Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
La petite mort.
diario di un'anoressia dominata

di 
Francesca Falchieri


Genova, 23 gennaio 1997

È mezzanotte e sto aspettando che l'acqua della mia doccia diventi più tiepida. Da quando ho lasciato Ginevra e Giovanni, non mangio più, non ho alcuno scopo di vita. Oggi peso trentotto chili. Mi manca ogni forza, non riesco a camminare, paralizzata, come un verme schiacciato a terra e vistosamente deformato, che si dibatte. Senza una parola. Senza un lamento. Davanti a me ho il vuoto del linguaggio, il Nulla, la Morte. Ma ora sento che entra in me la verità nuda, pura, eterna. L'acqua scorre sempre.


Genova, 30 gennaio 1997

Indubbiamente sono in ospedale: gli occhi aperti a stento mi rivelano questa sorpresa. Dal mio petto parte un tubicino, che sbocca in una sacca piena di liquido biancastro, sospesa a un alto tubo. Non ci sono dubbi: una flebo.
Provo a chiamare un'infermiera ma, forse a causa di un altro condotto che esce dal mio naso, non riesco ad articolare nessun suono. Allora tiro il camice di un medico vicino a me che, con un sorriso e una voce rauca, mi dice:
«Sei nel reparto di rianimazione dell'ospedale Galliera. Qualche giorno fa, sei entrata in coma. Stai tranquilla, ora sei fuori pericolo! Ti abbiamo salvata per miracolo, curandoti come un malato cardiaco. Soffri di anoressia, vero? Spero tu tragga insegnamento da questa brutta esperienza».
Lo guardo allibita. Quando rinunciavo al cibo ero attratta dalla morte, ma non capivo veramente di perdere il bene prezioso della vita.



Genova, 2 febbraio 1997

La mia mente è attraversata da una fitta schiera di ricordi confusi, da cui mi distoglie una voce:
«Francesca, come stai?» .
È mia madre, venuta a farmi visita insieme a papà.
«Come sei pallida! Guarda, ti ho portato un fard» aggiunge la mamma, sempre così preoccupata delle apparenze.
Poi prosegue: «Dopo questa dolorosa vicenda, non vogliamo più cadere in errore. Appena ti sarai rimessa in forze, non vivrai più sola e tornerai ad abitare con noi a Bologna».
Se poco fa ero pallida, ora non oso immaginare il colore del mio viso. Guardo mio padre, sperando di trovarvi maggiore comprensione. Dalle sue labbra escono invece le parole:
«Faremo proprio così».
«Ma quando ero a Strasburgo, a Liegi, a Roma, a Rapallo, in Corsica, a Nizza stavo bene fisicamente. Se di recente a Ginevra e a Genova mi sono riammalata, è perché mi sentivo sotto il vostro controllo» cerco di spiegare, parlando con fatica, a causa del sondino che mi arriva fino in gola.
È inutile, povera Francesca, non sprecare il tuo fiato. Ascolta papà:
«Non ci convincerai mai! Lo facciamo per il tuo bene. Non vogliamo mica riapparire sui quotidiani».
«Sui giornali? E perché?» chiedo.
«Prima di entrare in coma all'hotel Astro, hai lasciato la doccia aperta. Gli albergatori, la notte, sentendo provenire dalla tua stanza il prolungato rumore dell'acqua che scrosciava, prima hanno bussato, poi hanno cercato di entrare col passe-partout, ma è stato inutile: la serratura era chiusa da dentro, con la chiave nella toppa. Allora hanno chiamato i vigili del fuoco, che hanno forzato l'uscio. È intervenuta anche la polizia e dunque del fatto sono venuti a conoscenza i giornalisti, che ci hanno intervistato. Sono apparsi molti articoli su di te, anoressica in coma, sulla cronaca sia di Genova che di Bologna».
«Me li portate, la prossima volta che ci vediamo?» domando.
«Se ci tieni tanto…- dice mia madre, che aggiunge: - Tutto è accaduto di notte».
Ecco…ora si riaffaccia alla mia memoria una leggenda dolomitica, antichissimo mito solare, che appresi a Canazei…Sì, sono Soreghina, "filo di sole", che muore dolcemente a mezzanotte per un suo perduto amore...Ed è stata l'acqua che mi ha salvato.
Costernata, non riesco neppure più a guardare i miei genitori e il mio sguardo smarrito poggia nel vuoto. Il fatto di aver toccato la morte da vicino non mi ha spaventata; ciò che ora mi terrorizza è l'idea di vivere nuovamente con mamma e papà. Per fortuna ora se ne vanno, alleviando un poco il mio dolore.
La mia mente viene allora inondata da una marea di flashback, relativi ai periodi trascorsi con i miei. Il tubicino che esce dal mio naso somiglia un po' ai baffi, che dovetti portare da bambina per far piacere al dentista e ad Anna Maria. L'immobilità a cui sono costretta in questo letto mi fa tornare in mente il mio fastidiosissimo busto per la scoliosi. Mi rivedo anoressica quando, all'età di venti anni, abitavo con mia madre e mio padre. Ho vissuto il controllo sul cibo come la capacità di dominare la carne e la materia, a favore dello spirito. Se volessi cercare i colpevoli come si fa per un delitto, sia i miei genitori soffocanti che tutta la nostra società materialista, asservita alle cose, sono responsabili della mia entrata in coma.


