Rivista Club degli autori n° 153-154-155-156
Ottobre 2005
 
 
Poesie di Saul Bellow
SAUL BELLOW DA: "IL DONO DI HUMBOLDT" - RIZZOLI, 1976
 
 

Il libro di ballate pubblicato da Von Humboldt Fleisher negli anni Trenta riscosse un immediato successo. Humboldt era, appunto, colui che tutti quanti attendevano. Io per me l'aspettavo ardentemente, dal mio fondo di provincia nel Midwest, ve l'assicuro. Scrittore d'avanguardia - il primo della sua generazione - era bello, era biondo, corpulento, serio e insieme spiritoso, ed era colto. Insomma, aveva tutto. Nessun giornale mancò di recensire il suo libro. La sua foto comparve sulla rivista Time senza ingiurie, su Newsweek con elogi. Io le lessi con trasporto, le Ballate di Arlecchino. Ero studente all'Università del Wisconsin e non pensavo ad altro, giorno e notte, che alla letteratura. Humboldt mi rivelò nuovi orizzonti, nuovi modi di fare. Andavo in estasi. Gl'invidiavo il talento e la fortuna, invidiavo la sua fama. E, a maggio, me n'andai all'Est proprio per lui: contando di vederlo, magari d'avvicinarlo. Il viaggio, in corriera, passando per Scranton, durò una cinquantina di ore. Che importava? Guardavo dal finestrino: non avevo mai visto, prima, vere montagne. Gli alberi mettevano gemme e germogli. Pareva la Pastorale di Beethoven. Mi sentivo inondare di verde, dentro di me. Anche Manhattan mi andò subito a genio. M'affittai una camera, molto modesta, e trovai un lavoro: vendevo spazzole di porta in porta. Tutto quanto mi dava una selvaggia eccitazione. Siccome avevo scritto a Humboldt una lunga lettera, da ammiratore, venni presto invitato a casa sua, per conversare di letteratura, di altre cose elevate. Abitava in Bedford Street, nel Greenwich Village, poco lontano da Chumley. Mi offrì del caffè nero e, nella stessa tazza, versò pure del gin. "Mi hai l'aria di un bravo ragazzo, tu, Charlie" mi disse. "Non sarai mica un furbacchione, alle volte? Mi sa tanto che diventerai presto calvo. E che occhi grandi che hai, belli, espressivi! Però senz'altro ami la letteratura, e questo è quel che più conta. Hai sensibilità" mi disse. Era un pioniere, nell'uso di quella parola. Di lì a poco 'sensibilità' fece furore. Humboldt fu molto gentile con me. Mi fece conoscere gente del Village, mi procurò libri da recensire. Io gli ho sempre voluto bene.

Il successo di Humboldt durò circa dieci anni. Sullo scorcio degli anni Quaranta cominciò a declinare. All'inizio degli anni Cinquanta io divenni famoso a mia volta. Feci perfino un mucchio di quattrini. Ah, il denaro! i soldi! Humboldt me li rinfaccerà sempre. Negli ultimi anni della sua vita - quando non fosse troppo depresso per parlare, e non fosse rinchiuso in manicomio - andava in giro per New York a dir male di me e del mio 'milione di dollari'. "Prendiamo il caso di Charlie Citrine. È arrivato senza un soldo dal Wisconsin, è venuto a bussare alla mia porta. E adesso ha un milione di dollari. Come può uno scrittore, o un intellettuale, fare soldi a palate così? Un Keynes, d'accordo. Keynes... Un genio dell'economia, di statura mondiale, un principe di Bloomsbury" diceva Humboldt. "Sposato con una ballerina russa. Il denaro ne consegue. Ma chi diavolo è Citrine, per diventare ricco in questa maniera? Eravamo molto amici" soggiungeva, per l'esattezza. "Ma c'è un nonsoché di perverso, in quell'individuo. Dopo aver fatto la grana, perché è andata a seppellirsi in provincia? Che ci sta a fare, a Chicago? Ha paura che lo smascherino, ecco tutto."
