Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Daniela Raimondi
Con questo racconto ha vinto il secondo premio p.m. del concorso Marguerite Yourcenar 1998 sezione narrativa
 
 
La fotografia
 
Ho sentito dire che i nostri primi ricordi risalgono all'età dei tre anni e che fino a quell'età non abbiamo memorie. So che non è vero: quando morì Erasmo avevo sì e no due anni e mezzo, eppure la disperazione di quei giorni mi è rimasta inchiodata negli occhi e mi ha aperto una ferita che forse non si è mai rimarginata completamente. A volte penso che questa mia tristezza senza tregua ed i labirinti di paure in cui mi sono sempre dibattuto siano germogliati il giorno in cui morì mio fratello.
 
Quando arrivò mio padre a prendermi a casa di nonna Anna io stavo giocando nel cortile. Papà mi sorrise e mi arruffò i riccioli, ma intuii che era successo qualcosa di terribile. Entrò in casa per parlare con i nonni, ma tutto d'un tratto non avevo più voglia di giocare e dopo qualche minuto lo seguii. Li trovai che piangevano tutti, tutti tranne papà: lui era come distante, diverso dal solito papà. Non capivo. Gli prendevo la mano per rassicurarmi che quell'uomo di pietra fosse ancora il mio babbo e lui me la stringeva forte, ma senza guardarmi. Bisbigliavano tutti e cercavano di parlare un linguaggio segreto che mi sfuggiva. Mi ricordo che ebbi paura, per la prima volta nella mia vita e nell'incertezza dell'ignoto scoppiai a piangere, chiamando la mamma fra lacrime inconsolabili; allora la nonna mi prese in braccio e mi asciugò le guance con il palmo della mano, mentre lei tirava su col naso.
 
Tornammo a casa, papà ed io, in silenzio. Faceva freddo. Attraversammo la piazza del paese e ricordo che la gente ci guardava con un'espressione strana, quasi con vergogna, improvvisamente ammutoliti al nostro passaggio. Papà camminava rigido, con un passo lungo e veloce che mi faceva correre ed inciampare continuamente. Mi aggrappavo al suo braccio per paura di cadere così lui mi sollevò per aria e mi caricò a cavallo sulle spalle. Ci incamminammo sul sentiero che portava alla nostra cascina lasciandoci alle spalle anche l'ultima casa del paese; l'impazienza di vedere la mamma mi gonfiava il petto. Papà non diceva una parola; io gli circondavo la testa con le braccia e gli stringevo il viso con le mani per tenermi in equilibrio, quando d'improvviso le sentii bagnate di lacrime tiepide.
 
Arrivati a casa volai fra le braccia di mia madre per rassicurarmi che tutto era bello e sereno e che il mondo era ancora quello di sempre. Solo allora vidi Erasmo: stava ad occhi chiusi disteso sul tavolo della cucina che era stato coperto da un lenzuolo bianco e ricamato. Non capivo perché dormisse in un posto tanto strano, tutto vestito di bianco e con quei quattro candeloni agli angoli. Fissai pieno di ansia la mamma che mi teneva stretto fino a farmi soffocare: lei non piangeva, ma aveva gli occhi gonfi; quando mi parlava le sue labbra tremavano e la voce le usciva incerta dalla bocca perdendosi nell'aria. Impaurito mi accoccolai sul suo grembo per un periodo interminabile, la testa appoggiata sul suo seno e finalmente riuscii ad addormentarmi, cullato dal battito soave del suo cuore.
 
