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Anna Matera
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Anna Matera - Immagini sfumate
 
Collana I salici (narrativa) 12x17 - pp. 52 - Euro 6,97 - L. 13.500 - ISBN 88-8356-266-6
Prefazione
Capitolo I

Prefazione
 
"Scrivere è come dipingere: non si sa mai l'esatta sfumatura che si otterrà". È questo il punto di partenza del percorso di una donna che svela il suo animo sincero e racconta della propria vita e delle vicende umane ad essa collegate. Le parole raccontano e scorrono come un fluido nel mondo della memoria: il paese natìo, le emozioni ed i ricordi, le atmosfere e le suggestioni. La mente ritorna alle immagini del paese di Intavolata in Calabria, alla sua protettrice Santa Teresa d'Avila, alle feste, alle "freselle" raccolte in un sacco quando era ancora bambina, al pane fatto in casa con l'acqua di mare, alla "cerva" bevanda dal colore verde e dal gusto delicato che qualcuno portava dall'Argentina. La vita che gira e rigira come "un'ombra inafferrabile", una strana ombra che non incuriosisce, insidiosa, anomala e alla fine ci fa ritrovare in un luogo "non conosciuto" e lontano dall'amato mare nel quale si poteva nuotare tra Viertula (che in dialetto calabrese significa "bisaccia"), Campanaro, lo scoglio dellle donne ( sul quale si potevano "scasare" le patelle) e quello del Trampolino (chiamato così perchè ci si poteva tuffare dall'alto).
Ecco allora la magia del blu profondo del mare di una terra bellissima, le amicizie con le compagne di scuola, le atmosfere di un ambiente familiare, la passione autentica nell'osservare le meraviglie della natura: ma niente di tutto ciò è sufficiente a scacciare la voglia di andare via o la disperazione di rimanere e poi il concorso da conduttore per le Ferrovie dello Stato proprio quando continuare a studiare all'università poteva essere una scelta per il futuro.
Gli ostacoli, i cambiamenti, la maturazione interiore, la propria personalità che deve cercare sempre di prevalere in qualunque situazione o luogo ed in ogni momento della nostra vita. Le suggestioni e le sensazioni sono accomunate nella stessa trama con un unico scopo: esternare ciò che si ha nel cuore attraverso una coerenza ed una passione che diventano le forze trainanti di ogni momento della vita.
La voglia di capire tutto ciò che succede nella realtà con semplicità e chiarezza, per fugare ogni falsa apparenza e ricercare la verità, oggi come allora, per continuare a sognare ed andare sempre oltre lo scenario offerto dalla semplice visibilità.
Anna Matera afferma con convinzione che le responsabilità si devono sempre affrontare, i valori umani esistono e vanno rispettati con tenacia e forza di volontà. È l'unica via per creare un futuro migliore.
La crescita interiore deve essere costante ed assumere una valenza positiva; deve recuperare necessariamente le esperienze vissute ed eliminare la nostalgia per eventuali perdite; deve guardare positivamente alle potenzialità future e fare propria, come ha sottolineato Anna Matera, l'affermazione di Santa Teresa d'Avila: "Nulla ti turbi. Nulla t'inquieti, solo Dio è pace".
