Sotto il freddo marmo
ansimi e gemi. E qui dove, insultando
a la pietà dei vivi, Tu riposi e,
incandescenti, stanno impresse l'orme
e il gesto di chi fu valido e fermo,
sotto la coltre di grezzo cemento
che te racchiude e il tuo corpo disfatto,
Tu, foscolianamente, controbatti
l'assillo che ti fu deroga al tempo.
Ho sostato un istante con mia madre,
mia madre ha mormorato una preghiera,
io e tuo fratello, con il capo basso,
le abbiamo fatto eco mormorando...
Ecco, hai fatto una scelta, la tua scelta,
una scelta crudele, una scelta impietosa,
e adesso sei qui e, sotto il gelido marmo,
accogli noi che sostiamo in silenzio
e dal ritratto muto ci guardi,
fanciullo triste che il dolore e il pianto
e la sventura e il lutto e la vergogna
che s'abbattuta su di noi, se hanno
reso impotente e vano, non hanno into!
Ma non accetto la tua scelta. No,
figlio del mio dolore e della gioia,
figlio del mio tormento e dello spasimo
no, non sei morto, e Tu per me rimani
l'anima eletta che ho incontrato un giorno,
vàgoli, e quale pallido fantasma,
lungo le rive (desolate rive)
d'un altro fiume, il fiume tenebroso
che da l'oblio e dismemora di tutto(
15),
ansimo e gemi. No, io non lascierò
questa valle di lacrime e di pianto,
no, non raggiungerò ne l'adre sedi
te che la morte impietosa ha affidato
alla pietà di me e dei tuoi. Vivrò
per sciogliere il mio triste canto all'aure,
per consegnarti ai posteri e alla fama,
e il mio amore per te e il sublime affetto
nei secoli vivrà, vivrà immortale.
Ma se il richiamo di tua madre in pianto,
di tuo fratello, di tuo padre e mio
sino a te giunga, attraverso alle nebbie
dell'aldilà che ti circonda, Lelio,
abbi il saluto, abbi il compianto,
abbi il conforto dell'amico fedele,
di me, gentile Lelio, abbi l'addio!
Te ricordo fra i vivi, o dolce Lelio,
te, misero compiango e morto e vivo,
e il monumento di versi e di gloria
che a te ho innalzato e che vado innalzando
te, morto, renderà vivo alla vita.
Ora che la vecchiaia s'avvicina
a lesti passi, e ne conosco il nome,
ora che, bieca e de la falce armata,
la Morte orrenda sghignazzando leva
col braccio in alto il bianco polverino,
irride, e addita pallida la soglia
onde non è più palpito di vita,
ora che il soffio gelido d'autunno
contro di me s'abbatte a con un sibilo
repentino m'avvolge e mi desola
(il vento, il triste vento dell'autunno
che geme, e stride, e mugola, e dall'alto
le chiome sfatte e gli abiti m'investe),
lo sguardo abbasso, gli occhi al tuo ritratto
volgo e, il pensiero a te fisso e la mente,
io dico, colla mano a te accennando:
"Lelio, "vale", e ti sia lieve la terra!".

 
23 Ottobre 1980

 


La presente elegia deve considerarsi "abbandonata". Di essa riproduciamo qui la prima stesura. Il (troppo grande) dolore ci ha impedito di tornarci su e di condurla a termine.