Genova, 3 febbraio 1997

«Ormai sei fuori pericolo, quindi ti trasferiamo nel reparto psichiatrico di quest'ospedale».
È un medico, a cui chiedo:
«E perché proprio lì?».
«Perché sei anoressica. Più che nel fisico, sei invalida nella psiche».
Lo guardo con un sorriso: quasi quasi provo piacere nel definirmi malata mentale. Un malato è un diverso: amo ostentare la mia diversità. Eh già, sono pochi ormai quelli che come me amano la parola e odiano la cosa, la materia, il corpo.
Con una lettiga un infermiere mi trasferisce nell'altro reparto dove, nel prendermi in braccio per adagiarmi su un letto, esclama:
«Sei leggera come una piuma!».
Mi viene spontaneo tradurre mentalmente la frase in francese: Tu es légère comme une plume! Non penso alla leggerezza della piuma dell'uccello, ma a quella della plume per scrivere e della letteratura. Tragica leggerezza.



Genova, 8 febbraio 1997

Ora riesco a parlare e camminare, tirandomi dietro con fatica il flacone della flebo, appeso a un'asta munita di ruote. Nel reparto psichiatrico, con il passare dei giorni faccio amicizia con gli altri degenti. Numerosi sono i tentati suicidi: la ragazza disperata perché il fidanzato l'ha lasciata, la casalinga estremamente depressa, il padre di famiglia disoccupato. Mi sembra di essere finita nel settimo cerchio dantesco, tra i violenti contro se stessi. Anche i golosi, però, l'Alighieri li colloca all'Inferno. Ma qui siamo vivi. Fra di noi scherziamo e sorridiamo: il sorriso di coloro che hanno voluto morire, hanno tentato e sono stati salvati.
La mia compagna di stanza si chiama Marta, è drogata e un giorno mi mostra un libricino dal titolo Ecstasy - allargamento della coscienza - restringimento dello stomaco, un opuscolo informativo per la liberalizzazione delle sostanze stupefacenti, accompagnata a un loro uso consapevole e cosciente.
«Ti sei mai fatta uno spinello?» mi chiede Marta.
Le rispondo: «No. Anch'io, però, quando non mangio sono come un tossicodipendente che si inietta il veleno fatale, senza capire del tutto che si sta annientando e senza sapere se vuole morire. Comunque, non mi drogherò mai: preferisco i paradisi artificiali aperti dalla letteratura».


