È uscito il n° 119-120
Luglio-Agosto 2002
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 16 luglio 2002
Editoriale
 
Il personaggio del mese:
Torquato Tasso - L'esplorazione delle passioni
  

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Il personaggio del mese:
Torquato Tasso
L'esplorazione delle passioni
 
 
Madrigali amorosi tratti da Rime
 
Descrive l'apparir de l'aurora e de la sua donna.
 
143
 
Ecco mormorar l'onde
e tremolar le fronde
a l'aura mattutina e gli arboscelli,
e sovra i verdi rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l'oriente;
ecco già l'alba appare
e si specchia nel mare,
e rasserena il cielo
e le campagne imperla il dolce gelo,
e gli alti monti indora.
O bella e vaga Aurora,
l'aura è tua messaggera, e tu de l'aura
ch'ogni arso cor ristaura.
 
 
288
 
Armatemi, ben mio,
perché sdegna il mio core
ogni altro cibo e vive sol d'amore.
V'amerò, se m'amate,
né men de la mia vita
l'amor fia lungo e fia con lui finita.
Ma s'amarmi negate,
morirò disperato
per non amarvi non essendo amato.
 
 
307
 
Non sono in queste rive
fiori così vermigli
come le labbra de la donna mia,
né 'l suon de l'aure estive
tra fonti e rose e gigli
fa del suo canto più dolce armonia.
Canto che m'ardi e piaci,
t'interrompano solo i nostri baci!
 
 
324
 
Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l'erba fresca in grembo?
Perché ne l'aria bruna
s'udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir l'aure insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
 
499
 
Un'ape esser vorrei,
donna bella e crudele,
che susurrando in voi suggesse il mele;
e non potendo il cor, potesse almeno
pungervi il bianco seno,
e 'n sì dolce ferita
vendicata lasciar la propria vita.
 
 
Tratto da Rime, parte III, n. LIX/I, in Poesie cit., p. 785
 
O vaga tortorella
 
O vaga tortorella,
tu la tua compagnia
ed io piango colei che non fu mia.
Misera vedovella,
tu sovra il nudo ramo,
a piè del secco tronco io la richiamo:
ma l'aura solo e 'l vento
risponde mormorando al mio lamento.
 
 
Tratto da Rime, parte I, n. XL, in Poesie cit., p. 711
 
Lunge da voi, ben mio
 
Lunge da voi, ben mio,
non ho vita né core e non son io.
Non sono, oimè!, non sono
quel ch'altra volta fui, ma un'ombra mesta,
un lagrimevol suono,
una voce dolente: e ciò mi resta
solo per vostro dono;
ma resta il male onde morir desio.
 
 
Tratto da Rime, parte III, n. XIII, in Poesie cit., p. 767
 
Donna, il bel vetro tondo
 
Donna, il bel vetro tondo
che ti mostra le perle e gli ostri e gli ori
in cui tu di te stessa t'innamori,
è l'effige del mondo,
ché quanto in lui riluce
raggio ed imago è sol de la tua luce.
Or chi de l'universo
può i pregi annoverar sì vari e tanti,
quegli audace si vanti
di stringer le tue lodi in prosa e 'n verso.
 
 
Tratto da Gerusalemme liberata, III, 1-31)
 
Canto terzo
 
Già l'aura messaggiera erasi desta
a nunziar che se ne vien l'aurora;
ella intanto s'adorna, e l'aurea testa
di rose colte in paradiso infiora,
quando il campo, ch'a l'arme omai s'appresta,
in voce mormorava alta e sonora,
e prevenia le trombe; e queste poi
dièr più lieti e canori i segni suoi.
 
Il saggio capitan con dolce morso
i desideri lor guida e seconda,
ché più facil saria svolger il corso
presso Cariddi a la volubil onda,
o tardar Borea allor che scote il dorso
de l'Apennino, e i legni in mare affonda.
Gli ordina, gl'incamina e 'n suon gli regge
rapido sì, ma rapido con legge.
 
Ali ha ciascuno al core ed ali al piede,
né del suo ratto andar però s'accorge;
ma quando il sol gli aridi campi fiede
con raggi assai ferventi e in alto sorge,
ecco apparir Gierusalem si vede,
ecco additar Gierusalem si scorge,
ecco da mille voci unitamente
Gierusalemme salutar si sente.
 
Così di naviganti audace stuolo,
che mova a ricercar estranio lido,
e in mar dubbioso e sotto ignoto polo
provi l'onde fallaci e 'l vento infido,
s'al fin discopre il desiato suolo,
il saluta da lunge in lieto grido,
e l'uno a l'altro il mostra, e intanto oblia
la noia e 'l mal de la passata via.
 
Al gran piacer che quella prima vista
dolcemente spirò ne l'altrui petto,
alta contrizion successe, mista
di timoroso e riverente affetto.
Osano a pena d'inalzar la vista
vèr la città, di Cristo albergo eletto,
dove morì, dove sepolto fue,
dove poi rivestì le membra sue.
 