Quando aveva la mente abbastanza lucida, ce la metteva tutta a denigrarmi. E gli riusciva egregiamente.
Non è vero ch'io mirassi al denaro. Oh, dio, no. Quel che volevo era riuscir a fare qualcosa di buono. Era questo, che bramavo, da morire. Tale senso del buono risaliva ai miei verdi anni e era tutt'uno col mio singolare concetto dell'esistenza stessa: come chi, immerso nelle cristalline profondità della vita, annaspando tentoni ricerchi, pieno d'ebbrezza e disperazione, un significato: una persona, dico, che abbia un acuto sesto senso per i veli dipinti, per Maya, per cupole di vetro multicolore istorianti il radioso biancore dell'eternità, e che trepidi nell'immenso intenso inane... e così via. Ero decisamente pazzo per queste cose. Humboldt le capiva bene ma, verso la fine, non poteva più permettersi di offrirmi comprensione e simpatia. Malato e malevolo, non mi perdonava nulla. Seguitava a calcare sulla contraddizione fra veli dipinti e mucchi di quattrini. Ma il denaro ch'io facevo, in realtà si faceva da sé. Era il capitalismo stesso, a farlo, per oscure e comiche ragioni sue proprie. Era il mondo a far quei soldi. L'altr'ieri leggevo sul Wall Street Journal, a proposito di benessere e malinconia: "Mai, nei cinque millenni della storia del mondo, tanti uomini furono tanto abbienti." Una mentalità formatasi in cinque millenni di penuria è per forza distorta. Il cuore mal sopporta di codesti mutamenti. Certe volte li rifiuta, punto e basta.
Negli anni Venti, i monelli di Chicago cercavano tesori nel disgelo di marzo. Mucchi di neve sudicia bordavano le vie e, quando si scioglievano, un'acqua tersa e tortuosa correva nei rigagnoli, e lì potevi far bottino di cose meravigliose: tappi di bottiglia, rotelline dentate, monete di rame. Ed ecco che la primavera scorsa - pover'uomo in là con gli anni ormai - mi sorpresi a camminare fuori del marciapiede e cercare con gli occhi nel rigagnolo. Cosa? Che m'era preso? Ammettiamo che trovassi un nichelino. Che trovassi mezzo dollaro... E poi dopo? Non lo so come fosse tornata, l'anima del fanciullo, fatto sta ch'era tornata; E tutto si scioglieva: ghiaccio, discrezione, maturità. Cosa ne avrebbe detto Humboldt?
Quando mi riferivano le sue maldicenze io, spesso, mi trovavo d'accordo con lui. "Hanno dato a Citrine il premio Pulitzer pel suo libro su Wilson e Tumulty. Il Pulitzer non conta, è roba buona solo per i polli. È un premio fasullo, pubblicità per i giornali, conferito da una giuria di analfabeti e farabutti. Tu intanto diventi un cartello pubblicitario ambulante e, appena crepi, il necrologio suona così: "È venuto a mancare un Premio Pulitzer." Secondo me, coglieva nel segno. "E Charlie ha vinto il premio Pulitzer due volte. La prima, per quella sua commedia allo sciroppo. Gli ha fruttato una fortuna, a Broadway. Più i diritti cinematografici. E una percentuale sugli incassi! Non dico che abbia commesso un vero e proprio plagio ma... ma qualcosa mi ha rubato, sissignori: la mia personalità. Si è servito di me per il suo personaggio."
Anche qui, per madornale che sembrasse, l'accusa era forse fondata.
