Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Daniela Raimondi
Con questo racconto ha vinto il quinto premio del concorso Marguerite Yourcenar 1999, sezione narrativa
Il rivale
 
(Ospedale Psichiatrico di T. 18 agosto 1964 - Cella d'isolamento)
 
«Tommaso, mi sente? Sa dove si trova adesso? Tommaso, mi risponda: capisce cosa le sto chiedendo?»
 
La voce è così lontana... Mi giunge come un'eco nella notte penetrando cristallina il buio profondo in cui sono affondato. Ma io non voglio aprire gli occhi, ho paura della luce. La lampadina è proprio sopra la mia testa e mi abbaglia trafiggendomi come una spada. No. Non voglio aprire gli occhi. Non voglio sentire questa voce. Cerco di girarmi nel letto e di nascondere la testa sotto il cuscino, ma nello scatto sento un dolore ai polsi e mi accorgo di non riuscire più a piegare le gambe.
 
«Slegatemi maledetti!!! Slegatemi!!!! Voglio uscire. Chi siete? Cosa volete da me? Slegatemi!!!!»
 
Sbarro gli occhi, assalito dall'affanno e dalla paura. La voce che mi chiamava da lontano è lì, davanti a me. È di una donna alta e bionda: indossa un camice bianco ed ha i capelli raccolti sulla nuca. Cosa vuole da me? Urlo e mi dibatto ma le cinghie di cuoio mi fanno male e allora io urlo più forte. Vedo che la donna estrae frettolosamente una siringa e una fiala.
 
«Cos'è quella roba? Vada via, vada via le dico. Non voglio niente. Assassini!!! Slegatemi! Voglio andare a casa. Assassini... Assassini!»
 
Sento l'ago che mi entra nel braccio, veloce e leggero come la puntura di un insetto. Qualche secondo, ed è di nuovo la pace.
 
Mi risveglio che è pieno giorno. Ho tanta sete e la bocca impastata. Mi sento sporco e incredibilmente stanco. Sono ancora legato e le fasce di cuoio sui polsi mi fanno male. Le mie braccia sono rosse ed ho delle fiacche vicino alle stringhe. Mi sento bagnato... Oh Dio mio! Devo essermi pisciato addosso!!! Dio mio, la vergogna, la vergogna...
Mi guardo intorno: la stanza è piccola e alta come una torre. Le pareti sono vecchie e sgretolate e negli angoli la calcina è imbevuta di umidità e muffa. Non c'è niente, tranne il mio letto ed un tavolo di ferro bianco. La finestra è ridicola, minuta e tanto in alto che dietro le sue sbarre si vede solo cielo: un cielo azzurro e delle nuvole bianche che si rincorrono nel vento, che fuggono leggere davanti ai miei occhi opachi e gonfi. Ho una tale confusione in testa. Come sono finito qui?
 
All'improvviso mi vieni in mente, mia piccola Giulia. Dove sei amore mio? Perché mi hai lasciato? Vienimi a prendere Giulia: io ho tanta paura. Non lasciarmi solo. Come hai potuto dimenticare tutto quello che c'è stato fra di noi? Come ha potuto farmi tanto male? Perché tradirmi con un porco simile?
 
Di colpo l'immagine di Giulia e Paolo insieme mi riempie la testa ed il cuore: siamo in cucina. Lei è ai fornelli e lui le si avvicina dal dietro. La sua mano scivola sui suoi capelli, poi sul suo collo. Segue leggera il profilo delle sue spalle e le stringe amorosa il braccio, mentre le sue labbra si posano dolci vicino al suo orecchio...
 
Sì, quello lo ricordo bene, e adesso sento il vomito salirmi su dallo stomaco per la rabbia. Maledetto bastardo!!! Me l'hai portata via. Era mia, solo mia! Tu non la conosci. Che ne sai tu di lei? Niente, un bel niente! Tu sei solo un porco. Non sei degno di toccarla!
 