Genova, 10 febbraio 1997

Oggi finalmente mio padre mi ha portato i quotidiani che gli avevo chiesto. Adesso mi va proprio di leggerli… Dunque, vediamo… Alla prima riga di un articolo che mi riguarda ed è apparso su «la Repubblica», mi accorgo subito di un errore commesso dal giornalista, quando leggo che ho «un ottimo rapporto con i genitori». Non si possono esprimere giudizi su di un individuo, se non lo si conosce benissimo. Mi viene in mente un motto degli indiani d'America, che ho letto nel libro Va' dove ti porta il cuore della Tamaro: «Prima di giudicare un uomo cammina per tre lune nei suoi mocassini». Viste dall'esterno, molte vite come la mia sembrano irrazionali, pazze: finché si sta fuori è facile fraintendere le persone e i loro comportamenti. Soltanto da dentro, dal mio cuore, soltanto arrancando tre lune con i miei stivalacci, si possono comprendere le mie motivazioni.
Il servizio del giornale è accompagnato dalla foto di una modella dall'esile silhouette. Vicino sta scritto: «L'ossessione di un corpo perfetto, una molla che può far scattare l'anoressia». La mia inappetenza, invece, non somiglia a quelle che aumentano di numero dopo le sfilate di moda, imponenti immagini di bellezza femminile il più delle volte distorte, al limite dello scheletrico: una concezione estetica che sta mietendo le sue vittime, ma non mi sfiora.
Leggendo il pezzo de «la Repubblica» mi accorgo di nuovo che è stata proprio la mia doccia a salvarmi dalla morte. Quell'acqua che amo tantissimo simboleggia la forza del mio inconscio: anche quando non mangiavo, non ho mai cessato di berla. È sì fonte di vita, ma pure distruttrice. Le acque dell'interiorità, da cui ci lasciamo trasportare, arrecano pericoli: possono agitarsi, nascondere squali, trasformarsi in neve, ghiaccio, valanghe incombenti e minacciose. La mia anoressia è stata un'esplosione del represso, una slavina di protesta. Lo scenario che si prospetta è simile a quello di uno dei più famosi film catastrofici che io ricordi: Valanga, la pellicola del regista Corey Allen. Storia di una palla di neve che, piano piano, scendendo a valle si trasforma in un disastro ambientale di proporzioni inaudite e investe una stazione sciistica. Morti ovunque. Macerie.
 
In un articolo apparso sul «Corriere mercantile» di Genova si afferma che, quando sono stata rinvenuta in stato di incoscienza all'hotel Astro, ero «seduta su una sedia, non in grado di parlare, immobile come un automa». Quel robot che Anna Maria, durante la mia pubertà e adolescenza, aveva voluto fare di me.
 
In un altro servizio pubblicato su «la Repubblica» e intitolato Da dodici anni in lotta con l'anoressia, leggo:
«È cominciato dodici anni fa, d'estate, - racconta la madre. - Eravamo andati in vacanza a Milano Marittima. Mia figlia aveva diciassette anni, era soltanto una ragazza formosa, certo non si può dire grassa. Mi disse che voleva mettersi a dieta e iniziò a mangiare soltanto delle bistecche con insalata scondita. Fosse stata una come tante, dopo un po' avrebbe ceduto. Lei invece ha sempre avuto una volontà di ferro: iniziò a ridurre le quantità di cibo fino al rifiuto quasi totale».
Mamma, affermando che la mia anoressia dura da dodici anni, ha detto il falso. Infatti dieci anni fa, dopo la mia prima inappetenza, mi ripresi e non ho più sofferto di questo male, pur con tutte le mie nevrosi, fino a poco più di un anno fa. Anna Maria ha mentito anche per quanto riguarda la dieta che feci a Milano Marittima. Non la intrapresi spontaneamente, ma per volontà di mia madre: non posso dimenticare il suo schiaffo…
Uno solo è anche il ceffone buscatomi da mio padre, che mi picchiò perché avevo preso un cinque. Ho ancora in mente quel giorno…
 
Ritorno bambina, ho sette anni, sono a scuola, in classe. La maestra Domenica Ventura dalla cattedra ci dice:
«Adesso, un dettato facile! Darò cinque a chi fa un solo errore».
Io, solita a svolgere compiti perfetti, in questa prova, forse per l'agitazione, commetto un piccolo sbaglio, nell'andare a capo, sì, me lo ricordo ancora.
A casa, cerco lacrimante di spiegare a papà che il mio voto è ingiusto. Una misura punitiva della mia insegnante nei confronti dei più «somari», come li chiamo io: i loro dettati, una volta corretti, sembrano «cimiteri»! Il babbo, però, non vuole ascoltare le mie ragioni e mi molla uno sberlone. Per reazione raddoppio il mio studio già tenace, con un impegno che mi renderà sempre la prima della classe fino alla quarta liceo. Non prenderò mai più un voto insufficiente. Per me, come per mio padre, è importante l'essere, per mamma l'apparire.