 

Massimo Barile

 Immagini sfumate
 
 

Ecco, la vita mi gira intorno come un'ombra inafferrabile. Un po' come il mito della caverna di Platone, dove i prigionieri, tenuti legati, erano costretti a guardare un muro, sul quale vedevano riflesse le ombre dei passanti. Ombre, a volte, appiccicose come lo smog cittadino. Altre volte fastidiose come le mosche tse-tse. La brezza del mare è lontana. Almeno, quest'ultima m'irradiava un po'. Altrimenti, invece, mi sento radiata. Soltanto l'onda anomala della vita mi travolge. Non riesco a prevederla. Mi trascina con sé, con forza e prepotenza. Senza alcun rispetto per quelle che sono le mie decisioni, le attese, il vero rispetto della vita stessa. Sembra, quasi, di essere in mezzo al mare, dove, all'improvviso, il risucchio di un mulinello m'ingoia. Almeno, il mare del mio paese io lo conoscevo a palmo a palmo. Sapevo che, nei paraggi dello scoglio detto "Trampolino", c'era un mulinello; quindi, quest'ultimo era facile evitarlo. Qui, a Bologna, io sono soltanto ospite. La mappa di questo mare io non la posseggo. Gli ospiti non possono conoscerla. Nuotare in questo mare, perché mi è fatica? Io amavo nuotare, non facevo alcuna fatica, se non soltanto quando ero fuori allenamento. In quest'ultimo caso, facendo la "morta", durante il tragitto, mi riposavo. Avevo, soprattutto alcuni traguardi, dei punti fermi, quali "Viertula", "Campanaro", lo scoglio delle donne, quello dei preti, Trampolino. Un po' più in là, a sud dell'Italia, s'intravede anche lo scoglio della regina. Così detto, quest'ultimo, perché si presenta maestoso, o, forse perché, in passato era la postazione di qualche regina dell'epoca; o, forse, tutte e due le ipotesi. "Viertula", credo che si chiami così perché, è molto verosimile ad una bisaccia di canovaccio, che i pastori usano portare al collo, oppure a spalla, con dentro, magari, formaggi, pane, bontà da gustare. Viertula è una parola dialettale calabrese che vuole significare proprio una bisaccia, almeno credo. Campanaro, invece, ha esattamente le sembianze di una campana. I preti riescono a raggiungere il proprio scoglio, che è il loro traguardo, senza togliersi, ma anche senza bagnarsi la propria tunica. Lo scoglio Trampolino si chiama così perché sembra fatto apposta per i tuffi. Esso è facile da risalire, docile per saltare nell'acqua. C'è, infine, lo scoglio delle donne, così detto perché anch'esso è facile da essere scalato, inoltre è levigato per potervi sostare; abitarlo, mangiare i frutti che offre ancora: le patelle. Ora, anche i miei pensieri attaccati forte a quello scoglio come le patelle, che non volevano abbandonare la propria casa. Alcune volte, ci si portava un coltellino per meglio staccare le patelle. Un po', però, mi dispiaceva "scasarle", ma la legge della catena alimentare aveva il sopravvento. Mangiavo quei frutti con voracità, non mi saziavo, ma soltanto deliziavo il palato. Così come le ciliegie: una tira l'altra. A volte, per raggiungere codesto scoglio, le donne nuotavano con una mano sola, perché con l'altra portavano, in un sacchetto di plastica, per non farlo bagnare, l'occorrente per ricamare, per lavorare con l'uncinetto, per cucire, lavorare ai ferri, o fare canestri con la paglia del grano. A proposito di canestri, mi ricordo che una turista, un'estate, commissionò una gran cesta. Non era solito confezionare ceste così grandi. Solitamente, le ceste che si vendevano, servivano per contenere frutta a modo di centro tavolo. Questa volta, la cesta in "cantiere", doveva servire da culla per un bimbo. Adesso avrà circa la mia età, se è ancora in vita. Un metro un po' lontano, ma pur sempre una misura. Non ricordo di averlo mai visto, ma chissà perché, l'immagino con gli occhi azzurri, intonati con la fodera della cesta rifinita all'uncinetto. Una bimba con vestiti rosa, anch'essi intonati alla fodera dello stesso colore. Il giallo dorato, della paglia profumata di grano, che si teneva a bagno con l'acqua perché fosse più duttile da lavorare, mi fa venire in mente la fragranza e la bontà del pane appena sfornato. Così come quella creatura, o, forse, trattandosi, magari, di gemellini appena partoriti e riposti in una così bella culla, come il pane sfornato riposto nelle ceste. In realtà, la turista che commissionò quella gran bella cesta, era