Giulia, mia piccola Giulia... Io ti conosco da sempre, da quand'eri bambina. Dio come t'ho amato! Che ne sa lui di com'eri da piccola? Che ne sa lui delle nostre corse nei campi verdi; di quando salivamo sul trattore e giocavamo a fare i contadini? Lui non sa di quando cadevi e ti sbucciavi le ginocchia e poi piangevi sconsolata correndo da me. Io ti ripulivo dal sangue e ti baciavo le ferite per farti passare il male. Poi ti asciugavo le lacrime con il palmo della mano, mentre tu già sorridevi felice, pronta a seguirmi in capo al mondo, ovunque avessi voluto portarti.
 
«Tommaso, che farai quando sarai grande?»
 
«Andrò in città e farò un mucchio di soldi. Poi tornerò a prenderti su una macchina rossa e lunga 10 metri. Sai, di quelle americane con i vetri scuri ed i sedili in pelle!»
 
«Davvero tornerai a prendermi? Non ti dimenticherai di me?»
 
«Ma certo che no, stupidina! Come potrei dimenticarmi di te? Tornerò e poi ti sposerò»
 
Tu ridevi di nuovo, tranquilla e felice al mio fianco. Dovevi avere 8 o 9 anni. Ed io 11 o 12. Eravamo sempre insieme, da mattina a sera. Ricordi Giulia? Tutti i giorni facevamo insieme la strada sull'argine che portava a scuola e durante la ricreazione nel cortile tu non giocavi mai con le tue compagne. Venivi da me e ci scambiavamo sempre la merenda perché tua madre si ostinava a darti pane e formaggio e tu quel formaggio proprio non lo sopportavi. «Sa di pecora: di cacca di pecora!» mi dicevi ridendo.
Com'eri bella: così esile e chiara che veniva voglia di stringerti al petto fino a stritolarti. D'estate al fiume ti scottavi sempre e dopo un paio d'ore al sole ti si pelava il naso. Anche quand'eri più grande era lo stesso; così finito il bagno te ne andavi all'ombra dei castagni a studiarti i libri di latino e ti impiastravi il naso con una pomata bianca che ti copriva metà faccia.
 
«Sembri una della tribù dei pellirossa, ma guarda che disastro sei!!» ti dicevo serio.
 
«Mica tutti hanno una pelle d'asino come te, che sembri un arabo!»
 
Allora facevo finta di arrabbiarmi e ti correvo dietro. Finivo per catturarti e ti trascinavo a terra con me a lottare sull'erba tenera. Sentivo il tuo soffice corpo svincolarsi dalla mia stretta mentre ridevi e gridavi come un cucciolo felice, ed io ti tenevo stretta a me, sempre più stretta, con il mio viso nascosto nei tuoi capelli biondi e respiravo ad occhi chiusi quel tuo profumo soleggiato ed estivo: era un profumo che sapeva di giovinezza, un miscuglio dell'aroma del tuo corpo, di acqua di fiume e di creme solari. Era il tuo profumo, solo tuo. Non l'ho mai più trovato in nessun'altra donna. Tu gridavi «lasciami disgraziato, lasciami!» ma ridevi, ed io mi perdevo nel calore di quel tuo corpo d'adolescente, con il mio viso affondato nei tuoi capelli soffici e biondi, mentre il tuo respiro affrettato cantava una canzone alla mia anima. Poi mi ricordo che di colpo sentii il tuo seno pieno di donna schiacciato sotto di me e mi resi conto improvvisamente che ti eri fatta grande, che quegli occhi di bambina mi guardavano adesso con un'espressione diversa: seri e maturi. Turbato ti lasciai andare, senza più trovare il coraggio di guardarti o di stringerti golosamente contro il mio corpo...
Poi un giorno arrivò lui, a separarci per sempre. Da un giorno all'altro non avevi più tempo per me. «No, Tommaso, devo studiare oggi. No, Tommaso, stasera non posso. No, Tommaso mi spiace. Sarà per un'altra volta».
 
