Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconto di

Giacomo Fumarola



TESTAROSSA DEL '57


Accade a sera. Accade nei weekend. Ogniqualvolta il mio sguardo incontra il rosso del modello in scala 1:18 che spadroneggia sulla libreria, accade che io sorrida.
Non che le mie labbra si pieghino raramente durante il giorno a mostrare giocosa o divertita partecipazione, anzi. Ma il sorriso che mi provoca la vista della Testarossa del '57 è burrascoso, quasi fosse un caterpillar. Muove i muscoli facciali, smuove rimpianti per puntare dritto alle sorgenti felici dell'infanzia.
Mi chiedo come faccia la mia memoria ad estorcere continuamente al passato nuove immagini, completamente rimosse fino ad un solo attimo prima. La risposta evidentemente è in quel giocattolo metallico, forziere di preziosi ricordi che soltanto la mia mente può rivivere.
Le ruote trasportano un incastro di metallo e di plastica che anni ed anni fa assisteva impotente alla mobilità distruttiva delle mie piccole dita da bambino di 6 anni.
Lo ricevetti dalle mani di mia madre dopo aver atteso trepidante che rientrasse a casa da un suo lungo viaggio in Svizzera. Uno dei tanti compiuti dai miei in giro per l'Europa in quegli anni così acerbi per la mia memoria.
Stento, infatti, a ricostruire le tappe della loro sofferenza lungo le corsie degli ospedali dell'intero continente. Ricordo vagamente che prima di ogni partenza mi si prometteva un gioco al loro ritorno a casa: poche parole e la mia curiosità smetteva di ribollire.
Forse guardavo così poca TV in quegli anni da non avere la necessità di fantasticare su un'immagine passata sullo schermo. Non c'erano evidentemente nel mio mondo infantile spazi per territori inesplorati, che un cartone animato avrebbe potuto disegnare a grandi linee nella mia immaginazione.
Il mio mondo era il divano di casa: tre cuscini enormi perfettamente piatti e resistenti, su cui spingevo modellini d'auto nel rispetto della linearità del tessuto. Le mie macchinine erano "animate", abbastanza per capire da un movimento impresso dalla mia mano se rientravano nel club dei "buoni" oppure in quello dei "cattivi".
Era il mio ambiente di gioco, ricreava una perfetta atmosfera ludica in cui pochi adepti potevano tuffarsi. Accettavo solo la compagnia di amici che immaginassero di sedersi nei loro minuscoli modelli e di guidarli. Non era facile trovarne.
In realtà, ben pochi avevano la pazienza di immedesimarsi in un inseguimento o in una rapina o in una fuga verso l'America a bordo di una Corvette.
Portavo in quel testone di allora un gran numero di sogni, tutti legati a grandi auto ed al senso di giustizia che mia madre propugnava nei rari momenti in cui il mio sguardo tradiva un impulso trasgressivo. Avevo imparato a distinguere cosa era giusto fare e cosa andava evitato, mentre ai miei cugini era permesso urlare, far capricci e disobbedire.
Capivo perfettamente che era conveniente comportarsi da "giusto" perché periodicamente ricevevo un premio. Mi sfuggiva, tuttavia, la ragione che motivasse i miei compagni d'asilo prima e di scuola dopo a preferire gli schiaffi ai regali.
La mia infanzia è stata costellata di tanti doni, oserei dire che ero un campione di giustizia. Quando mio padre e mia madre varcavano la soglia di casa, stanchi e col sorriso forzato dopo l'ennesimo viaggio di buona speranza, io ero ad attenderli. Il mio fiuto era infallibile: di lì a poco sapevo che avrei ricevuto l'ennesimo riconoscimento del mio agire secondo giustizia.
La mia famiglia era qualcosa di simile ad una Corte Suprema, che mi assolveva sempre...
La Testarossa del '57 è stato l'ultimo alloro prima che la corte si sciogliesse. Sgusciò via dalla scatola contemporaneamente ad uno schiocco di un mio bacio grato sulla guancia di chi a stento trattenne le lacrime nei giorni successivi.
Quando vidi mia madre urtare la notte seguente rovinosamente contro una terribile agonia, arrestai la corsa della mia Ferrari contro le pareti e gli spigoli dei mobili. Quel modello divenne l'ammiraglia della mia collezione e, per questa sua pregiata posizione, indistruttibile per me ed intoccabile per i miei amici.
Era l'unica automobile a cui era permesso infrangere le regole "stradali" del divano: le mie dita potevano spingerla ovunque, anche fuori dal limite fisico dei 3 cuscini. Mi seguiva nelle brevi e sempre più rare visite che potevo dedicare a mia madre, ormai stesa sul letto e quasi immobile.
Erano le sue portiere ad aprirsi per far accomodare le parole e gli insegnamenti scanditi con un fil di voce dal capezzale.
Erano le sue ruote a portarmi via quando mia madre era visibilmente stanca.
Furono i suoi fanali gli unici testimoni di quel giorno in cui lei mi volle vedere per dirmi che avrebbe abbandonato la mia vita.
Lo avrebbe fatto presto.. prestissimo.
Allora trattenni le lacrime, perché così mi era stato chiesto in nome di quella "giustizia" di cui di lì a poco avrei perso un'inflessibile paladina.
Con gli anni i miei occhi si sono impietriti, ma si ammorbidiscono a sera, nei weekend. Ogniqualvolta il mio sguardo incontra il rosso del modello in scala 1:18 che spadroneggia sulla libreria, accade che io sorrida... con le guance umide.
Quella Testarossa del '57, ancora oggi, ha il potere di scorrazzare la mia immaginazione negli angoli di casa di un tempo, dove la penombra custodisce gli ultimi, segreti dialoghi tra me e mia madre. Rannicchiato su mattonelle di marmo, spio il viso di una donna che accarezza un bambino dai boccoli biondi (decisamente un lontano ricordo...) con in mano un modellino d'auto sportiva.
In questo momento le mie pupille si stanno intrecciando con i raggi dei pneumatici.
Anche questa sera sta per avere inizio il mio viaggio in quel lontano maggio del 1982, quando il cavallino rampante assistette ad un'ultima carezza.

Racconto dedicato a mia madre.


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Agg. 19-04-2008