proprio la futura mamma che, "caldamente", badava a confezionare l'occorrente necessario alla propria prole in arrivo. A quei tempi, non era molto semplice sapere quanti nascituri sarebbero arrivati. Sarebbero stati maschi, oppure femmine. Non era molto semplice, come oggi, saperlo. Forse, esistevano anche allora dei parametri, ma diversi e meno esatti nei confronti a quelli d'oggi. La donna che elaborò la cesta, io non so con esattezza, se era una delle mie sorelle, cugina, oppure un'altra del paese. Sicuramente, ricordo che ella ebbe molto da lavorare, forse, tutta l'estate, per non deludere le attese della fortunata mamma, il caldo nido del o dei suoi pargoli in arrivo. Non so più se fu una soluzione o un'ipotesi. Mi sembra di ricordare che, pur lavorando notte e giorno, la cesta culla non fu pronta alla fine della vacanza e il futuro papà ritornò per portarsela a casa, con la sua automobile, non appena fu contattato che la cesta culla era pronta in tutte le sue rifiniture. Quella mamma aveva voluto portare con sé, col colore dorato e fragrante della paglia di grano, anche il tepore e il caldo dorato del sole stesso che aveva maturato le spighe, dell'estate che finiva, ma che sarebbe ritornata. Così come sarebbe tornata la nuova vecchia famigliola, ma con un nucleo diverso. Quello che assicura la continuità della vita. Nel frattempo, quella cesta culla ha rischiarato, sicuramente, le giornate uggiose e nebbiose; lunghe e grigie d'inverno, dove l'asettico riscaldamento a gas, ossia artificiale, non scalda più nemmeno se lo usi al massimo grado di calore. Bisogna riconoscere, però, l'importanza dei benefici artificiali. Già, stavo parlando di scogli. Sì, è vero, io stavo parlando degli scogli del mio paese: Intavolata, dove quello denominato della regina", situato a qualche centinaio di metri più a sud d'Italia e della stessa Intavolata, delimita i confini, in qualche modo, anche della medesima Intavolata, da Guardia Piemontese Terme, d'origine valdese i suoi abitanti. Lo scoglio dei preti, invece, delimita quasi il confine nord d'Italia rispetto ad Intavolata, dal Comune d'Acquappesa, di cui fa parte la frazione d'Intavolata. Esisteva, tra quest'ultimi due paesi, un gioco di potere e rivalità, che si spostava come un centro di gravità. Sto parlando del Comune come sede, prima d'Intavolata e poi d'Acquappesa. Dove, a turni, le frazioni s'avvicendavano al "Comune", al potere. Ciò, ormai, non avviene più da molto tempo, sicuramente prima che io nascessi. Acquappesa ha raggiunto il primato di Comune ed Intavolata di frazione! Essere frazione è un po' com'essere in esubero. Non c'è posto per te. Manca di potere, di contenuti. Allora, la frazione si svuota. L'unica cosa vera che resta, in questo caso, sono i valori, ed essi volano via, altrove; forse oltre il Po, con gli esuberanti frazionati.

Ricordo la leggiadria con la quale si muovevano nell'acqua di quel mare le donne d'Intavolata, per recarsi, nuotando, allo "scoglio delle femmine". Soprattutto, ricordo quanta delicatezza codeste donne avevano a portare con una mano la "sportina" a prova d'acqua, contenente gli attrezzi di lavoro. Devo affermare la verità, io ero piccola e le osservavo da lontano, con meraviglia dei miei occhi. Non sono mai riuscita ad imitarle, neanche da adulta.Ero davvero buffa, quando cercavo di eguagliarle. Poi mi arresi. Pensai, consolandomi, che avrei saputo fare qualcos'altro nella vita. Oggi, gli scogli sono ben altri. Di sicuro, non sono traguardi da raggiungere, ma ostacoli da sorpassare. Forse meditazioni continue. Crescita, soprattutto, interiore. Voglia di farcela, di andare oltre l'ostacolo. In questo percorso cosa ti sorregge l'anima, quando sta per annegare in un mare che è tutt'altro che cristallino, direi melmoso? Peggio è per chi non sa nuotare, perché rischia di affogare in un palmo d'acqua dove, tirar su un piede per appoggiare l'altro e andare avanti a piccoli passi, è davvero un'impresa dura. Un po' più facile per chi sa nuotare, ma non semplice. Un po' più sereni, più preparati, ma niente di miracoloso. I miei traguardi più belli nuotando, erano di certo quelli che mi portavano in alto mare. No, non ci andavo da sola, ma con le mie sorelle e le loro amiche, le nostre cugine, tutte più grandi di me. Un traguardo solito era quello da dove