Che stupido ero! All'inizio pensavo veramente che tu non potessi, che fosse perché avevi gli esami di maturità ed aspettai pazientemente che tutto tornasse come prima, ma con un nodo in gola. Intanto tutti i miei amici avevano la ragazza e mi prendevano in giro.
 
«Allora Tommaso: che, vuoi rimanere vergine fino a 40 anni o è che non ti piacciono le donne?»
 
Ridevano e non sapevano che aspettavo te, solo te. Ma tu passasti l'esame ed ancora non avevi tempo per me. Poi un giorno mia madre disse con noncuranza che ti eri fidanzata con uno di città: uno studente di medicina con i soldi.
 
«Beata lei! - commentò mia madre - andrà a vivere in un appartamento con i caloriferi e l'ascensore e avrà anche una serva per aiutarla a fare da mangiare e a pulire il culo ai figli! Qui avrebbe solo finito per lavorare in campagna!»
 
Uscii sbattendo la porta e corsi a casa tua:
 
«È vero quello che dicono in paese? È vero che sposi quel finocchio di città?»
 
«Tommaso, non essere stupido! Paolo non è un finocchio e tu dovresti essere felice per me. E non guardarmi così: siamo adulti adesso. Doveva succedere prima o poi. Anche tu t'innamorerai qualche giorno di questi ed io sarò felice di venire al tuo matrimonio. Tommaso, ma cos'hai? Perché mi guardi così? Mi fai paura...»
 
Uscii sbattendo la porta e in quel momento ti odiai fino all'anima e promisi a me stesso che non avrei mai più pensato a te. Sei mesi dopo ti sposasti e io non venni al matrimonio. Non potevo, Giulia. Proprio non potevo. Mia madre non capiva e cercava di convincermi e di comprendere quello che stava succedendo:
 
«Ma insomma, Tommaso! Gli zii ci sono rimasti così male che non c'eri al matrimonio. Ho dovuto dire che eri ammalato, che ti spiaceva tanto non esserci! Ma com'è possibile che non volessi venire al matrimonio di tua cugina? Ma se eravate inseparabili da piccoli! Suvvia, valla a trovare. Giulia era così dispiaciuta... Chiedeva continuamente di te e si vedeva che ti cercava con lo sguardo durante tutta la cerimonia. Sembrava così triste... Mi ha detto che devi andare a trovarla nella sua nuova casa, al più presto».
 
Ci venni a trovarti e Paolo mi strinse anche la mano, quel verme. Tu ti affaccendavi a preparare la cena ed io non dissi una parola. Dio, com'eri bella Giulia: il tuo corpo era più pieno: eri diversa, più donna, più sicura di te. Qualcosa ti aveva cambiato. Eri tutta accaldata ed un velo di sudore ti copriva la fronte. Paolo parlava e parlava. Io lo guardavo e pensavo solo a come lo abbracciavi di notte nel letto, a come ti accoccolavi nelle sue braccia prima di dormire. Lui parlava e parlava e io lo odiavo con tutto me stesso, sempre di più. Ti fissai: eri nervosa. Facevi cadere tutto a terra e ti eri fatta pallida. Guardai Paolo e gli chiesi di botto:
 
«e dimmi Paolo, ti ha raccontato Giulia di tutto il bene che ci volevamo noi due da bambini? Di tutto il bene che ci siamo sempre voluti? E tu, Giulia, dì, glielo hai raccontato di quando ci promettevamo di stare sempre insieme: di quando ti abbracciavo e tu mi dicevi che volevi essere mia moglie?»
«Dai, Tommaso non fare lo scemo... Eravamo solo bambini. Erano le promesse di due bambini! Non fare così adesso...»
 