ELEGIA N° 8 (In morte del giovane Lelio)
detta de "LE QUATTRO STAGIONI"
S'accendono le luci ad una ad una
alle finestre grigie delle case,
splende la luna in cielo e i due cipressi
marmorei, nella sera che discende,
svettano l'alte cime. Non il trillo
roco dei grilli, non le luci accese
e spente delle lucciole tra l'erba,
non il tappeto della passiflora
che s'abbarbica lenta al mio verone;
freddo il rigore d'un atroce inverno
ne ha fatto un tralcio secco e inanimato.
Ma, dopo un freddo inverno, la calura
d'una torrida estate ci divora.
È l'anno e il mese che tua madre è morta.
E un'onda di romantico abbandono
è subentrata in te al dolore e al pianto!
Oltre i cipressi di color d'argento
staglia l'acacia in fiore le sue piume
rosa, qual grembo di fanciullo in fiore,
e il suo profumo (giugno intorno splende)
si diffonde nell'aria, sconfinando
su le "Aucuba japonica", sui rami
grigi del rosmarino e della ruta,
su la salvia odorosa e sopra il verde
lussureggiante del banano in fiore.
L'albero dell'acacia oscilla al vento
tenue del meriggio e par che dica
alle montagne e ai colli e ai prati e al sole
che il Tutto e il Nulla sono vani, che
l'Arte soltanto (e il Bello e il Vero) è grande!
Campi di rosolacci e fiordiligi
fuggivano ondeggiando lungo il treno
ed io, dal finestrino riguardando
gli alberi e i colli e i prati e la campagna,
a te correvo, a te, Lelio, e a mia madre
e il mio pensiero, oppresso dal ricordo,
mi riportava alla breve stagione
della tua giovinezza e del mio amore.
Sono salito sino al Campidoglio
privo del Marc'Aurelio(16), sotto un sole
che fondeva l'asfalto e lo bruciava,
sono salito lungo la Via Sacra
in cima al colle sacro ai vincitori
per poter rivedere sotto il sole
di Roma, nella pace vespertina,
te vittorioso, ignudo e ritto al vento,
fisso immobile al centro de la piazza,
simile ad un iddio che sfolgorasse
di luce nell'arsura soffocante
e luminosa del meriggio primo!
O Roma, o Roma bella, o Roma cara,
Roma che ho amato ed amo alla follia,
Roma che fuggo ormai, dacché il destino,
dacché la morte, la tua morte, Lelio,
ne ha fatto il cimitero desolato
delle speranze mie e del nostro affetto!
Ricordo, ne la pace del meriggio,
nell'arsura terribile d'agosto,
te abbandonato sopra le coperte
fra le mie braccia, mentre fuori il sole
spaccava i marmi e i tetti de le case,
e il fuoco ardente de la tua lussuria
ci trasportava entrambi e ci perdeva!
A volte, nel silenzio del meriggio,
quando il sonno m'assale e riposando
vado nella frescura del giardino,
il capo abbandonato ai fiori e all'erbe,
allungo il braccio e colla mano destra
tento il mio fianco, per sentire se al tocco
de le mie dita Tu mi sei vicino,
se il tuo bel corpo a me daccanto sia.
Ahimè, ritraggo il braccio e il vuoto e il gelo
contro la mano rattrappita sento!
Era l'estate piena, la seconda
volta che fummo a Roma, e Tu, splendente
come un iddio romano, Gitonello
torbido, lungo i viali ed i sentieri
di Villa d'Este, il bel torace ignudo,
avanzavi tra le rovine e i cippi,
tra gli zampilli e le fontane in fiore,
pago che il tuo bel corpo risplendesse
per un istante, in una foto, al sole.
Fanciulli seminudi, bianchi e biondi(17),
correvano pei viali, improvvisando
giochi infantili, e mandavano grida,
grida gioiose e acerbe, che ondeggiando
lungo il selciato de l'antica Villa,
risplendevano al sole del meriggio,
come messe che ondeggia a mezzo il giugno.
Sono passati gli anni (un lustro ormai)
inesorabilmente e passeranno
altri anni ancora, invecchierò, cadente,
canuto e stanco, passerò trascinando
la mia carcassa usata al sole e al gelo(18),
e al mio passaggio, con sommessa voce,
il passante dirà: ecco, il cantore
di Lelio è quegli, del fanciullo amato,
di Lelio che l'improvvida sventura
ha trascinato, con sottil perfidia,
e l'acque e all'onda sterile del Po.
Ma se la sorte è stata a te nemica,
nemica e messaggera della morte,
hai vinto (avresti oggi quasi trentanni,
trent'anni dico, e penso lo sfacelo,
penso l'insulto osceno al tuo bel volto!),
hai vinto in corsa l'orrida vecchiezza,
la decadenza dell'età. Un dio
Tu eri, un dio Tu sei, Tu sei la luce,
hai le fattezze, l'andatura e il volto
sereno ed immortale dell'Amore.
Ma abbaia un cane all'improvviso (è Diana?),
abbaia a me vicino e mi riporta
il suo latrato lacerante (sogno
o sono desto?), all'ora meridiana,
alla realtà crudele del presente.
Mi ridesto, riprendo conoscenza,
apro gli occhi socchiusi, il mio torpore
gradatamente si dilegua (ed ecco
riapparire il mondo a me dintorno,
mentre la luce altera del tramonto
fa capolino tra le fronde immote.
Vedo ai miei piedi steso al suolo il cane.
E qui, dove la zia e la nonna e il nonno
piantavano insalata e pomodori
e fragole (i legumi produttivi
deridevano il busso de le aiole(19):
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi...),
fra "Le Quattro Stagioni"(20) abbandonato
m'indoro della luce del tramonto
viva, mi cuocio e m'arrostisco il petto,
poi, dondolando il piede, lentamente
reprimo uno sbadiglio, mi sollevo,
stiro le membra come un gatto al sole
e come un porcospino del Montale,
m'abbevero ad un filo di pietà.
 