s'intravedeva la chiesetta d'Intavolata. Essa primeggia ancora a picco sul mare, splendendo dalla collina, ma chissà se qualcuno la scorge ancora? Si racconta che, proprio navigando quel mare d'Intavolata, in Calabria, una barca con un quadro di santa Teresa d'Avila, venendo dalla Spagna e diretta non si sa dove, si bloccò sulle acque di codesto mare, in direzione della chiesetta. Essa non voleva andare oltre, né tornare indietro. Era come un cavallo con le bizze. Il comandante di quell'imbarcazione, allora, ebbe un chiaro presagio, ossia, che il ritratto volesse restare nella chiesetta a picco sul mare. Con gran meraviglia di tutto l'equipaggio, dopo aver lasciato l'immagine della suddetta santa, la barca era pronta a salpare per ogni dove. Santa Teresa d'Avila, dunque, voleva rimanere in quella semplice chiesetta. Lei aveva deciso di proteggerla. Quella santa divenne, così, la protettrice d'Intavolata. Io non so il perché, ma la festa patronale del paese ricorre il quindici ottobre. Sarà, forse, che l'evento del passaggio della barca si riferisca ad un quindici ottobre? Codesta santa ha protetto il paesino che, nonostante alcuni brutti avvenimenti successi in passato, è rimasto illeso, con la graziosa chiesetta. Essa, in particolare, e una parte del su citato paesino, sono situati sopra tre gallerie. La prima, la più antica, è sopravvissuta al bombardamento della guerra quindici diciotto, dove, con tutti i rischi connessi, di morirci dentro come topi, le persone del posto trovarono rifugio. Poi, fu decisa la costruzione della nuova galleria, sia dei treni, sia delle automobili, spostate verso la collina, rispetto al mare, anche per evitare, in questo modo, le mareggiate che divoravano sempre di più il terreno circostante ai binari e alle strade. In occasione delle realizzazioni delle suddette infrastrutture, fu necessario perforare la collina con dei potenti esplosivi, procurando, in questo modo, gravi danni alle abitazioni del posto e anche alla chiesa. Le istituzioni scelsero, come soluzione, la demolizione quasi totale del paese, ma i suoi abitanti, si opposero con tutte le forze possibili, sorretti dalla santa patrona. Fu in questo modo che la chiesa e una parte del paese sopravvisse al peggio. Quella santa non riuscì ad intercedere per gli abitanti del posto che, a poco a poco, il flusso emigratorio, più possente, li portò via. Gli abitanti d'Intavolata, presto, furono come acqua evaporata al sol leone d'agosto. D'altra parte, io stessa non sono più in paese.Tanta era la voglia d'andare, la disperazione di rimanere, il desiderio di una soluzione possibile, che venni via senza pormi particolari problemi, né ebbi esitazioni, quando le circostanze, almeno in questo, mi furono favorevoli. Altro traguardo da me gradito, nuotando nel mare tirreno d'Intavolata, era un punto preciso da dove intravedevo la casa di mia madre. La osservavo da lontano, mentre si aggirava indaffarata, ma tranquilla, nel giardino della sua casa. Ciò mi trasmetteva molta serenità. Credo proprio che ciò fosse vera felicità. Tra la riva e lo scoglio delle femmine c'è uno scoglietto che sfiora appena l'acqua. Esso è un po' scivoloso, proprio perché è immerso nell'acqua, ma comodo, per fare una piccola sosta, intanto che si va verso l'orizzonte, là dove l'acqua sembra inchiostro per intingere un pennino. Ancora così intenso il colore dell'alto mare. Lo è certamente nel mio immaginario, quel blu profondo che dà serenità. Ci cascavo tutte le volte. Era più forte di me. Dovevo immergere le mie dita; con le mani verificavo che l'acqua, rimasta nel mio pugno, era soltanto trasparente, quasi come per magia. Incredula ci riprovavo. Non volevo disilludermi. Era molto emozionante e intenso quel blu inchiostro. Trasmetteva insieme calma, stupore e anche un po' di paura, perché non riuscivo più a vedere il fondale. Il mio traguardo era l'orizzonte, ma più m'avvicinavo e più esso s'allontanava. Un'altra magia, quest'ultima, che m'affascinava e mi faceva anche arrabbiare. In mezzo al mare, spesso, trovavo dei pali di aloe che galleggiavano; a volte mi erano di supporto, per riposarmi, un po' mentre nuotavo verso l'orizzonte sconfinato. Quel mare profondo, dove con contenitori di creta dal nome dialettale lancella, delle once molto panciute, che oltre a tenere l'acqua fresca, grazie