Autori contemporanei
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Andrea Selva
 
Le onde del destino
 
Mario fischiettava allegro mentre appoggiava l'ultima posata sulla tavola imbandita. Dietro di lui il coperchio di una pentola borbottava impazientemente, sospinto dalla pressione del vapore acqueo. Un profumo inteso ed avvolgente proveniva invece dal ventre di un forno, dove una faraona stava arrostendo allegramente. Guardò ansiosamente l'orologio per l'ennesima volta
"Ancora una mezz'oretta e saranno a casa" pensò. Era la prima volta che sua moglie ed i suoi due figli andavano in ferie da soli. Purtroppo un lavoro urgente gli aveva impedito di andare con loro e così aveva passato l'ultima settimana nella fredda solitudine di una casa insolitamente vuota e silenziosa.
Uno squillo tanto insensibile quanto inatteso infranse la quiete e Mario si affrettò a rispondere
"Pronto, chi parla?"
"Buongiorno, cerco il signor Mario Morelli, è lei?"
"Si, sono io, cosa desidera?"
"Sono il maresciallo Zito, ho l'ingrato compito di comunicarle che c'è stato un incidente e la sua famiglia è stata portata all'ospedale Maggiore..." Mario rimase pietrificato, la cornetta gli cadde di mano ed iniziò a balbettare "Ma...Ma...ri...ri...sa...sa" poi una folgore lo riscosse. Velocemente s'infilò la giacca, prese le chiavi dell'auto e s'involò in direzione dell'ospedale. Durante il breve viaggio rimase concentrato sulla guida non permettendo ad alcun pensiero di disturbarlo.
Appena giunto all'ospedale parcheggiò vicino all'ingresso, disinteressandosi del cartello di divieto. Correndo raggiunse il pronto soccorso e chiese ansando ad un'inserviente
"Sono Mario Morelli, dovrebbero aver portato qui mia moglie ed i miei figli, hanno avuto un incidente"
"Qual è il loro nome?"
"Marco e Andrea Morelli e Marisa Beretti." L'addetto scorse l'elenco degli arrivi e divenne serio
"Mi spiace ma Marisa Beretti e Marco Morelli sono giunti già deceduti." A Mario parve che il mondo si stesse frantumando in mille pezzi "Andrea Morelli invece è stato portato in sala operatoria ed è ancora sotto i ferri. Si sieda in sala di attesa e non appena l'operazione sarà terminata verrà avvisato." Disperato e confuso Mario si sedette su una delle tante sedie disposte nella fredda sala d'attesa.
Furono lunghe ed angosciose ore di attesa. La sua mente era talmente sconvolta da non riuscire a formulare neppure un pensiero completo. "Marisa non dovevi... Marco perché sei... Andrea devi..."
Parole mozzate si rincorrevano continuamente, mordendosi le iniziali senza mai trovare una fine: non era ancora pronto per accettare l'accaduto e non osava neppure invocare la speranza.
Ogni caos ha però una fine e quel giorno si concluse con l'arrivo del chirurgo.
Mario non ebbe neppure la forza di alzarsi, le gambe gli tremavano vistosamente, attese quindi seduto la sentenza.
Quando però il chirurgo abbassò la testa, fulmini di follia gli trapassarono il cervello
"Mi dispiace signor Morelli..." aveva già udito abbastanza. Le gambe ritrovarono un'energia misteriosa e come in un sogno, una folle visione anzi, un incubo, si ritrovò a correre. Mario non vedeva, non sentiva e non capiva: qualcun altro o qual cos'altro stava guidando il suo corpo in sua vece. La sua mente in quel momento aveva raggiunto l'unico luogo dove poteva trovare la pace: la pazzia.
Il suo ormai ex corpo salì in macchina, la mise in movimento e la condusse in un'allucinante corsa verso l'ignoto. Furono trenta chilometri di sbandate, brusche frenate, guard rail rasentati e auto sfiorate. L'asfalto si mutò in sabbia, ma l'auto continuò la sua corsa. Ma proprio come se fosse stata guidata da una mente sana, l'auto raggiunse la sua meta e prima che la sabbia si tramutasse in acqua, si arrestò. Il corpo di Mario scese con calma e si avviò lungo il molo.