Genova, 11 febbraio 1997

Oggi nel mio reparto viene internato un nuovo paziente. Di mezz'età. Occhialini tondi. Capo fasciato. Stringo amicizia pure con lui, che si presenta così:
«Mi chiamo Roberto, sono psicologo di professione…».
Non riesco a trattenermi:
«Non è paradossale per uno psicologo finire ricoverato nel reparto psichiatrico di un ospedale?».
«Sì, lo è, il colmo dei colmi! Ma sai, ho perso la testa quando, di ritorno da un viaggio, nel sottopassaggio della stazione, sono stato assalito da due extracomunitari, che mi hanno ferito alla testa, per portarmi via i bagagli e tutto il mio denaro. Farneticavo e così mi hanno condotto qui. Adesso ci resto volentieri, finché non mi toglieranno i punti. Sì, perché in questa sezione si mangia bene…».
 
Ritorno nella mia stanza dove, per vedere se ho ancora l'aspetto di una mezza morta, tiro fuori lo specchietto del fard. Un'infermiera me lo strappa di mano, dicendo:
«Qui non si possono tenere specchi».
È entrata per farmi prendere una medicina. Molto diffidente verso i medici riguardo ai farmaci che mi fanno ingerire, chiedo di vedere il foglio illustrativo. Fra le varie notizie, vi leggo: «L'uso in caso di gravidanza e allattamento è raccomandato dalla letteratura internazionale. Nessun effetto è riportato dalla letteratura sull'attenzione e sulla capacità di guidare o usare macchine».
Non si tratta mica della letteratura umanistica? A parte gli scherzi, credo profondamente nella capacità terapeutica delle lettere classiche. I romanzi, le poesie, il teatro rappresentano una sorta di medicinali per guarire quei mali fisici che, come l'anoressia, riflettono un malessere psichico, interiore. È proprio la cultura letteraria ad avermi insegnato l'ironia, il farmaco che mi aiuta a vivere.
 
Ma a salvarmi è stata soprattutto l'acqua, simbolo dello spirito divino vivificante: il Signore mi ha protetto, facendo sì che io lasciassi aperta la doccia, quando sono entrata in coma. È Lui che non mi ha fatto trovare un monolocale di mio gradimento a Genova: se non fossi rimasta all'hotel Astro, ora sarei già morta.
La raccomandazione che vedevo dappertutto era in realtà Dio che mi voleva aiutare, seminando tanti germi, che non seppi far fiorire e raccogliere. Sì, proprio Lui, il Signore del mio delirio, come mi piace chiamarlo, senza alcun intento blasfemo. Ed è Dio che ora, uscita dal coma, mi fa capire dove devo cercare una ragione di vita: la scrittura. Voglio organizzare i miei appunti e il mio diario, riordinare le lettere indirizzate a Giorgia e pubblicare dei romanzi. Ne stenderò più d'uno: ne ho tante da raccontare. Credo nella "scritturoterapia": registrare le mie emozioni, nevrosi e ossessioni mi permetterà di penetrarvi sempre più in profondità, esorcizzandole.
Pur non avendo mai partecipato ad alcun rapporto sessuale io, che prendo tutto alla lettera, ho avuto la mia petite mort, l'orgasmo nel gergo francese. Il mio coma per anoressia, piccola morte, è stato per me come il culmine del coito, l'acme, la punta, il picco della mia passione, ovvero il momento in cui mi sono tolta la vita per il dolore di trovarmi lontana da Giovanni: un atto d'amore. Ma ora, rinata, quasi risuscitata, capisco che posso restargli per sempre vicina in un'altra dimensione, scrivendo, con la mia parola. Nessun luogo è lontano.
Quando i miei libri saranno pubblicati, li spedirò al professor B., perché sappia dell'amore che nutro per lui e che non gli ho mai confessato. Ciò che mi addolora di più è il fatto di non essere riuscita a spiegargli bene la mia storia e l'ossessione dello squalo, nella mia lettera delirante.
Forse, se fossi rimasta in Svizzera e avessi accettato di conseguire il dottorato sotto la sua direzione, come lui mi aveva chiesto, la mia anoressia non si sarebbe aggravata e non sarei entrata in coma. Mi sono vergognata di fronte a Giovanni della mia malattia psichica e ho fatto la mia scelta, che mi ha condotto alla morte. Nella vita, quando un indeciso si trova a un bivio e imbocca una via, perde tutte le alternative offerte dalle altre strade. Questo, però, non accade nel tempo ambiguo della scrittura, in cui tutto è possibile, persino la rinascita dell'amore. Sì, anche questa volta troverò la forza di andare avanti, di vivere: la creazione rappresenta la mia possibilità di affermare vittoria sul tempo e sulla morte. Dopo il coma, ecco la resurrezione miracolosa nella parola.