3 Giugno-19 Agosto 1985

 
 


Lelio aveva ambizioni letterarie e coltivava la poesia. Fu questo che, assieme alla sua "diversità", lo portò a stringere il suo sodalizio col Poeta.

(11) il bel Fanciullo. È il Settembre, qui dannunzianamente personificato nelle vesti di un dio giovinetto.

(12) Fiume che lento scorri... È il Po. In latino Eridanus.

(13) gli alti fastigi delle guglie gotiche.
Sono le guglie delle cupole della Mole Antonelliana e della Cappella della Sindone, le quali si specchiano, metaforicamente soltanto, nelle acque del Po.

(14) ...e qui dove la Stura /scarica l'acque dentro il Po...
Il giovane Lelio si è buttato, per l'esattezza, non nel Po (come hanno scritto i giornali), ma nella Stura. Il cadavere fu ritrovato nel Po, all'altezza della diga di sbarramento, alla confluenza dei due fiumi.

(15) ...il fiume tenebroso / che da l'oblio e dismemora di tutto
È il Lete, il fiume che scorre negli inferi e da sollievo alle sofferenze della vita.

(16) ... (il) Campidoglio / privo del Marc'Aurelio...
La statua equestre dell'imperatore è stata rimossa, per restauri, dalla piazza del Campidoglio, l'8 Gennaio 1981 e, a tutt'oggi, non è stata ancora rimessa. Il 19 Aprile 1997 è stata sostituita con una copia.

(17) Fanciulli seminudi bianchi e biondi
Erano degli svedesini in costume da bagno.

(18) ...passerò trascinando / la mia carcassa usata al sole e al gelo
Cfr. "lo strascicato / la mia carcassa / usata dal fango", Ungaretti,
Pellegrinaggio.

(19) ...i legumi produttivi / deridevano il busso de le aiole Id.,
Gozzano, La Signorina Felicita.

(20) "Le Quattro Stagioni"
Le statue de "Le Quattro Stagioni" sorgono nel giardino del Poeta e sono la copia di un originale neoclassico che si trova in una Villa Veneta del Settecento.
 

