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Inserito il 24 luglio 1997

 
 
 
 
 
PREFAZIONE
di Wanda Lo Torto
insegnante di latino e greco al Liceo classico di Oderzo, in provincia di Treviso.
 
... di un ricercatore di essenze
 
 
C'è qualcosa che attrae e inquieta nelle liriche di Roberto Bertolotti. A cominciare dai titoli: inusuali, insinuanti, spesso sconvolgenti.
Il primo impatto che serra la gola, fin quasi a soffocarla, si ha proprio con quelle ardue assonanze, ardite tanto nella scelta lessicale, quanto nei rimandi al significato.
Già sin dall'approccio, immediato scaturisce un senso di vertigine, che può sembrare ostica dapprima; ma ad una lettura più pacatamente meditata, una volta passato lo scuotimento benefico da tempesta emozionale, si ha il privilegio - che forse pochi conseguono - di entrare in un mondo di liriche talmente rarefatte e di spessore intellettuale così elevato, da sfiorare l'essenza pura. Ecco, perché qui sta la chiave di lettura giusta per accostarsi - presi da timore quasi reverenziale di fronte ad un magma intellettuale così denso e atipico - all'universo interiore di Roberto Bertolotti, talmente complesso e sottilmente sfuggente, che ti incanta con la malìa degli accostamenti fonetici assolutamente nuovi, spesso ossimorici, con quello stile così fratto, nervoso, lapidario, ma che allo stesso tempo ti permea di profonda inquietudine. Catartica tuttavia, perché seguire il tracciato esistenziale di Roberto Bertolotti nei suoi versi, significa affrontare un'eccezionale avventura dello spirito, che può anche lasciare esausti, tanto è intensa, ma soprattutto significa penetrare in un mondo di pure essenze. E a tale proposito mi piace definirlo più che poeta, "ricercatore di essenze", quasi un "archeologo", per citare una espressione tratta dal suo romanzo «Il foglio azzurrino», che fornito di un provvidenziale "pugnale arabo", sa sfrondare le letali concrezioni della banalità quotidiana o della dissennata stolidità umana, svelando con la punta acuminata tutti gli appannamenti e i torpori dei più tranquillizzanti limiti con cui la vita avviluppa - protettiva, ma pur sempre mater matrigna - le sue creature, per sconfinare in un mondo di non-certezze, di irrequietezza insonne, sempre tesa nella salutare pulsione di travalicamento di quelle barriere-preclusioni-ottundimenti mentali, che nella loro squallida e paciosa tranquillità, apparentemente vitale, mistificano invece, edulcorandola, la morte dello spirito. Solo attraverso questa liberatoria palingenesi, con l'Autore possiamo approdare su plaghe oniriche, dove viene annullata la consueta dimensione spazio-temporale, possiamo rivisitare luoghi della memoria e della nostalgia, paesaggi che se pur reali, sono fissati dalla dimensione del sogno in aloni metafisici, respirare atmosfere di intenso autentico cerebralismo, incontrare figure ieratiche nel sovvertimento storico operato dal poeta, che affascinano e catturano la mente proprio per quella voluta intrigante diversità.
A dominare però tutta la complessa vastità della materia poetica di Roberto Bertolotti, è quella sua acutissima tormentata sensibilità, che con esasperata "vista presbite", lo porta a penetrare negli abissi del mondo e dell'Anima Universale.
 
Wanda Lo Torto
 
 
Alcune poesie tratte dall'opera:
 
Il calamaio rovesciato
 
Fronde di pesco fragile. Capigliatura pregna di mulini di vento.
È il Favonio. Vento mielato delle sere di carnevale.
Dalle crepe di queste sere, timidamente occhieggiano fili di niente.
Bizzarra la crudeltà dell'adolescenza
sfilaccia tra i denti le fibre di piantine avventuriere.
Testardaggine tra le pietre: la vita gioca i suoi cavalli.
Feroce fanciullo con l'occhio carico di giorni.
Magnifica ferocia! Guarda, fanciullo con l'occhio di fuoco.
Guarda: è già caduta la prima neve.
 
Limiti
 
Sono i nostri limiti che ci permettono di
sopravvivere.
I limiti del nostro mare.
Le nostre superstizioni, le nostre anime che se
ne sono andate.
È la nostra paura del fuoco e della notte.
È l'adrenalina che stabilizza lo spavento di vivere.
Altrimenti un grande tuono ci annienterebbe.
Come se in un istante potessimo udire tutte le notizie
di tutti i telegiornali e le musiche di tutti i concerti
e i lamenti di tutte le atrocità.
Nel medesimo istante!
Questa la grande denuncia.
Questa la nostra mediocrità.
I nostri limiti, vigilando, ci proteggono.
E noi, piccoli piccoli, non abbiamo il coraggio di
attentare al nostro limite e come galline spaventate
urliamo che una balena è in pericolo!
Orrore del mondo: lustrini per la nostra coscienza.
 