Una volta raggiunta la fine della banchina si fermò, osservò il ribollire impetuoso delle acque autunnali e si tuffò.
Inizialmente nuotò con forza verso il mare aperto, poi quando ritenne di aver raggiunto la sua meta si lasciò travolgere: fu allora che Mario riconquistò, decisamente nel momento sbagliato, la coscienza di sé.
"Perché la follia mi ha respinto proprio adesso? Era un luogo così sicuro! Privo di ricordi e di dolore, perché sono così sfortunato?"
Tentò di lasciarsi sopraffare dalle acque turbinose: ma il suo corpo si rifiutò di affondare, non era decisamente la sua giornata!
Ingoiò molta acqua, ma nonostante i suoi sforzi i polmoni si rifiutarono di trattenerla e la sputarono sempre fuori.
Dopo un tempo all'apparenza interminabile, il suo corpo fu trascinato a riva, fradicio, esausto ma vivo. Rimase in quella posizione per molto tempo.
Lacrime copiose gli rigavano il viso mentre il sole del tardo pomeriggio lo asciugava con uno dei suoi ultimi raggi. A causa del tramonto imminente una corrente d'aria fredda lo colpì
"Bisogna che me ne vada altrimenti mi prenderò una polmonite" costrinse i suoi muscoli doloranti a rimettersi in movimento
"Mi avete costretto a vivere ora dovete anche riportarmi a casa!" disse loro con rabbia. Una volta in piedi si girò ad osservare il tramonto infuocato. Il sole era furibondo, rosso di rabbia, rifiutava di cedere il passo alla notte e le nuvole bianche parvero incendiarsi sotto il suo sguardo. Il mare, con un sorriso impertinente, rifletté quello scontro di titani: la prepotenza del sole, la paura delle nuvole e la timidezza della notte avanzante.
"Per quanto noi ci possiamo adoperare per creare la bellezza, nulla sarà mai paragonabile a ciò che crea la natura" fu sul punto di andarsene, ma qualcosa lo colpì: qualcosa di giallo in tutto quel rosso panorama. Concentrando meglio la vista vide cosa aveva attirato la sua attenzione: un fiore! Una solitaria margherita sfidava le rocce del molo crescendo in un luogo apparentemente impossibile. Si avvicinò e non poté resistere alla tentazione di raccoglierla. La osservò attentamente parlandole
"Anche tu come me sei stata abbandonata dai tuoi simili? Eppure te ne stavi li ritta e fiera sfidando il destino vero? Chi mi ha dato il diritto di strapparti al luogo dove vivevi? Chi mi ha rubato la famiglia? gettò con rabbia il fragile fiore nell'acqua e l'osservò. Era piccolo. Era fragile. Era destinato a sparire ben presto: eppure resisteva. Le acque del pomeriggio, anche se ormai calme, lo sballottavano continuamente da un luogo all'altro, eppure continuava a resistere. Onde fameliche lo soverchiavano eppure lui continuava ripetutamente a tornare a galla.
"Certo, un giorno, con il tempo, si scioglierà. Ma fino a quel giorno continuerà a resistere. Non si lascerà morire, sarà il corso naturale degli eventi e prendersi la sua vita, ma comunque lui continuerà a lottare fino all'ultimo. Se Dio vuole questo da noi umani, io non posso certo esimermi dai miei doveri". Alzò il viso contro il cielo lasciandosi accarezzare dalla brezza serale e permettendole di asciugare le ultime lacrime per la sua vecchia vita.
Alzò il braccio in segno di saluto verso il cielo
"Addio Marisa, addio ragazzi, ci sarà un giorno in cui ci ritroveremo, ma sembra che dovrò guadagnarmelo." Disse loro.
Poi, dopo un momento lungo una vita, si girò... e ricominciò a vivere.
 