Mi guardavi implorante, bianca come uno straccio. Paolo si fermò con il bicchiere a mezz'aria senza sapere cosa aggiungere, o che attitudine prendere. Ci fu un attimo di silenzio pesante come il piombo. Poi disse allegramente:
 
«Beh, il passato è il passato Tommaso. Perdonerò la mia mogliettina per il suo crudele tradimento di tanti anni fa e perdonerò anche te: in fondo siamo parenti adesso! Alla tua, cugino!»
 
Ridemmo tutti e tre, ma quella notte non riuscii a dormire pensandovi insieme a fare l'amore, quando tu dovevi stare con me, solo con me! Puttana!! Sei una puttana Giulia! Eppure io ti amo, quanto ti amo amore mio!...
 
Da quando ti sposasti non riuscivo più a dormire o a mangiare. Ero corroso dalla gelosia che mi divorava vivo. Mia madre piangeva e voleva che andassi dal medico. Diceva che ero strano, che non ero più suo figlio. Dopo qualche mese persi il lavoro in fabbrica e cominciai a bere come un pazzo. Passavo tutto il giorno al bar a scolarmi bottiglie di grappa e di cognac e a pensarti felice, mentre scopavi con quel mollusco. Bevevo fino a vomitare, fino a perdere conoscenza e ritrovarmi all'alba addormentato sotto qualche lampione di un posto che nemmeno conoscevo. Era un dolore senza tregua, che mi distruggeva il fegato e la vita. Un giorno ti vidi apparire in piazza. Era agosto e faceva un caldo boia. Stavo al bar, seduto all'ombra e con le mosche che mi perseguitavano. Tu scendesti dalla corriera ed io sentii improvvisamente il cuore farsi polvere. Eri incinta di lui, di quel porco. Ti avvicinavi a me con un sorriso teso, con quel passo da papera che hanno le donne incinta.
 
«Ciao, Tommaso. Tua madre mi ha telefonato. Dice che non stai bene, che ti stai rovinando la vita... Mi ha pregato perché venissi a parlarti. Piangeva tanto, poverina. Dice che Dio la sta castigando per un peccato che non ha commesso. Tommaso, ma mi senti?»
 
«Che ci fai qui, puttana? Sei venuta a farmi vedere che stai per avere il suo bastardo?»
 
Vidi il tuo viso impallidire di colpo, mia piccola Giulia. La tua bocca sparì sotto una smorfia di dolore. Già mi ero pentito di quello che avevo appena detto. Avrei voluto chiederti perdono, dirti che ero un vigliacco, che ti amavo... era solo che non potevo sopportare di vederti gonfia di un figlio che quell'uomo ti aveva piantato nella pancia! Però era troppo tardi. Vidi solo che i tuoi occhi erano bagnati di lacrime, che mi stavi lasciando per correre via sotto il peso della gravidanza. Sparivi nell'afa appiccicosa di quel giorno d'agosto, allontanandoti in quella lurida piazza di paese. Ed io? Io ti guardavo senza fare niente.
La colpa era sua, solo sua. Era tutta colpa di Paolo!
 
Adesso sono qui, legato a questo maledetto letto. Sento la chiave girare nella toppa della porta. È lei, la donna in camice bianco. Cosa vuole ancora da me? Giro la faccia dall'altra parte e guardo le nuvole al di là delle sbarre della finestra. Che cosa strana sono le nuvole: acqua che vola, vapore che fugge dal mondo. Anime candide che corrono lontano dal male che ci attanaglia la vita, a noi uomini. Fuggono dalla nostra sofferenza, o chissà, forse solo perché noi gli facciamo schifo. Dove finirà mai quella nuvola? Forse cadrà come pioggia sul tuo balcone Giulia, e tu sarai triste pensando a me. Capirai tutto e correrai qui, a chiedermi perdono per tutto il male che mi hai fatto...
 
«Tommaso, come sta? Va meglio?»
 
«Vada via, non voglio parlare. Voglio Giulia, solo lei. La chiami la prego, io devo, devo parlarle...»
 
«Tommaso, mi ascolti: si ricorda di quello che è successo ieri sera? Si ricorda di quello che ha fatto quando andò a casa di sua cugina?»
 