Era un conversatore meraviglioso, un improvvisatore frenetico, capace di monologhi fluviali, era un grande denigratore. Venir vilipesi da Humboldt era, in realtà, una sorta di privilegio. Come esser il soggetto d'un ritratto con due nasi di Picasso, o una gallina sviscerata da Soutine. Il denaro l'ispirava, sempre. Gli piaceva un sacco parlare dei ricchi. Nutrito in gioventù di rotocalchi, gli capitava spesso di alludere agli scandali d'oro d'ierlaltro: peaches e Daddy Browning, Harry Thaw e Evelyn Nesbitt, eppoi l'età del Jazz, Scott-Fitzgerald e i super-ricchi. Le ereditiere di Henry James, lui le conosceva a fondo. C'eran stati momenti in cui anch'egli aveva brigato, comicamente, per far fortuna. Ma la sua vera ricchezza era letteraria. Aveva letto migliaia di libri. La storia - diceva - è un incubo, durante il quale lui tentava di assicurarsi ogni notte qualche ora di sonno. L'insonnia, tuttavia, lo rendeva più erudito. Durante le ore piccole, leggeva grossi tomi: Marx e Sombart, Toynbee, Rostovtzeff, Freud. Parlando di ricchezza, era in grado di fare raffronti fra il luxus dei romani e le dovizie dei protestanti d'America. In genere, andava a parare sugli ebrei: gli ebrei joyciani in cilindro davanti alla Borsa. E concludeva con la maschera d'oro, mortuaria, di Agamennone, riportata alla luce dalla Schliemann. Humboldt era proprio bravo a parlare.
Suo padre, ebreo immigrato dall'Ungheria, aveva cavalcato con il generale Pershing, verso Chihuahua, dando la caccia a Pancho Villa in un Messico di puttane e cavalli (quanto diverso da mio padre, così garbato, mite persona aliena a certe cose). Il suo, ci si era tuffato a capofitto nell'America. Humboldt parlava di bivacchi, battaglie, bottini. In seguito vennero limousine, alberghi di lusso, ville in Florida. Suo padre aveva abitato a Chicago negli anni d'oro. Operava nel settore immobiliare e aveva un appartamento all'Edgewater Beach Hotel. D'estate, faceva venire il figlio presso di sé. Così Humboldt conobbe anche Chicago. Ai tempi di Hack Wilson e Woody English, i Fleisher avevano posti riservati in tribuna allo stadio Wrigley. Si recavano alla partita a bordo di una Pierce-Arrow o di una Hispano-Suiza (Humboldt andava pazzo per le automobili). E c'era allora il simpatico John Held junior, c'erano ragazze bellissime vestite alla maschietta. E whisky e gangster, e le banche di La Salle Street, adorne di colonne, scure come l'inferno, nei cui sotterranei blindati si conservava il denaro delle ferrovie, il denaro dei grandi agrari. Di questa Chicago io ero del tutto ignaro, quando ci arrivai da Appleton. Giocavo alla 'settimana' coi ragazzini polacchi sotto i pilastri della Sopraelevata. Humboldt invece si pappava torte al cioccolato e cocco, dette 'zuppa del diavolo', da Henrici. Io, da Henrici, non c'ero mai entrato nemmeno a dar un'occhiata.
Vidi invece, una volta, la madre di Humboldt nel suo buio appartamento di West End Avenue, a New York. Di viso, tal quale il figlio. Era muta, grassa, dalle labbra carnose, avvolta in un accappatoio. Aveva i capelli canuti, a cespuglio, da aborigena. Aveva il dorso delle mani maculato dalla melanina e, sulla faccia bruna, chiazze ancora più cupe, grandi quanto un occhio. Humboldt si chinò per parlarle all'orecchio, e lei non rispose nulla ma il suo sguardo fisso nel vuoto esprimeva una certa qual possente muliebre afflizione. Quando uscimmo, lui, tetro, mi disse: "Da ragazzo mi lasciava andare a Chicago, ma a patto che spiassi suo marito. Voleva che copiassi per lei gli estratti conto della banca, che le passassi tutti i dati finanziari e anche i nomi delle sue donnine. Intendeva fargli causa. È matta, sai. Poi invece, lui perdette ogni cosa nel tracollo. È morto d'infarto, giù in Florida."