Genova, 13 febbraio 1997

È mezzogiorno e un'infermiera mi porta in camera un piatto di trenette fumanti, col pesto alla genovese. Saranno dieci anni che non gusto pastasciutta, ma adesso mi è venuta l'acquolina in bocca. Riuscirò a papparmi questo piattone? Da quando ha cominciato a vivere da sola, non mi sono mai cucinata una minestra. Ora inforco le posate e mi accingo a consumare le trenette, sfogliando i quotidiani che mi ha portato mio padre. È strano, ma adesso non faccio più fatica a deglutire. E poi, questo pesto è squisito! Divoro tutto il piatto con voracità mentre leggo, seduta vicino a Marta.
Le dico: «Ehi, leggi un po'… Un'indagine, in Gran Bretagna, ha rivelato che attualmente, nell'acqua potabile, vi è una percentuale di antidepressivo, tanto ci troviamo inondati da queste medicine».
«Addirittura! Inaudito!» esclama la mia compagna di sventura.
«Sì, sta scritto qui. Quell'acqua che amo tanto e mi ha salvato…Sai, Marta, in tutti gli ospedali in cui sono stata ricoverata, mi hanno obbligato ad assumere intrugli che, secondo gli psichiatri, portano beneficio alla mia testa tutta matta. Io invece non credo molto nell'efficacia degli psicofarmaci: bisogna lasciar fare alla natura. Oggi ci troviamo sommersi da immagini, ma penso che l'unico sollievo possa essere dato dalla parola, meglio se scritta e letteraria, ma anche solo detta e rammentata. Te lo dice una che di nomi se ne intende e ne ha studiato la storia e la filologia. Una che ha visto tanti Torna a casa lessici, protagoniste le lingue neolatine. Non dimenticherò mai le frasi, la voce, l'accento toscano di Giovanni, che ho amato tanto ma non sensualmente: ricordandoli, sento quell'uomo meraviglioso più che mai presente e vicino a me, anche se è molto lontano… Vedi, la parola ha, è un corpo. Fatto di materialità. Di accenti, linee, punti. Di fonicità. Con una componente di ludicità! Tò, adesso invento i vocaboli creando dei neologismi, che per la psichiatria sono sintomi di schizofrenia. Diciamo di ludique, per riprendere il termine di Cla…ah sì, Claparède!».
«Un tuo amico?» chiede l'ignorante Marta.
Rido: «No, il pedagogista svizzero, che per primo introdusse il termine in psicologia. Non lo sapevi?».
«No».
Continuo: «Sai? Credo nell'erotismo e nel piacere della parola, anche la meno aguzza, la meno penetrante, a tal punto che riesco a mangiare e a bere solo se intanto leggo o scrivo, è più forte di me, sono fatta così. I libri freschissimi li surgelo! A parte gli scherzi, i medici mi dicono che è una nevrosi ossessiva, che deve essere curata con cento, mille medicine, da dosare bene in ospedale psichiatrico. Ma me ne infischio di coloro che dicono non bisogna mai fare due cose in una volta! Perché non unire due piaceri-necessità: il cibo e la lettura-scrittura? Vedi, per me leggere, scrivere sono un'urgenza vitale. È strano…se leggo un numero, non riesco a pasteggiare contemporaneamente: non si può vivere di cifre e formule, ma di lettere, vocaboli, frasi, preghiere. Ho deciso, farò la scrittrice con lo pseudonimo di Chiara Parola, sarò il verbo commestibile e non solo per la mescolanza e compenetrazione che cibo e parola hanno nelle mie nevrosi. Anche perché con la scrittura mi proporrò di comunicare il mio grande amore per la letteratura, insegnandola, rendendola di facile comprensione agli altri, più appetibile, anche a chi ne sa meno di me, come te, i miei genitori, i borghesi, tutti innamorati dei numeri e non dei nomi. La letteratura è vita. Sceglierò di chiamarmi proprio Parola perché sento di esistere solo attraverso le parole: io stessa, in carne ed ossa, mi trasformerò in una somma di parole sotto forma di libro».
La mia amica cambia argomento:
«Ti va di ascoltare un po' di Elton John?».
«Oh sì, piace tanto anche a me! Delle sue canzoni amo non tanto i suoni talvolta metallici, troppo artificiali, quanto the words, con tutta la loro musicalità. Blue eyes, fly away, freedom, only one love, wife, my love is impossible, reality is black and white: con queste parole, opportunamente controllate sul vocabolario, manualmente, scribanamente (e ne invento sempre delle nuove), voglio scriverci un libro, anzi, tre romanzi, proprio una trilogia».