Sì, sì: ora mi ricordo... ma tu sta' zitta adesso! Ero ubriaco fradicio. Quasi non mi reggevo in piedi. Avevo così vergogna di me stesso, Giulia. Volevo chiederti perdono. Volevo che tu ti dimenticassi delle cose orribili che ti avevo detto in piazza. Come avevo potuto farti così male?
 
Ti telefonai, ma tu eri arrabbiata con me e non volevi sentire ragioni. Scoppiai a piangere come un bambino, farfugliandoti fra le lacrime che mi vergognavo, che ti volevo tanto bene e avevo bisogno di dirtelo, di inginocchiarmi davanti a te e di implorare il tuo perdono. Alla fine tu mi dicesti di sì, che potevo venire a cena a casa tua, ma solo a patto che non facessi storie, perché Paolo non lo avrebbe sopportato questa volta. Ti ringraziai piangendo, baciando e ribaciando il telefono nero del bar, mentre intorno si era fatto un gran silenzio e mi guardavano tutti.
 
Suonai il tuo campanello a fatica, tremando dall'emozione e pieno d'alcol fino alle ossa. Quando Paolo aprì la porta gli caddi addosso. Lui mi sollevò e mi aiutò a sedermi al tavolo. Tu eri talmente tesa... Avevi un'espressione triste e gli occhi pieni di lacrime. Chissà: forse era solo pena che ti facevo. Forse l'amore era solo nel mio cuore, o nel fondo di una bottiglia di grappa.
 
Andasti in cucina con la scusa di togliere l'arrosto dal forno e lui ti seguì premuroso per cercare di consolarti. Ti seguì quel finocchio. Vi vidi in cucina, insieme, complici contro di me. Lui si avvicinava dal dietro. La sua mano scivolava sui tuoi capelli, poi sul tuo collo. Seguiva leggera il profilo delle tue spalle e si stringeva amorosa sul tuo braccio; mentre le sue labbra si posavano dolci vicino al tuo orecchio...
 
Fu allora che l'ira esplose dentro di me, incontrollabile, più forte di un uragano. Fu allora che mi precipitai in cucina come un pazzo. Afferrai il forchettone dell'arrosto e urlando mi buttai contro Paolo. Ricordo solo le tue grida, Giulia... ricordo che ti buttasti sopra di me, che urlavi di smetterla, per l'amore di Dio, per l'amore che sentivo per te. Ma io non potevo salvarlo. Era tutta colpa sua. Ci aveva diviso, aveva distrutto il nostro amore. Io dovevo liberarti di lui, di quel bastardo che tenevo fermo sotto di me, che voleva un figlio dal tuo corpo!!... Lui ebbe solo il tempo di gridare qualche parola:
 
«Giulia, allontanati! Scappa Giulia...»
 
Fu troppo: alzai il braccio verso il cielo, poi lo abbassai con furia e gli piantai il forchettone dell'arrosto nel collo. Glielo conficcai dentro, con rabbia infinita, fino a che sentii che si piantava dall'altra parte, nel legno del pavimento, inchiodandolo per sempre sotto di me. Ormai non si muoveva più, ma io continuavo a spingere, forte, spingevo sempre più forte, mentre tu urlavi inorridita e gridavi il suo nome e ti buttavi sul suo viso che adesso sprizzava sangue dalla gola e dalla sua bocca aperta come da una fontana. Era finita. Adesso era davvero finita.
 
«Tommaso, mi sente? A cosa sta pensando? Si ricorda cosa successe ieri sera a casa di Giulia? Tommaso, mi risponda...»
 
Riapro gli occhi e piango in silenzio: è un pianto senza suono. Le lacrime mi scendono lucide sulle guance. Ma cosa vuole questa donna da me? Giro la testa verso la finestra e guardo le nuvole bianche e leggere che volano nel cielo terso dell'estate: chissà mai dove andranno a finire...

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Agg. 07-01-2004