Questo, lo sfondo di quelle allegre, spiritose ballate. Era un maniaco-depressivo, lui (per sua stessa diagnosi). Possedeva l'opera omnia di Freud e leggeva riviste di psichiatria. Una volta che hai letto Psicopatologia della vita quotidiana sai che la vita quotidiana è psicopatologica. E ciò era verissimo nel caso di Humboldt. Spesso mi citava, da Re Lear: "Nelle città, sommosse; nelle campagne, discordia; nei palazzi, il tradimento; e s'è spezzato il vincolo fra padre e figlio..." Calcava su queste due parole. "Rovinosi disordini ci incalzano fin alla tomba, inquieti."
Ebbene, è fin là che l'incalzarono rovinosi disordini, sette anni fa. E oggi, quando escono nuove antologie, vado alla libreria Brentano a controllare. Le poesie di Humboldt non vi sono mai incluse. Questi bastardi - questi beccamorti e politicanti della letteratura - non sanno che farsene del vecchio e 'smesso' Humboldt. Quindi tutto il suo pensare, il suo scrivere e sentire non sono valsi a nulla; tutte quelle incursioni dietro le linee per catturare la bellezza non han sortito altro effetto che quello di logorare lui. Lui è morto d'un colpo in uno squallido alberguccio di Times Square. Io, scrittore d'altra sorta, sono sopravvissuto a piangerlo, in prosperità, qui a Chicago.
All'idea peraltro nobile di essere un poeta americano, certo Humboldt doveva sentirsi, a volte, come una specie di macchietta, di monello, di buffone, di matto. Vivevamo come bohémien e goliardi, noialtri, in uno spirito di gioco e di allegria. Forse l'America non aveva bisogno di arte, di miracoli interiori. Ne aveva tanti, di quelli esteriori. Gli Stati Uniti erano una immensa impresa. Più loro che noi. Quindi Humboldt viveva da eccentrico, da personaggio comico. Ma di tanto in tanto c'era una pausa, nella sua eccentricità, quando si fermava a riflettere. Cercava allora di districarsi, mentalmente, da qual mondo americano (e ci provavo anch'io). Humboldt si stillava il cervello per capire cosa bisognasse fare fra l'allora e l'adesso, fra la nascita e la morte, per risolvere certe grosse incognite. Tali rimuginii non giovavano alla sua salute mentale, tutt'altro. Tentò con la droga, col bere. Alla fine, dovette esser sottoposto a elettroshock. Era - ai suoi stessi occhi - la lotta di Humboldt contro la pazzia. La pazzia era un bel po' più forte.
Non è che io me la cavassi tanto bene, al riguardo, di recente, allorché Humboldt si è rifatto vivo, per così dire, dall'oltretomba, foriero di grossi mutamenti nella mia vita. Nonostante i nostri dissapori e la ruggine di quindici anni, mi lasciava qualcosa nel suo testamento. Così, incappai in un'eredità.