Genova, 26 febbraio 1997

«Su, Francesca, smettila di leggere mentre mangi, dai, sbrigati a fare la colazione! Tra poco ti trasferiamo in autoambulanza in un ospedale bolognese; così sarai più vicina ai tuoi genitori» mi dice un medico.
Scoppio in lacrime e, mentre gli infermieri mi portano in barella, non faccio che gridare con tutte le mie forze:
«No, vi prego, a Bologna no! La vicinanza ai miei m'impedisce di maturare, di crescere, di vivere!».
Mettiamoci ora nei panni di un estraneo, che abbia letto qualche articolo su di me. In questo momento, nell'udire i miei lamenti, forse sta pensando:
«Ma non si vergogna a urlare così, questa ragazza che dai genitori ha avuto tutto e che a Bologna riceverà da loro coccole, carezze, soldi, benessere, comfort? È proprio viziata!».
Con i miei pianti, vorrei rispondergli:
«Lei non può comprendere quanto mi faccia soffrire questo legame simbiotico che mi stringe a mamma e papà, da cui sono condannata a dipendere sempre».
 
Sull'ambulanza che mi sta portando a Bologna (un altro ritorno), cesso di singhiozzare e sbraitare. Ho capito tutto troppo tardi, di questo trauma che mia madre e mio padre mi fecero patire nella pubertà e adolescenza. A cosa serviva cambiare nazione, città, albergo, monolocale? Sono io, come i miei genitori mi hanno voluta, a essere malata dentro. A Bologna gli psichiatri soffocheranno con i farmaci la mia rivolta giovanile, che si è rivelata patologica, pazza ed è sfociata nel delirio. Non mi resterà altro che chiudermi in una stanza a scrivere monologhi blu, fiume in cui come Narciso mi rifletterò.
Non devo piangere, perché anche a Bologna potrò scrivere. Nella mia battaglia per l'autonomia e l'indipendenza dai miei, non ho avuto la V della Vittoria. E non mi resta che affidarmi a una S, quella della Scrittura. Una lettera che è l'iniziale non dei Soldi, né del Sesso, ma piuttosto di Souvenir, Subconscio, Specchio, Simbolo, Sogno. Sì, a Genova, la notte del 23 gennaio 1997, sono morte per sempre le trentenni Francesca, Simona e Giovanna, per lasciar posto a Chiara Parola, la scrittrice. Chissà cosa combinerà…Oh, adesso è una piccola neonata. Eh già, apprendere a creare è come imparare a camminare. La bambina-artista comincerà con lo strisciare, poi verranno i primi passi da bebè, quindi le cadute… Quanti fogli butterò nel cestino, quante cancellature sui quaderni, quanti abbozzi di romanzi farò e disferò!


 
PER COMUNICARE CON L'AUTORE mandare msg a falchieri.francesca@libero.it clubaut@club.it
Se ha una casella Email gliela inoltreremo.
Se non ha casella Email te lo diremo e se vuoi potrai spedirgli una lettera presso «Il Club degli autori - Cas. Post. 68 - 20077 MELEGNANO (MI)» inserendola in una busta già affrancata. Noi scriveremo l'indirizzo e provvederemo a inoltrarla.
Non chiederci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2008 Il club degli autori, Francesca Falchieri
Per comunicare con il Club degli autori:
info@club.it
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit
 
IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |

Ins. 16-04-2008