Mi svegliarono i colpi di martello: ero nel letto grande dei miei genitori, ero solo, ed ero al buio. Una striscia di luce scivolava sottile da sotto la porta che portava in cucina. Balzai dal letto e mi ci avvicinai con trepidazione. Socchiusi piano la porta e un bagliore improvviso mi accecò: intorno al tavolo c'erano tutte le persone che conoscevo, tutte tranne mio padre. Erano vestiti di nero e le donne pregavano con i rosari fra le dita recitando una cantilena monotona e triste. Un uomo si nascondeva dietro un panno nero che celava una strana macchina sorretta da lunghe gambe di metallo. Sentii di nuovo i colpi di martello: provenivano dalla stalla. Poi entrò mio padre: portava sotto il braccio una cassetta di legno inchiodata semplicemente, appena più grande delle cassette che riempivamo di frutta da vendere al mercato. Alla vista della cassetta la mamma emise un urlo soffocato, portandosi un fazzoletto alla bocca. Spalancai gli occhi, incapace di muovermi. Tutti stavano in silenzio, senza più muoversi: gli uomini fissavano il pavimento, le donne piangevano, alcune si stringevano intorno alla mamma. Vidi nonna Anna avvicinarsi e mettere sul fondo della cassetta un cuscino bianco che sembrava di seta.
 
Fu a quel punto che successe. La mamma prese fra le braccia il mio fratellino addormentato e lo baciò sulla fronte, ancora e ancora. Era pallida, sfigurata, le sue mani tremavano tanto che temevo facesse cadere Erasmo per terra. Non sembrava nemmeno più la mia mamma. La vidi posare mio fratello nella cassetta. Trattenni il respiro, terrorizzato Anche mio padre baciò Erasmo e gli toccò piano le dita della manina. Poi, incomprensibilmente, vidi con orrore che papà chiudeva la cassa con un coperchio e che cominciava ad inchiodarla, battendo forte con il martello.
«Nooo!!!».
L'urlo mi uscì feroce dall'anima, pieno di disperazione. Mi precipitai nella stanza e mi buttai sulla cassa: cercavo di aprirla, graffiavo il legno con le unghie, smaniavo per fare in fretta, ma il primo chiodo era già ben saldo nel legno. Gridai isterico:
«Non c'ha l'aria, non c'ha l'aria! Aprite, aprite! Erasmo non c'ha l'aria!».
Mo padre si fermò di colpo, incapace di reagire. Mia madre corse verso di me, ma per tenermi a bada ebbe bisogno dell'aiuto della nonna perché mi svincolavo dalla sua stretta e calciavo come un matto.
 
Da quel giorno iniziai a soffrire di incubi che dovevano perseguitarmi per anni. Ancora oggi, ormai vecchio, ho terrore dei posti chiusi e se alla sera mangio troppo mi sveglio nel mezzo della notte coperto di sudori freddi, con un martello che mi batte impietoso nella testa.
 
La mattina dopo il funerale mia madre mi svegliò prima dell'alba. Era quasi Natale ed eravamo sotto zero: la stanza era gelida e lunghi coni di ghiaccio pendevano fuori dalla finestra. Io non volevo lasciare il rassicurante tepore del mio letto ma la mamma mi prese fra le braccia e mi portò di corsa davanti al fuoco del camino nella cucina per vestirmi.
«Dove andiamo?». Chiesi con una voce impastata dal sonno e stropicciandomi gli occhi.
«Andiamo a prendere una cosa molto importante: la fotografia di Erasmo. Sai, è come un disegno del tuo fratellino, ma più bello di un disegno, è come se fosse ancora… Beh, è proprio come lui, e lo potremo guardare sempre, ogni volta che ce ne viene la voglia. Sarà come se stesse qui, a casa con noi».
Uscimmo di casa che albeggiava e ci incamminammo verso il bosco di pioppi che dovevamo attraversare per raggiungere il fiume. La prima luce del giorno tingeva il mondo di una luce tenue ed azzurrina; il ghiaccio aveva ricoperto campi ed alberi di cristallo scintillante e la terra scricchiolava sotto i nostri piedi. Eravamo imbacuccati con vari strati di maglioni di lana e cappotti spessi un dito, ma camminavamo forte per combattere quel freddo polare ed il nostro fiato caldo che volava al cielo sembrava essere l'unica cosa viva nel bosco impietrito dall'inverno. Di tanto in tanto guardavo in alto, verso mia madre, ma lei aveva la testa ed il viso coperto da una sciarpa di lana scura e le si vedevano solo gli occhi chiari ed alcuni riccioli ribelli.
 