 
Era uno di grande compagnia, ma però stava uscendo di senno. Il lato patologico poteva sfuggire solo a chi, per il troppo ridere, non l'osservasse. Humboldt - quest'omaccione bello e mutevole, dalla larga faccia bionda, quest'uomo affascinante e facondo e turbato nell'intimo, cui volevo tanto bene - viveva in maniera appassionata la commedia del Successo. Naturalmente, morirà in pieno Fallimento. Che altro risultano può ottenersi, a mettere in maiuscolo codesti nomi? Io, per me, ho sempre cercato di ridurre il numero delle parole sacre. Humboldt invece ne aveva una lista lunghissima: Poesia, Bellezza, Amore, Terra Desolata, Alienazione, Politica, Storia, Subconscio... E, s'intende, Mania Depressiva: sempre con la maiuscola . A sentire lui, il più grande Maniaco- Depressivo d'America fu Lincoln. E anche Churchill - con quell'aria ch'egli definiva da Cane Nero - era un classico caso di Mania Depressiva. "Come me, Charlie" mi diceva. "Ma pensaci su: se l'Energia è il Piacere e se l'Esuberanza è Bellezza, il Maniaco Depressivo la sa più lunga di chiunque altro, in fatto di Bellezza e di Piacere. Chi possiede più Energia, più Esuberanza di lui? Forse si tratta di uno stratagemma della Psiche per accrescere la Depressione. Non è stato Freud a dire che la Felicità altro non è che una remissione del Dolore? Quindi, più Dolore si prova, più intensa sarà la Felicità. Ma l'origine è fors'anche più remota: la Psiche lo crea apposta, il Dolore. Sia come sia, l'Umanità rimane sbigottita di fronte all'Esuberanza e alla Bellezza di certi individui. Quando un Maniaco Depressivo riesce a eludere le sue Erinni, diventa irresistibile. Diviene arbitro della Storia. Secondo me, il Dolore rappresenta una tecnica segreta dell'Inconscio. Quanto all'idea che i grandi e i potenti siano gli schiavi della Storia, qui, secondo me, Tolstoi si sbagliava. Non illuderti: i re sono i malati più sublimi. Gli eroi Maniaco-Depressivi trascinano con sé l'Umanità, dànno l'avvio a tutti i cicli storici".
Il povero Humboldt non riuscì a dettar legge per molto. Non divenne mai il centro radioso della propria epoca. La Depressione lo strinse nella sua morsa, per sempre. L'età degli estri poetici venne a terminar. Tre decenni dopo esser stato reso famoso dalle Ballate di Arlecchino un attacco cardiaco lo fulminò in un albergo dei poveri, in una delle tante succursali dei dormitori pubblici del Bowery sparse qua e là per New York. A New York mi trovavo anch'io, per caso, quella sera. C'ero venuto per Affari: vale a dire, per loschi motivi. Nessuno dei miei Affari era meno che losco, ai suoi occhi. Estraniatosi da tutti, abitava in un posto chiamata Ilscombe. In seguito v'andai a dar un'occhiata. Una specie di ospizio per vecchi. Era una notte di caldo atroce, quella in cui morì. Perfino al Plaza, dove alloggiavo io, si tribolava. L'aria in città era gradiva di miasmi. I condizionatori alle finestre, pulsando, sgocciolavano sul capo dei passanti. Una nottataccia. L'indomani, in volo per Chicago in aviogetto, aprii il Times e vi trovai il necrologio di Humboldt. Lo sapevo che Humboldt sarebbe morto presto perché, quando l'avevo visto l'ultima volta, due mesi prima, gli avevo letto la morte sul viso. Lui non mi vide. Grande e grosso, grigio come la polvere, malato, aveva comprato una ciambella e la stava mangiando. Il suo pranzo. Nascosto dietro un'auto in sosta, lo spiai. Non gli andai vicino: sentivo che era impossibile. Una volta tanto i miei Affari all'Est erano legittimi: non correvo dietro a qualche ragazza, ero là per un servizio giornalistico. Proprio quella mattina avevo sorvolato New York in elicottero, coi senatori Javits e Robert Kennedy. Poi avevo preso parte a un banchetto di politici, alla Taverna fra il Verde di Central Park: celebrità estasiate l'una alla vista dell'altra. Ero anch'io, come suol dirsi, 'in gran forma'. Quando non ho una buona cera, ho l'aria disfatta, senza vie di mezzo. Ma quel giorno stavo bene. E avevo soldi in tasca. Passando davanti alle vetrine di Madison Avenue, se una cravatta di Cardin o Hermès mi piaceva, entravo e la compravo senza chieder prima il prezzo. Non avevo un filo di pancetta, indossavo mutande di fil di Scozia da otto dollari il paio. M'ero iscritto a un Club Atletico, a Chicago, e, a costo di sforzi diuturni, duri per la mia età, mantenevo la linea. Là giocavo a paddle ball, che è una specie di 'squash', un gioco aspro e veloce. E quindi, come potevo parlare con Humboldt? Era troppo, per me. Mentre io sorvolavo Manhattan, quel mattino - e era come osservare una scogliera corallina da una barca con carena di vetro - forse lui rovistava fra barattoli e bottiglie, cercando qualche rimasuglio di succo di frutta da mischiare al suo gin, per colazione.