all'argilla che traspira, si usavano anche per trasportare l'acqua del mare che serviva, grazie al suo contenuto, ad impastare la farina per fare il pane. Quale pane, che gusto, che fragranza! Già, il pane che fa la mamma o la nonna ha proprio sempre un sapore soltanto unico. Chissà come dosavano gli ingredienti. In quali proporzioni. Di certo, sull'ingrediente "Amore", non risparmiavano. Io, allora, ero piccola, per l'esattezza, anche, la piccola della casa. In quanti modi ero piccola! Un modo, sicuramente, era questo qua: quando si preparavano le "Freselle" o più semplicemente il pane biscottato, i miei mi facevano infilare nel forno a raccogliere i pezzi più piccoli, altrimenti con la pala si sarebbero sgretolati, in mezzo alla cenere ed alla carbonella. Riempivo un sacchetto di tela e li gustavamo tutte le mattine preparando la zuppa con la "Cerva". La suddetta è una bevanda, tipo tisana, dal colore verde e dal gusto delicato che, ogni tanto, arrivava dall'Argentina, tramite parenti o amici, da persone lì emigrate. Ce n'era per tutti. Si distribuiva in grandi quantità in tutto il paese. Arrivava anche il caffè, ma prevaleva, alla grande, la "Cerva". Meditando sulla data del quindici ottobre, festa patronale d'Intavolata, proposi al mio consorte codesto giorno, come data, da immortalare per il nostro matrimonio ma, Santa Teresa non mi sorresse molto in questa scelta. Per ragioni complicate, infatti, ci sposammo, poi, il giorno dopo, ossia, il sedici ottobre. Ad Intavolata, avevo uno scenario, per i miei occhi, fatto di cielo e di mare, che cambiavano in continuazione. Io, l'unica costante tra cielo e mare! Perfino i temporali erano pittoreschi. Le trombe d'aria poi erano il massimo dello spettacolo personale. I cambiamenti d'umore della natura rincorrevano i miei. Andavano di pari passo. Dalla finestra di casa osservavo i treni passare. Mi davano gioia e tristezza insieme. Quei fischi, uscendo o entrando in galleria, mi raggelavano il cuore. I villeggianti, d'estate salutavano i passeggeri che, a loro volta, salutavano felici; augurando buon viaggio i primi e buone vacanze gli altri, dal mare. Ogni tanto, deragliava qualche vagone di treno e restava in sosta nei piccoli appezzamenti di terreno, di proprietà dei miei, sia lato mare, che collina, proprio vicino alla vasca che raccoglieva l'acqua, utile poi per l'irrigazione dell'orto. Un vagone era caduto così bene che io potevo salirci sopra e improvvisare i vari ruoli: dal viaggiatore turista al macchinista, al conduttore. Qualche volta la sosta parcheggio durava poco ed io non mi divertivo per nulla; altre volte, invece, quel convoglio rimaneva lì a lungo, con disappunto dei miei che non potevano coltivare l'orto e, allora, avevo modo di divertirmi un po' di più. Senza però manifestare la mia felicità, perché la loro arrabbiatura sarebbe esplosa contro di me. Compagna dei miei giochi era soltanto la fantasia, ma qualche raggio di sole non guastava mai. In verità, continuavano a passare felici e fischiettanti altri treni e i macchinisti mi temevano come rivale, vedendomi gestire un intero vagone. E' vero, non c'era il locomotore, ma una donna ne sa sempre una più del diavolo. Loro, forse, pensavano soltanto che "Una donna alla guida dà gioie e dolori". All'epoca, io ero soltanto una bambina. Erano gli anni sessanta e donne in ferrovia, soprattutto sui treni, non credo che ce ne fossero state. I conduttori dei treni che passavano qualche rivalità potevano anche permettersela. Il perché è presto svelato. Più tardi, alla fine degli anni settanta, cominciai a partecipare ad ogni sorta di concorsi, finalizzati ad una possibile soluzione di lavoro. Non ne tralasciavo nessuno dei vari possibili come accesso in requisiti da parte mia. Il concorso da conduttore fu uno dei primi al quale partecipai. Ogni concorso, per me, era un gran lusso parteciparvi. Non avevo dei gran soldi. Qualche volta, lavoravo un po' in uno stabilimento termale, a due chilometri dalla mia abitazione, ma non sempre mi assumevano. Era per periodi corti, quando succedeva. Fu fatale, invece, il concorso da conduttore, per le Ferrovie dello Stato. Il mio, credo, doveva essere un amore inconscio. Lo superai con circa nove su dieci e fui assunta in modo quasi fulmineo. Frequentavo, allora, il terzo anno di matematica