Sommessi accenti e tacite parole,
rotti singulti e flebili sospiri
de la gente ch'in un s'allegra e duole,
fan che per l'aria un mormorio s'aggiri
qual ne le folte selve udir si suole
s'avien che tra le frondi il vento spiri,
o quale infra gli scogli o presso a i lidi
sibila il mar percosso in rauchi stridi.
 
Nudo ciascuno il piè calca il sentiero,
ché l'essempio de' duci ogn'altro move,
serico fregio o d'or, piuma o cimiero
superbo dal suo capo ognun rimove;
ed insieme del cor l'abito altero
depone, e calde e pie lagrime piove.
Pur quasi al pianto abbia la via rinchiusa,
così parlando ognun se stesso accusa:
 
&endash; Dunque ove tu, Signor, di mille rivi
sanguinosi il terren lasciasti asperso,
d'amaro pianto almen duo fonti vivi
in sì acerba memoria oggi io non verso?
Agghiacciato mio cor, ché non derivi
per gli occhi e stilli in lagrime converso?
Duro mio cor, ché non ti spetri e frangi?
Pianger ben merti ognor, s'ora non piangi.
 
De la cittade intanto un ch'a la guarda
sta d'alta torre e scopre i monti e i campi,
colà giuso la polve alzarsi guarda,
sì che par che gran nube in aria stampi:
par che baleni quella nube ed arda,
come di fiamme gravida e di lampi;
poi lo splendor de' lucidi metalli
distingue e scerne gli uomini e i cavalli.
 
Allor gridava: &endash; Oh qual per l'aria stesa
polvere i' veggio! oh come par che splenda!
Su, suso, o cittadini, a la difesa
s'armi ciascun veloce, e i muri ascenda:
già presente è il nemico. &endash; E poi, ripresa
la voce: &endash; Ognun s'affretti, e l'arme prenda;
ecco, il nemico è qui: mira la polve
che sotto orrida nebbia il ciel involve. &endash;
 
I semplici fanciulli, e i vecchi inermi,
e 'l vulgo de le donne sbigottite,
che non sanno ferir né fare schermi,
traen supplici e mesti a le meschite.
Gli altri di membra e d'animo più fermi
già frettolosi l'arme avean rapite.
Accorre altri a le porte, altri a le mura;
il re va intorno, e 'l tutto vede e cura.
 
Gli ordini diede, e poscia ei si ritrasse
ove sorge una torre infra due porte,
sì ch'è presso al bisogno; e son più basse
quindi le piaggie e le montagne scorte.
Volle che quivi seco Erminia andasse,
Erminia bella, ch'ei raccolse in corte
poi ch'a lei fu da le cristiane squadre
presa Antiochia, e morto il re suo padre.
 
Clorinda intanto incontra a i Franchi è gita:
molti van seco, ed ella a tutti è inante;
ma in altra parte, ond'è secreta uscita,
sta preparato a le riscosse Argante.
La generosa i suoi seguaci incita
co' detti e con l'intrepido sembiante:
&endash; Ben con alto principio a noi conviene &endash;
dicea &endash; fondar de l'Asia oggi la spene. &endash;
 
Mentre ragiona a i suoi, non lunge scorse
un franco stuol addur rustiche prede,
che, com'è l'uso, a depredar precorse;
or con greggie ed armenti al campo riede.
Ella vèr lor, e verso lei se 'n corse
il duce lor, ch'a sé venir la vede.
Gardo il duce è nomato, uom di gran possa,
ma non già tal ch'a lei resister possa.
 
Gardo a quel fero scontro è spinto a terra
in su gli occhi de' Franchi e de' pagani,
ch'allor tutti gridàr, di quella guerra
lieti augùri prendendo, i quai fur vani.
Spronando adosso a gli altri ella si serra,
e val la destra sua per cento mani.
Seguìrla i suoi guerrier per quella strada
che spianàr gli urti, e che s'aprì la spada.
 
Tosto la preda al predator ritoglie;
cede lo stuol de' Franchi a poco a poco,
tanto ch'in cima a un colle ei si raccoglie,
ove aiutate son l'arme dal loco.
Allor, sì come turbine si scioglie
e cade da le nubi aereo fuoco,
il buon Tancredi, a cui Goffredo accenna,
sua squadra mosse, ed arrestò l'antenna.
 
Porta sì salda la gran lancia, e in guisa
vien feroce e leggiadro il giovenetto,
che veggendolo d'alto il re s'avisa
che sia guerriero infra gli scelti eletto.
Onde dice a colei ch'è seco assisa,
e che già sente palpitarsi il petto:
&endash; Ben conoscer déi tu per sì lungo uso
ogni cristian, benché ne l'arme chiuso.
 
Chi è dunque costui, che così bene
s'adatta in giostra, e fero in vista è tanto? &endash;
A quella, in vece di risposta, viene
su le labra un sospir, su gli occhi il pianto.
Pur li spirti e le lagrime ritiene,
ma non così che lor non mostri alquanto:
ché gli occhi pregni un bel purpureo giro
tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.
 
Poi gli dice infingevole e nasconde
sotto il manto de l'odio altro desio:
&endash; Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
fra mille riconoscerlo deggia io,
ché spesso il vidi i campi e le profonde
fosse del sangue empir del popol mio.
Ahi quanto è crudo nel ferire! a piaga
ch'ei faccia, erba non giova od arte maga.
 