Dopo la morte di Humboldt, mi dedicai con impegno anche maggiore al culturismo. L'anno scorso, a novembre, sono sfuggito a un rapinatore, a Chicago. Appena lo vidi sbucar fuori da un andito buio, me la diedi a gambe. Prontezza di riflessi. Feci un balzo indietro e mi buttai a correre al centro della via. Da ragazzo non ero un granché, nella corsa. Come va che, a cinquanta suonati da un pezzo, fossi tanto più agile, scattante, capace di far delle volate? Quella sera stessa menai vanto dell'impresa: "Sono ancora capace di battere un drogato, sui cento metri." E a chi mai vantavo la potenza dei miei garretti? A una giovane donna a nome Renata. Stavamo a letto. Le raccontai come ero scappato, con che fulmineità. E lei, come le avessi porto la battuta (ah, la cortesia, la gentilezza d'animo di queste belle figliole) mi disse: "Sei terribilmente in forma, Charlie. Alto e grosso non sei, però sei robusto, solido, e sei anche elegante." M'accarezzò i lombi ignudi. E così il mio amico Humboldt se n'era andato sottoterra. Probabilmente le sue ossa si eran già decomposte, in una fossa senza nome. Forse non restava nulla, nella sua tomba, tranne qualche manciata di polvere. E invece Charlie Citrine era in grado di battere in volata criminali accaniti per le strade di Chicago, Charlie Citrine era in forma smagliante, e giaceva abbracciato a un'amante voluttuosa. Questo Citrine era anche capace di eseguire certi esercizi yoga: aveva appreso a star ritto sulla testa per curarsi l'artrosi cervicale. Circa il mio basso tasso di colesterolo, Renata sapeva tutto. Le avevo anche riferito le congratulazioni dei medici per l'ottimo stato della mia prostata, giovanilissima, e per mio ultranormale elettrocardiogramma. Inorgoglito da analisi cliniche che rafforzavano, in me, illusioni e idiozia, mi stringevo a una ben mammelluta Renata su un materasso scientificamente molleggiato. Ella mi guardava con occhi resi pii dall'amore. Io respiravo il suo delizioso madore, partecipando in prima persona al trionfo della civiltà americana (con sfumature orientali, imperialeggianti). Ma al contempo con gli occhi della mente vedevo un altro, ben diverso Citrine - vecchio e quasi decrepito, questo, la schiena curva, le membra deboli - oh, un vecchietto debolissimo, in sedia a rotelle sospinto lungo il lido d'una qualche nebulosa Atlantic City, con le ondicine che si rompono schiumando sulla battigia, onde al pari di me languide e smorte. E chi spinge la sedia a rotelle? Renata forse? La Renata da me conquistata negli anni della Felicità, grazie a un'offensiva lampo, alla generale Patton? No, Renata era una ragazza in gamba, ma non riuscivo a vederla dietro la mia sedia da invalido. Renata? No, no certamente non lei.
A Chicago, così, Humboldt divenne uno dei miei morti importanti. Troppo tempo passavo a ruminare sui morti, a ragionare con loro. Inoltre il mio nome ora veniva spesso collegato a quello di Humboldt, poiché gli anni Quaranta - via via che s'allontanavano nel tempo - si facevano man mano più pregiati; per quanti sono addetti a confezionare gli iridiscenti tessuti culturali. Così, si sparse la voce che a Chicago c'era un tale, ancora in vita, che era stato amico di Von Humboldt Fleisher, un tale a nome Charlie Citrine. Diverse persone ch'erano dietro a compilare un libro, una tesi di laurea, un articolo o un saggio, mi scrivevano o venivano a trovarmi per parlare di Humboldt con me. E devo dire che a Chicago, Humboldt era un argomento di riflessione quanto mai adeguato. Situata sulla sponda meridionale dei Grandi Laghi (il venti per cento delle acque dolci del mondo) Chicago contiene, nel suo seno gigantesco, tutto intero il problema della poesia e della vita interiore in America. Qui si possono scrutare, certe cose, come attraverso un'acqua trasparente.
