Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Daniela Raimondi
Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Club Poeti 1999, sezione narrativa
 
 
La donna di Uriki
 
È scesa la notte ed il buio ha inghiottito di nuovo il villaggio. Da tre ore ho finito tutto il mio lavoro: ho chiuso le bestie nel recinto, il grano è stato macinato ed ho dato acqua alle verdure dietro la capanna. Queste erano piene di vermi grassi e biancastri che rosicchiavano le foglie nuove, le più tenere, e quando li staccavo dalle piantine si arrotolavano guizzanti alle mie dita. I polli hanno fatto gran festa quando glieli ho gettati in pasto.
Ora che le mie figlie si sono sposate non ho più molto dare fare. Ho 37 anni ed altre donne della mia età hanno ancora bambini nella pancia ed un marito a cui badare. Non io. Il destino ha voluto che Uriki se ne andasse un mattino di quindici anni fa per non tornare più.
Quel giorno lo vidi sparire all'orizzonte fra le foglie dei banani ma il mio sangue non mi diceva che quella sarebbe stata l'ultima volta. Il cielo era quello di sempre, respiravo l'aria di sempre, gli odori non erano diversi da sempre: il mondo intero era quello di sempre. Niente mi premonì che la mia vita non sarebbe più stata la stessa. Nemmeno un segno mi indicò che invece la mia angosciosa attesa sarebbe cominciata quel lontano giorno di quindici anni fa.
Quindici lunghi anni sono passati ed io invecchio da sola in questa lurida capanna. Un giorno ho osservato la mia immagine riflessa nell'unico specchio che possedevo, ma d'improvviso non ho più riconosciuto quel volto secco e duro che vedevo davanti a me. Quando vado al fiume a prendere acqua ascolto con terrore il rumore dei miei passi: sono passi carichi di solitudine, passi da uomo. Risuonano stanchi e calpestano pesanti questa terra arida e rossa come il fuoco che il deserto divora a poco a poco, di anno in anno.
Una terra ormai abbandonata dal grano e dal canto delle cicale, che aspetta solo i nostri cadaveri per coprire le nostre ossa bianche con la sua polvere bruciata che il deserto trascinerà con sé nelle notti di vento e di bufera.
Ho 37 anni ma ho i seni vuoti, senza più latte ed i miei fianchi hanno dimenticato il dolce peso di un uomo che ti abbraccia e ti regala vita. I primi anni senza Uriki sono stati i peggiori. Non riuscivo a dormire senza il profumo della sua pelle e mi svegliavo di soprassalto al minimo fruscio della notte. Allora scattavo in piedi come una gazzella e mi precipitavo alla porta della capanna, sussurrando il nome del mio uomo con la voce che mi tremava nel petto, ma lui non è mai tornato. Tutto il giorno lavoravo come in preda all'affanno per ritardare il momento della sera e poter dormire senza pensare all'amore che mi era stato negato.
Senza un uomo intorno ho dovuto imparare a riparare il tetto dopo la stagione delle piogge, a ricostruire ad ogni primavera il recinto per gli animali e persino a far partorire le bestie. Poi, un mattino di qualche anno fa, una donna del villaggio è corsa da me e con un sorriso sulle sue labbra sottili mi ha detto che Uriki era stato visto ad un mercato di bestiame al lato estremo delle nostre terre, a più di sette giorni di cammino dal nostro villaggio. Dicono fosse con una donna giovane che indossava gli abiti di un'altra tribù.
Questa teneva un bambino per mano ed aveva il ventre ingrossato da un'altra gravidanza.
Ho risposto con orgoglio che lo avrei creduto solo quando lo avessi visto con i miei occhi e che quelle erano solo chiacchiere, ma rimasta sola mi sono accasciata al suolo abbracciata al mio dolore, ed è là che mi hanno ritrovato le mie due figlie alla sera, quasi senza più vita.
Da quel giorno ho smesso di aspettarlo, però senza il sogno di rivederlo, la mia solitudine si è fatta ancora più amara. Ci sono stati degli uomini che mi avrebbero voluta, ma dissi loro che solo se mi riportavano il cadavere di Uriki avrei potuto coricarmi con un altro.
Da mio padre ho imparato l'orgoglio, da mia madre il pudore e dalla mia solitudine ad accettare il mio destino.
Ci fu un tempo però in cui piansi di nuovo per amore. Lo conobbi quando una delle mie figlie prese marito: dovetti comprare dei capretti per la festa e mi indicarono un pastore che viveva sulle montagne vicino al lago. Quando i nostri sguardi si incrociarono mi sembrò di rinascere, perché improvvisamente vidi il mondo con occhi innamorati, ma abbassai subito lo sguardo stordita dalla vergogna. Il pastore uccise il capretto davanti a me mentre lo aiutavo a tenere ferma la bestia che scalpitava terrorizzata. Quando il suo pugnale gli aprì la larga ferita nel collo le nostre mani si toccarono e furono bagnate dallo stesso sangue che corse caldo e vivo fra le nostre dita. Dopo qualche giorno lui mi venne a cercare al villaggio. Mi parlò e riconobbi nella sua voce la mia stessa voce, e quando mi guardò, riconobbi la stessa mia anima riflessa nei suoi occhi. Tremai dentro, fino alle ossa, ma nulla trapelò alla superficie. Gli parlai con voce dura, piena di orgoglio:
 