 
 
La mia morte
 
Tutto era meraviglioso. La mia vita era splendida.
I miei figli erano ormai grandi ed in grado di sostentarsi da soli ed io ero libera di pensare a me stessa. Non avrei potuto desiderare un'esistenza migliore. Almeno fino a quella terribile estate.
Pensandoci bene, però forse fu proprio quella troppa libertà la causa di tutti i miei guai. Non mi accorsi neppure di aver commesso un crimine fino a quando non vidi i primi uomini armati cercarmi.
Cos'avrei potuto fare? il mio istinto mi spinse ovviamente a fuggire!. Cercai rifugio nella foresta, mi nascosi nei suoi meandri più nascosti pur di sfuggirgli, ma sapevano seguire le mie tracce ed alla fine mi accerchiarono.
Sapevo di essere perduta, di non avere più alcuna via di uscita, ma volli vendere cara la mia pelle, volli difendere fino all'ultimo la mia libertà.
Lanciai un folle urlo di sfida e mi lanciai in un disperato attacco: non arrivai a toccare neppure l'uomo più vicino. Qualcosa di sconosciuto mi colpì alle spalle ed una fitta lancinante mi squassò il corpo. Forse, nella follia della disperazione, avrei potuto resistere e combattere fino alla morte. Ma mi si annebbiò la vista "Mi hanno colpito al cuore, sono finita, addio figli miei" pensai prima che l'oscurità scendesse su di me.
Ma non ero morta: purtroppo!. Mi avevano solo addormentata per catturarmi ed imprigionarmi più facilmente.
Quando riaprii gli occhi ero confusa e non capii subito dove ero finita; ma quando vidi le inferriate davanti a me compresi. No, non ero morta, ma sarebbe stato meglio che lo fossi: era solo la mia libertà ad essere morta. Le sbarre che l'avevano uccisa erano la mia lapide e quel piccolo paradiso in cui mi avevano rinchiusa era il mio sepolcro.
Ovviamente non posso dire che fui trattata male, anzi, in questo luogo dove ormai mi trovo da tempo immemorabile presenta tutte le comodità che potrei desiderare: forse più di quando ero libera. Il cibo è regolare ed abbondante, l'ambiente è pulito e tutti mi trattano con il dovuto rispetto.
Ma è pur sempre una prigione e per me che sono innocente equivale all'inferno.
Ho impiegato molto tempo a capire quale fu il mio errore, quale colpa mi ha condannato a questa vita-morte, ed alla fine ho capito. Ho capito che la mia unica colpa era di essere bella, troppo bella per essere lasciata in libertà; altrimenti perché mi avrebbero messo in questa specie di palcoscenico?
Tutti i giorni decine di persone passano davanti alla mia prigione, tutti si fermano e mi guardano.
Vedo nelle loro espressioni sentimenti molto contrastanti: chi esprime curiosità, chi meraviglia, alcuni con timore, altri con evidente terrore; qualcuno perfino compassione. Mi chiamano con molti nomi in molte lingue diverse, ma quella che odio di più è una: belva.
Io chiedo a voi che mi insultate con quell'appellativo: solo perché uccido per procurarmi il cibo per sfamare i miei figli sarei io la belva?. Voi che state la fuori invece cosa siete? Voi che mi avete imprigionato solo per il vostro capriccio, pensate di essere tanto diversi? Voi che avete ucciso la mia libertà come quella di molti altri miei simili, come vi giudicate? Solo perché vi ritenete superiori pensate di potervi attribuire il diritto di vita o di morte? Ma è inutile che continui a parlarvi, non potete capirmi, siete solo degli animali e seguite il vostro barbaro istinto. D'altronde come potreste capire una cosa così semplice, visto che fate le stesse cose anche ai vostri simili? Torno quindi sotto il piccolo alberello che mi avete tanto "gentilmente" offerto e mi stendo per dormire un po': tanto non ho altro da fare.
 
All'esterno delle sbarre un bambino, accompagnato dai genitori, osserva l'enorme tigre accucciarsi sotto le fronde del piccolo alberello ponendo nel contempo mille domande ai propri genitori
"Come bella! come grande! Perché vive qui?"
"Lei non vive qui Luca, delle persone l'hanno catturata nella giungla dove viveva e l'hanno portata qui" risponde il padre
"Perché?"
"Perché così noi la possiamo vedere"
"Non è giusto! Ecco perché è così triste! È in prigione!" il padre osserva stupito il ragazzino prima di rispondere
"Ma non è in prigione. Qui vive anche meglio di dove è nata, in questa grande gabbia hanno ricostruito il posto dove viveva prima e viene curata ed accudita."
"Ma le tigri non abitano nella giungla?"
"Si" rispose il padre non capendo il motivo di quella domanda "i bambini a volte sono contorti nei loro ragionamenti" pensò
"Ma è così piccola la giungla?" disse il bimbo
"Certo che no! è molto più grande!" rispose il padre confuso, il bimbo rifletté un poco e poi fece un'altra domanda
"È come essere sempre chiusi in quella bella villa fuori dal nostro paese?"
"Più o meno" rispose il padre. Il bimbo divenne serio
"Io odierei vivere sempre in quella casa. Si sente decisamente in prigione, glielo leggo negli occhi!" affermò convinto
"Ma cosa dici! gli animali non hanno un pensiero come noi umani, loro seguono il loro istinto e non si rendono certamente conto di nulla!" disse il padre che continuò rivolto alla moglie
"Bisogna che andiamo a parlare con la maestra, cosa gli insegnano per fargli venire in mente idee simili?" Proprio in quel momento la tigre emise un forte ruggito, il bambino si spaventò e la famiglia decise di andarsene: inoltre così venne accantonata quell'assurda discussione.
 
Poco più avanti passarono davanti ad una gabbia di scimmie ed una di esse si avvicinò alle sbarre di fronte al bimbo
"Che sguardo malinconico! chissà cosa pensa..."
pensò Luca, ma questa è un'altra storia.
 
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Inserito il 8 settembre 2000