Magnolie
 
Anonimi e a disagio sopravvivono edifici del periodo fascista.
Sono colonie estive, che il tempo non vuole.
Nel silenzio fastidioso del pomeriggio si possono indovinare le essenze di malinconia dei bimbi rinchiusi negli edifici di marmo passato.
Le magnolie trionfano nei giorni di questa breve stagione.
Fiore delicato, preparato ad una morte prematura, urla tutto il delirio del suo alito.
La bimba, col caschetto biondo, camminava sotto i fiori delle magnolie.
Il biondo si confondeva con l'inebriante petalo appeso.
Quali sogni attraversano i capelli biondi e i petali del fiore?
E i bimbi sopportano la follia dell'umanità, come i fiori sopportano la pazzia del vento. Inerti, sognanti, increduli, davanti alla morte della magnolia e dei sogni.
I bimbi nei loro sogni attendono una terribile verità, le magnolie non fanno altro che aspettare il vento.
Arriverà un pomeriggio in cui i due conosceranno la verità e il vento, alla soglia di una sera che non ha senso.
Io sono tuttavia felice, perché per questa sera le magnolie rimarranno appese, e i bimbi sogneranno sotto i loro capelli.
 
Fatiha Farili
 
La breve stagione volgeva al termine.
Il ciclo naturale digradava lungo le falesie africane,
come la linfa che abbandona l'albero.
Rimangono i frutti di una stagione, simili alle leggende
di epoche di illusoria felicità.
Fuggiamo il cattivo tempo e l'autunno precoce.
Fuggiamo tutto ciò che ci ha ferito e allora
non ci rimane altro che leggenda: un falso della nostra vita.
Ebbe una breve parentesi, questo monotono ritmo delle stagioni.
Accadde in un luogo fuori dal tempo e, come nei luoghi tiepidi, l'inverno trasgredisce le sue regole di ghiaccio e ombre, così in Rue de Frina Kabira, un'illusione perduta tolse le radici alla depressione.
Le piccole mani di ceramica intrecciavano un tempo privo di stagioni.
Quale felicità mi aveva riposseduto!
Senza stagioni, senza la malinconia della perdita e senza frutti era quel tempo.
Il suo volto diafano imponeva l'abolizione delle stagioni.
Invece dei frutti, bene effimero, quella piccola anima dispensava essenze!
L'essenza della vita era racchiusa in quella penombra sottile.
Come può un angelo appartenere a ciò che un tempo
sarà solo la fine di una stagione?
Come può diventare, questo giardino, foglie bagnate per la terra umida dell'autunno?
Presto me ne andai; banali mercati pieni di frutta mi attendevano.
 
Alchimie primordiali
 
Quando la musica e il buon vino giocano con l'attesa,
un lieve crepuscolo inonda la mia attenzione e allora
esalo verso qualcosa simile ad un sogno.
 
La mia coscienza è sdraiata su una spiaggia. Dico coscienza,
perché non percepisco fisicamente il mio corpo.
La mia esistenza è la concentrazione di un occhio.
Un occhio eterno e spietato.
Occhio che guarda uno spazio pullulante di plancton.
 
Non posso ergere la massa dei miei centri nervosi. Odo,
annuso una leggera brezza umida.
Il mare non deve trovarsi lontano. I miei pori captano la sua
vibrazione effervescente.
La mia massa, che percepisco come una ferita bruciante,
è spiaggiata come la carena di un enorme oblio.
Paralisi. Una fredda paralisi mi blocca. Ho squame cucite male,
come il vestito di un Arlecchino, e sulla sabbia, intorno al
mio esistere, c'è solo quest'apparenza di occhio. L'occhio
di un polpo.
Lo stato cosciente è permesso dalla sopravvivenza di una
concentrazione fotochimica, dopo la dissoluzione della materia corruttibile.
Attraverso l'immensità del mio occhio decrescono i tramonti
gassosi, in un eterno e differente susseguirsi.
Catalogo le sfumature irripetibili di ogni sera. Mai uguali
ai miliardi di altre sere.
Ho freddo. Il mio occhio ha freddo. Perché non sono nient'altro.
Ha freddo la mia coscienza, che abbassa gli occhi davanti
al caos e arrossisce per aver creduto alle meraviglie del mondo.
L'occhio sente il fruscio indifferente della risacca.
La coscienza mi cola dall'occhio, simile al liquido filtrato
dalle ostriche.
L'ultima goccia di linfa è assorbita dalla sabbia.
L'ultima mia lacrima di coscienza è evaporata.
Privato della coscienza, colgo il riverbero lontano di un miraggio di secoli prima.
Il mio calendario dice che sono sdraiato sulla spiaggia.
È sabato. Ventidue aprile tremiliardiseicentomilioni...
 
 
Epilogo?
 
Bisogna immaginare!
Bisogna uscire alla fine del primo tempo del film.
Ogni spiegazione è mancanza di immaginazione.
Ogni finale è banale.
Uscire alla fine del primo tempo della vita.
Questo è uno scacco alla morte quotidiana.
 
 
Martha e la rosa
 
Dimmi!
Dov'è finita la nostra stagione?
Martha dice che nel cuore ...nel cuore non si
sente nulla.
È tutto nella pancia; nel cuore, nulla.
Lei ha essiccato un bocciolo di rosa: un giallo
bocciolo di rosa.
La sua bellezza si è impressa nella sua morte.
Ogni ribollire della memoria è un'antica ferita
che sento piangere in riva al mare.
E allora mi siedo, con i capelli inumiditi
dall'Atlantico, e inseguo fantasmi lontani, mentre
la notte pronuncia gli ultimi istanti, quando l'ora
si fa più silenziosa e tutto sembra avere un po'
di pace, dopo la terribile notte.

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L'autore ha anche pubblicato un romanzo, edito dalla Firenze libri, dal titolo «Il foglio azzurrino» Se vuoi leggere le prime pagine clicca qui

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