ELEGIA N° 13 (In morte del giovane Lelio)
detta "LE BIANCHE STATUE"
 

"...le bianche antiche statue acefale o camuse... "

(Gozzano, Il viale delle statue)


Stanno le statue sotto la pioggia
il capo verso la mia casa volto,
tendono il braccia contro il fianco e reggono,
le quattro belle dame veneziane(21)
i prosperosi frutti della terra.
Amo la pioggia d'agosto che cade
sopra il giardino e il verde delle aiuole,
crepita sopra i fiori delle "Hosta",
irrora le begonie, batte lenta
contro le spocchie(22) delle ortensie, gronda
lungo le foglie del banano in fiore.
Lampeggia in alto brevemente. Il cielo
è grigio di perla. Dal mio studio lente
battono l'ore, gravi, inesorabili.
Fuma la terra. In fondo, in mezzo agli alberi,
vedo una luce che illumina l'ombra.
Ecco, Lelio m'è innanzi e mi sorride,
sorride e piange. Com'è dolce amore
quando spira la brezza, e in su la sera
il torpore del giorno lentamente
si va spengendo e rapida nel cielo
sorge la luna. Tra le fresche frasche
Venere brilla, il mio cuore tripudia
ed un'ombra fugace come il vento
accarezza le cose. Sui rosai
sfioriscono le rose, le farfalle
notturne fanno a gara mille voli,
mentre coll'ali tese il pipistrello
guizza nel buio e rapido scompare.
Ma adesso è il giorno, adesso la caligine
vespertina sopra le cose incombe.
Ecco, già Lelio è mio. Non più una larva,
non più un fantasma io vedo a me dinnanzi,
ma lui vivo tra i vivi, quasi Amore
pietoso, che con me fu avaro sempre
di gioie e parco, da sé tralignando,
abbia voluto, in cambio d'un finale
tragico, darmi, concessione estrema,
almeno una certezza e una speranza.
E a poco a poco affiora in me il ricordo.
Per me "il ricordo" (il mio più bel ricordo!),
quel che serbo di lui e in me racchiudo,
è lui che sosta, Antinoo giovinetto,
fra le colonne di Villa Adriana,
ritto presso il Canòpo ed il Pecìle(23),
simile ad un iddio che in seno all'onda
specchiandosi, con repentina mossa,
s'aderga e verso l'alto spicchi il volo,
mentre adagiata fra le sue rovine
Roma, nell'afa del meriggio estivo,
in fondo al piano pigramente dorme.
E il dio Marte, il dio Marte gli è daccanto!
 
"Blumine"
Ma sfiorisce l'"imago" e sulla traccia
del mio ricordo e del piacere folle
che n'ho provato (come Faust, io voglio
dire all'"istante": "Fermati, sei bello!"),
tento afferrare invano con il palmo
della mano la splendida visione,
quasi il rimpianto e l'eco gemebonda
del crepuscolo languido che accieca
folgorato m'avesse, quasi il tripudio,
ch'era il tripudio di quei verdi pini,
fosse stato per me, Divin Fanciullo,
aria, respiro e anelito di vita!
Ma è vano il sogno. In me s'è spenta ormai
ogni lusinga, ogni turbamento,
ogni travaglio misero de' sensi,
Dio solo bramo, e la memoria rende
sterile e vana l'ansia del presente.
Eppure punge ancora quella cieca
rabbia selvaggia che un "seminarista
infame" (ottuso, stolido o mendace'?)
t'ha suscitato in petto a suo ludibrio,
mia dannazione sola e mio tormento!
Lelio, Tu mi dirai che t'ho mentito!
Non t'ho mentito, no! Anche se il vento
d'una passione senile e tenace
m'ha trascinato (la stagione ultima
e radiosa de' sensi) a te disporre
placido a la mia voglia e al mio desio.
Non t'ho mentito! Sai la mia miseria
ch'era la tua miseria, il turbamento
ch'era il tuo turbamento, la passione
ch'era la tua passione. E sai la carne!
Ma l'Arte è bella, il Bello e il Vero è grande,
alto è il Sapere, altissima la Gloria,
sublime il Canto (e il Verso, il Verso è tutto!)(24),
nobili cose, imperiture cose,
ma sdegnate, neglette ed incomprese
da quel troppo avveduto, stolto e sciocco
"seminarista": l'utile e il concreto,
il denaro e il successo nella vita,
la "chitarra" e Cielle, questo ti proponeva
quale ideale e quale finalità
ultimi per gli studi e pel futuro!
Così Tu sei caduto e la tua vita
(giovane vita) hai affidato intrepido
all'onda del fiume. Ma l'Iddio che solo
legge nel cuore agli uomini e pietoso
indulge alle miserie e ai nostri affanni,
avrà avuto pietà (spero ed imploro!)
dell'abbandono, della debolezza,
dell'impotenza, dello scoramento,
della follia, della pavidità.
E spero avrà pietà di me che solo
vivo del tuo ricordo e del rimpianto!
Ora la pioggia intorno s'è dissolta,
ora s'è alzato il vento, ora la terra
tripudia nel tramonto luminoso,
fulgido e ineguagliabile d'agosto,
ora dai campi nell'azzurro sale
l'eco d'un canto grandioso e solenne!
Ridono adesso sopra i basamenti
bianchi, le bianche statue nel vespro,
ride l'Estate, ride già l'Autunno,
l'Autunno ride altareggendo e piena
la cornucopia, ridono nel sole
del tramonto che scende l'altre divinità.
Il cielo è terso e l'aria è dolce. In alto
è salita la luna. Tutta la terra pare
argilla offerta all'opera d'amore,
un nunzio il grido, e il vespero che muore
un'alba certa (25).
 