all'Università d'Arcavacata di Rende, in Comune di Castiglione cosentino, in provincia di Cosenza, dove avevo il mio "bravo presalario", per permettermi il completamento degli studi universitari. Avevo sostenuto i cinque esami di matematica, più i due obbligatori d'inglese tecnico scientifico che mi permettevano la permanenza in quell'università a "numero chiuso". L'avevo spuntata, non solo lì, ma anche col concorso in Ferrovia. Allora c'era da scegliere. L'aut aut era inevitabile. Non fu una scelta facile, né felice, ma obbligata. Potevo non accettare, ma le conseguenze, anche quelle sarebbero state tutte e soltanto mie. La sede del concorso fu Firenze, per motivi organizzativi aziendali, ma la sede di lavoro Bologna, dove, dopo ormai vent'anni, vi risiedo con la mia famiglia, non d'origine ma, la "mia mia". I miei figli, sono a buon punto per incominciare a pensare di aver anche loro una famiglia tutta per sé. Chiedo scusa per l'interruzione, ma da tanto tempo non facevo una bella, ricca e sana risata come questa che mi ha fatto "sbellicare" dal ridere. Si tratta di un avviso ufficioso al personale, che riporto integralmente: "Si comunica a tutto il personale che per qualsiasi uscita con giustificativo, non è "sufficiente", digitare 01, 05, 11, 12, ecc... La procedura corretta è la seguente, digitare B (tasto blu), poi premere la freccia perpendicolare, fino alla comparsa del codice desiderato, poi strisciare. Mio: (Come una biscia), oppure, digitare B (Tasto blu), poi premere i tasti del codice desiderato, poi strisciare. Mio: (Come una biscia di terra!). Basta ridere, basta. È pur vero che se una sana risata toglie il medico da torno, è anche vero che: " Il riso abbonda sulla bocca dello stolto". Il collega che ha scritto l'informativa, non se lo aspettava, da me, questo rilievo. Sarà che sono proprio così lugubre alla vista degli altri? Sono, forse, io che non rido mai supportata da alcun tenore ma, semplicemente sto bene se gioisco con i "bassi" che sentono solo il mio cuore, la mia anima, il mio "ego"-ista. Un profumo di mandarino invade piacevolmente l'ambiente. È l'ultimo dei tre che ho appena finito di mangiare: erano i miei amici del pranzo. È un profumo pertinente alla stagione. Si sente e si vede: è autunno inoltrato, quasi inverno. In quest'ultimo caso direi gradevole. Sì, era un mandarino clementino. Nessun seme. Quale strana riproduzione sarà la loro? Non voglio certo buttar via le bucce, ricche d'oli essenziali. Le bucce, le ho riposte tutte in file indiane sul termosifone, rimovendo quelle del mandarino precedente, ormai secche, peggio dei così detti "rami secchi", in gergo ferroviario. Esse hanno dato già il meglio di quello che potevano dare. Molte persone sanno il significato specifico. Per chi non lo sapesse ancora, sono quei tratti di linea ferroviaria che non fruttano più. Già, ciò che non serve, bisogna proprio eliminarlo! Non lo facevano, forse, una volta i greci, più esattamente gli spartani, buttando giù dal monte più alto, da una rupe, tutti i bambini che non sarebbero diventati mai dei veri guerrieri. Credo, che anch'io sia considerata un po' come un ramo secco, dal mio datore di lavoro. Si usa, anche, dire "esuberanti da rottamare". Sì, per mio promemoria, sono, attualmente, un conduttore inidoneo. Così è il giusto termine, usato nel nostro ambiente di lavoro. Soltanto se si riuscisse ad elaborare un po' meglio la famosa frase del famoso scienziato geniale Alberto Einestein: "Tutto si crea, nulla si distrugge". Si potrebbe, forse, mettere a frutto tutto ciò di cui la maggioranza delle persone è convinta. È certo che il termine rottamazione si addice meglio alle cose. Presunzione la mia. Sì, sono ancora una persona. Distinguiamo, dunque, le cose dalle persone. Ciò è una cosa molto difficile da fare. Proviamoci. No, non posso prevaricare gli organi preposti. Analizziamo, allora, le gerarchie. Esse sono il torchio delle stesse persone. Un esempio è il cosiddetto "nonnismo militare". Non ci sono, forse, ancora alcune inchieste aperte per le gravi conseguenze sulla "persona"? Certo è così. Quei ragazzi, sono soltanto vittime, anzi non sono più? Ci sono, sicuramente, i loro genitori, parenti e amici, ancora a compiangerli.

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Inserito il 126 gennaio 2002