"Come spiega lei, Citrine, l'ascesa e la caduta di Von Humboldt Fleisher?"
"Ragazzi miei, in che modo intendete utilizzare i dati su Humboldt? Per scrivere qualcosa che v'aiuti a far carriera? Questo è Capitalismo bell'e buono."
A Humboldt io pensavo con maggior serietà e cordoglio di quanto forse non appaia da questo resoconto. Non sono molte le persone che amo. Non posso permettermi di perderne alcuna. Un segno infallibile del mio affetto è che sogno spessissimo Humboldt. E ogni volta che mi appare mi commuove, piango nel sonno. Una volta ho sognato di incontrarlo da Whelan, un locale del Greenwich Village. Non era l'uomo disfatto cinereo rigonfio che avevo visto l'ultima volta, sulla Quarantaseiesima, ma ancora il robusto normale Humboldt della mezz'età. Sedeva accanto a me, presso il banco di mescita, una bibita in mano. Scoppiai a piangere. Gli dissi: "Dove sei stato? Ti credevo morto."
E lui, mite, tranquillo, soddisfatto persino, mi disse: "Adesso capisco ogni cosa."
"Ogni cosa? Che intendi?"
Ma lui disse soltanto: "Ogni cosa." Non riuscii a cavargli altro, ma piangevo di gioia. Certo era solo un sogno, di quelli che si fanno quando l'anima è ingombra, c'è qualcosa che non va. Da sveglio, non ho affatto un carattere fermo. Non mi daranno mai una medaglia come uomo di carattere. E siffatte cose devon risultare chiare, chiarissime, ai morti. Essi hanno finalmente lasciato la problematica, nebulosa sfera dell'umano e del terrestre. Ho questa sensazione: in vita, uno guarda dall'Io (dal suo centro, cioè) verso l'esterno: in morte, uno si trova alla periferia e guarda verso l'interno. Vedi i tuoi vecchi amici, al caffè, che ancora s'affannano sotto il peso dell'individualità, e cerchi di fargli coraggio lasciando intendere che, quando verrà il loro turno di entrare nell'eternità, anch'essi cominceranno a capire, si faranno un'idea di che cosa è accaduto. Dato che non c'è nulla, qui, di Scientifico, ci spaventa pensarci.
Ebbene, vedrò di riassumere. A ventidue anni Von Humboldt Fleisher pubblicò il suo primo libro di ballate. Avresti detto che uno nato nel West End, figlio di immigrati, nevrotici per di più - quel padre stravagante che va a dare la caccia a Pancho Villa e che, come ci mostra una vecchia foto, ha una chioma tanto folta e riccia che il chepi gli sta in testa e non gli sta: quella madre di estrazione piccolo borghese, di famiglia tutta casa-bottega-e-stadio, molto bruna e graziosa da giovane, cupamente pazzoide da vecchia - che un giovanotto di tal natura dovesse essere per forza maldestro, che la sua sintassi non potesse venir accettata dai raffinati critici goy posti di guardia allo Establishment Protestante alla Tradizione Snob. Niente affatto. Quelle ballate erano terse, musicali, spiritose, piene di gioia e d'umanità. Platoniche, direi. Con ciò alludo a quella perfezione originaria cui, secondo Platone, ogni essere aspira a ritornare. Sì, le parole di Humboldt erano impeccabili. L'America degli Snob non aveva motivo di temere...

Saul Bellow


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