21 Agosto 1986

 

(21) le quattro belle dame veneziane
Si veda la nota apposta alla Elegia N° 8 "Le Quattro Stagioni".

(22) le spocchie. Sono le "boccie" delle ortensie.

(23) ritto presso il Canòpo ed il Pecìle
Canòpo era la nota città egizia, di fondazione greca, situata nei pressi del Nilo e soggiorno degli elegantoni di Alessandria. L'imperatore Adriano diede il nome di Canòpo ad una parte della sua Villa presso Tivoli, formata da una vasca rettangolare (lunga 135 m. e larga 75) con i lati minori ricurvi e ornata di alte colonne inframmezzate di statue, fra le quali domina ancora, superstite, quella del dio Marte. Il Pecìle era uno dei portici dell'Agorà di Atene, famoso per la sua bellezza. Anche di esso l'imperatore Adriano fece eseguire la riproduzione per la sua Villa di Tivoli. Era lungo 232 m., largo 97, con i lati minori ricurvi, e nel mezzo c'era una peschiera della stessa forma del recinto.

(24) ...e il Verso, il Verso è tutto! D'Annunzio, Il piacere.

(25) ... Tutta la terra pare / argilla offerta all'opera d'amore, / un nunzio il grido, e il vespero che muore / un'alba certa. D'Annunzio, Lungo l'Affrico.

ELEGIA N° 16 (In morte del giovane Lelio)
detta "DELL'ALLORO"