Ci volle una buona mezz'ora prima che raggiungessimo l'argine. Il fotografo abitava dall'altra parte del fiume; attraversammo il ponte di barche sul Po e il villaggio spuntò d'improvviso dietro una curva. Arrivammo al negozio che ancora non erano le otto, ma mia madre non aveva dormito per il dolore e per l'impazienza di ritrovare l'immagine del figlio morto nel trucco magico di un cartoncino di carta in bianco e nero. Consumata da un'ansia disperata era stata incapace di aspettare e si era alzata che era ancora buio, ed adesso aspettava l'apertura del negozio con la stessa avida anticipazione del condannato a morte che aspetta la grazia due ore prima dell'esecuzione.
 
Il fotografo ci vide per caso attraverso il vetro appannato della finestra della cucina sovrastante la bottega, quando era ancora in pigiama e teneva in mano una tazza di caffè fumante e zuccherato. Mancava più di un'ora all'apertura ma dovemmo fargli pena, seduti come eravamo su quel gradino ghiacciato, intirizziti dal freddo, soli come due cani randagi. Si coprì con il tabarro e scese per aprirci la porta. Ci portò nel retrobottega dove la fotografia di Erasmo stava ancora appesa ad un filo ad asciugare. Mia madre l'accolse senza respirare, con una trepidazione infinita e con la santità con cui si tocca una reliquia. Ci fu un attimo di assoluto silenzio. Di colpo gli occhi della mamma si fecero più grandi. Nessuno parlava. Guardai il fotografo: il pover'uomo aveva gli occhi lucidi e fissava con profonda pietà il volto della mamma, che improvvisamente si era illuminato d'amore.
 
Lasciammo il negozio per tornare a casa, ma appena usciti dal paese la mamma si fermò per accarezzare l'immagine del suo bambino, facendo attenzione affinché i suoi baci non sciupassero la carta. Facevamo trecento metri e lei già non resisteva più; così ci fermavamo di nuovo e lei ritoglieva dalla borsa il ritratto di Erasmo per rimirarselo avidamente. Ci mettemmo un tempo infinito per arrivare alla nostra cascina. Io morivo di fame, ma prima di farmi mangiare la mamma corse a prendere il suo ritratto di nozze: aprì la cornice e sostituì la sua fotografia con quella di mio fratello. La mise poi in bella vista sulla credenza e da quel sabato lei non si separò mai più da quell'immagine: di sera se la portava in camera da letto e ogni mattina la rimetteva in cucina. Compì questo rituale tutti i giorni, immancabilmente, per tutta la sua lunga vita. Quando sessant'anni dopo si ammalò gravemente ed entrò in ospedale, non dimenticò di portare con sé il suo prezioso ritratto.
 
Spirò dopo pochi giorni. Una giovane infermiera dai capelli rossi e il viso pieno di efelidi mi aiutò a liberare il suo comodino. Mi trovai fra le mani la fotografia di Erasmo: chi si sarebbe preso cura di quel ricordo ora che mamma se n'era andata? Fissavo quell'immagine, incapace di riporla nella borsa assieme alle altre cianfrusaglie senza valore. Non credo in Dio, ma mi ricordo che in quel momento non potei fare a meno di chiedermi se la mamma lo avesse finalmente raggiunto, il suo piccolo Erasmo: forse adesso non aveva più bisogno di quel cartoncino tutto sgualcito. Chissà poi perché avevano scelto un nome tanto strano per un bambino.
 
La giovane infermiera mi si avvicinò, scuotendomi da quei pensieri. Rimirò incuriosita quella vecchia fotografia d'altri tempi, tutta ingiallita. In un primo momento non osò farmi domande, ma visto che non mi decidevo a metterla via, non resistette alla tentazione e finì per chiedermi timidamente chi fosse quel neonato gracile con i pugnetti chiusi, che sembrava quasi dormire su quel bel cuscino ricamato di seta bianca.


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Agg. 07-01-2004