«Sono la donna di Uriki» dissi con fermezza.
 
Sentii queste mie parole scandire implacabili la mia sentenza. Lui mi fissò come nessun altro uomo mi ha mai fissata. Ci fu un lungo attimo di silenzio, poi mi disse:
 
«Tu sai che stai facendo uno sbaglio. Sai che tuo marito non tornerà, ma pagheremo tutti e due per questo tuo assurdo orgoglio».
 
Non risposi nulla, perché temevo di cedere e di gettarmi nelle sue braccia per gridargli di non andare via, di non lasciarmi sola, mai più, mai più, mai più... Invece non dissi nulla. Lo sentii uscire ed aspettai in silenzio di sentire i suoi passi allontanarsi dalla mia vita. Tre volte tornò per chiedermi in moglie, e tre volte gli strappai il cuore a pezzi, ma mentre lo facevo maledicevo mio padre e mia padre. Mentre lo respingevo maledicevo la mia stessa vita.
 
Ormai sono passati tanti anni e tutto è sepolto fra le macerie dei miei ricordi. Ho imparato ad amare il silenzio ed adesso la vita mi scorre vicina come un fiume calmo, senza più toccarmi e senza più ferirmi; ma a volte, sola nel letto, sento il mio sangue in tumulto pulsare con forza nelle mie vene ed in me c'è una sete che mi brucia le labbra e che nessuna acqua può calmare.
Allora mi alzo e nel pieno della notte lascio il villaggio in silenzio, come una ladra, e quando raggiungo lo spazio eterno del deserto, corro a perdifiato. Corro lontano dalla mia prigione, dalla mia disperazione, corro dove nessuno possa vedere riflessa sulla sabbia bianca questa triste ombra che non ha più vita. Corro fino a stremarmi, fino a cadere esausta sulla sabbia ancora calda.
Sotto il cielo immenso solo i morsi freddi della luna mi baciano la pelle. Sento che il dolore mi preme forte sulle tempie, mi gonfia il petto ed incalza feroce nella mia gola. Ed allora il mio grido s'alza improvviso nel nero scalpore della notte e brucia come un fulmine la statica tranquillità del cielo.
Per le mie mani non mi basta il mondo, ma io aspetto, teneramente aspetto, abbandonata a quelle chiare dune come al corpo di un amante. Aspetto che il mio grido si sciolga piano nel vento caldo dell'Africa e, malinconico e dolce, si trasformi in un canto. Un canto che si perda lontano, al di là del dolore, al di là dei miei sogni, al di là dell'attesa.
Lontano, sì, lontano...

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Agg. 07-01-2004