E' caduta la neve sulla neve
(triste l'inverno) e intorno la campagna,
oltre le case, all'infinito è bianca.
Alberi, prati, il monte, il piano, il colle,
gemono come anime perdute
sotto il bianco tepore della neve.
E nel tepore bianco della neve
che a tratti ancora scende, abbandonato
all'ebrezza virile dei ricordi
(i bei ricordi!), te rimembro, o Lelio,
te che non hai veduto la mia nuova
casa, nata e fiorita a nuova vita,
te che mi fosti ospite gradito,
te che m'appari in sonno e disdegnando
vai della morte l'impietosa fine.
Sento un lamento. E la tua voce in pianto
me chiama, Lelio, dalle oscure porte
dell'aldilà, dai portici profondi
dell'atra notte, e aiuto, aiuto chiede,
aiuto e una preghiera. Un volo di colombi
s'alza dai tetti illividiti e punta
col battito dell'ali oltre la chiostra
dei monti e il cielo. Penso che sei morto,
e non so darmi pace. Ma perché,
perché hai tentato, Lelio, dolce Lelio,
perché hai tentato il passo lamentoso
e il Tartaro profondo? Una figura
affusolata e avvolta nel suo peplo,
ritta presso la fossa e la tua tomba,
abbandonato il braccio sulla lapide
nuda discioglie le sue chiome in pianto,
mentre il volo pietoso dei colombi
che volteggiano intorno, lentamente
si posa, piano, sopra la tua tomba.
Piangi, piangi presso il mio Lelio, Angelo
tu della morte, e veglia su di lui,
veglia che il canto stridulo dei gufi
e delle strigi alterno non contamini
il volo dei colombi, veglia ancora,
veglia su la sua tomba. Senti? La pendola
scocca in salotto e nel mio studio l'ore.
Batte secca la pendola i minuti,
batte coi quarti le mezz'ore e l'ore,
scandisce inesorabile i secondi
- ecco, un minuto, un altro, un altro ancora -,
sale la luna in cielo (26) (la rovina
è prossima e ci coglie della morte,
l'atroce morte, il sospetto tremendo),
scoccano l'ore e, al tocco del metallo,
nel silenzio della mia casa vibra,
tìntina sotto il vetro e con fragore
immenso inesorabilmente suona!
Dentro una stampa, rossa di sanguigna, (27)
e incorniciata in nero, alla parete,
danza "la Morte" orribilmente e ride,
ride coi denti, la mano impietosa
del polverino e della falce armata,
ride beffarda (la clessidra anch'essa
scandisce il tempo), e il tempo passa e l'ora
e il giorno della morte s'avvicina!
Si stagliano nel buio del meriggio
tentacolare, presso la campagna,
gli alberi e i rami. L'aria in alto è grigia
e gravida di pioggia. Ecco, domani
la pioggia annaffierà le strade e i tetti,
i campi allagherà, spazzerà il colle,
lasciando su la via fangosa un manto
di poltiglia giallastra che le ruote
delle macchine in corsa schizzeranno
contro i radi passanti. È notte fonda.
E nella notte fonda del meriggio
che avvolge tetra gli uomini e le cose,
io voglio riandare col ricordo
a te, poeta imberbe giovinetto,
ritto nell'ombra della quieta stanza,
e a quelle che con me chiamasti un giorno:
"le foto che tu mi hai scattato a Roma".
"Le foto che tu mi hai scattato a Roma"
erano ventiquattro splendidi nudi
che ti mostravano in tutta la tua
bellezza di giovane e magnifico efebo.
Una, in particolare, col giubbotto
in cuoio nero aperto sul torace
e i pollici infilati nei taschini,
i capelli sugli occhi e su la fronte,
ti mostrava qual'eri, nel pieno fulgore
dei tuoi diciott'anni, i bei pendenti ignudi,
colla pelurie e il sesso voglioso,
le dure e sode natiche riflesse
dentro allo specchio contro cui posavi.
Il riflesso del "flash" dentro allo specchio
determinava sopra il tuo bel ventre,
teso e lucente, una chiazza di sole,
e intorno, sopra e lungo la pelurie
tutto uno scintillio di perline di luce.
Solo il serto radioso della gloria
mancava attorno alle tue chiome brune.
E del serto radioso della gloria
che Tu non hai conseguito e raggiunto
(oh!, troppo presto hai gettato la spugna!),
io voglio incoronare te Poeta,
te cui ha attinto, come per Rafele un giorno,
la Musa mia nostalgica e dolente,
mesta, accorata, oblivïosa e triste.
Tu, lieto e felice a me daccanto,
su l'alte cime del Parnaso assise,
fermo, sicuro, intemerato, ardito,
assieme ai "grandi ispiratori",
cinto di verde alloro stai, fatto immortale!
 
 

(26) sale la luna in cielo...
La pendola del Poeta segna i quarti d'ora, le mezz'ore, le ore e il succedersi delle fasi lunari.

(27) Dentro una stampa, rossa di sanguigna.
La stampa colla "Morte che ride" si trova nello studio del Poeta.


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