Egli è il prence Tancredi: oh prigioniero
mio fosse un giorno! e no 'l vorrei già morto;
vivo il vorrei, perch'in me desse al fero
desio dolce vendetta alcun conforto. &endash;
Così parlava, e de' suoi detti il vero
da chi l'udiva in altro senso è torto;
e fuor n'uscì con le sue voci estreme
misto un sospir che 'ndarno ella già preme.
 
Clorinda intanto ad incontrar l'assalto
va di tancredi, e pon la lancia in resta.
Ferìrsi a le visiere, e i tronchi in alto
volaro e parte nuda ella ne resta;
ché, rotti i lacci a l'elmo suo, d'un salto
(mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
e le chiome dorate al vento sparse,
giovane donna in mezzo 'l campo apparse.
 
Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
dolci ne l'ira; or che sarian nel riso?
Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
non riconosci tu l'altero viso?
Quest'è pur quel bel volto onde tutt'ardi;
tuo core il dica, ov'è il suo essempio inciso.
Questa è colei che rinfrescar la fronte
vedesti già nel solitario fonte.
 
Ei ch'al cimiero ed al dipinto scudo
non badò prima, or lei veggendo impètra;
ella quanto può meglio il capo ignudo
si ricopre, e l'assale; ed ei s'arretra.
Va contra gli altri, e rota il ferro crudo;
ma però da lei pace non impetra,
che minacciosa il segue, e: &endash; Volgi &endash; grida;
e di due morti in un punto lo sfida.
 
Percosso, il cavalier non ripercote,
né sì dal ferro a riguardarsi attende,
come a guardar i begli occhi e le gote
ond'Amor l'arco inevitabil tende.
Fra sé dicea: "Van le percosse vote
talor, che la sua destra armata stende;
ma colpo mai del bello ignudo volto
non cade in fallo, e sempre il cor m'è colto."
 
Risolve al fin, benché pietà non spere,
di non morir tacendo occulto amante.
Vuol ch'ella sappia ch'un prigion suo fère
già inerme, e supplichevole e tremante;
onde le dice: &endash; O tu, che mostri avere
per nemico me sol fra turbe tante,
usciam di questa mischia, ed in disparte
i' potrò teco, e tu meco provarte.
 
Così me' si vedrà s'al tuo s'agguaglia
il mio valore. &endash; Ella accettò l'invito:
e come esser senz'elmo a lei non caglia,
già baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata s'era in atto di battaglia
già la guerriera, e già l'avea ferito,
quand'egli: &endash; Or ferma, &endash; disse &endash; e siano fatti
anzi la pugna de la pugna i patti. &endash;
 
Fermossi, e lui di pauroso audace
rendé in quel punto il disperato amore.
&endash; I patti sian, &endash; dicea &endash; poi che tu pace
meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non più mio, s'a te dispiace
ch'egli più viva, volontario more:
è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
ormai tu debbia, e non debb'io vietarlo.
 
Ecco io chino le braccia e t'appresento
senza difesa il petto: or ché no 'l fiedi?
vuoi ch'agevoli l'opra? i' son contento
trarmi l'usbergo or or, se nudo il chiedi. &endash;
Distinguea forse in più duro lamento
i suoi dolori il misero Tancredi,
ma calca l'impedisce intempestiva
de' pagani e de' suoi che sopprarriva.
 
Cedean cacciati da lo stuol cristiano
i Palestini, o sia temenza od arte.
Un de' persecutori, uomo inumano,
videle sventolar le chiome sparte,
e da tergo in passando alzò la mano
per ferir lei ne la sua ignuda parte;
ma Tancredi gridò, che se n'accorse,
e con la spada a quel gran colpo occorse.
 
Pur non gì tutto in vano, e ne' confini
del bianco collo il bel capo ferille.
Fu levissima piaga, e i biondi crini
rosseggiaron così d'alquante stille,
come rosseggia l'or che di rubini
per man d'illustre artefice sfaville.
Ma il prence infuriato allor si strinse
addosso a quel villano, e 'l ferro spinse.
 
Quel si dilegua, e questi acceso d'ira
il segue, e van come per l'aria strale.
Ella riman sospesa, ed ambo mira
lontani molto, né seguir le cale,
ma co' suoi fuggitivi si ritira:
talor mostra la fronte e i Franchi assale;
or si volge or rivolge, or fugge or fuga,
né si può dir la sua caccia né fuga.
 
 
Tratto da Gerusalemme liberata, VI, 103-114; VII, 1-22
 
Canto Sesto
 
Era la notte e 'l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna,
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L'innamorata donna iva co 'l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea i muti campi e quel silenzio amico.
 
Poi rimirando il campo ella dicea:
&endash; O belle a gli occhi miei tende latine!
Aura spira da voi che mi ricrea
e mi conforta pur che m'avicine;
così a mia vita combattuta e rea
qualche onesto riposo il Ciel destine,
come in voi solo il cerco, e solo parmi
che trovar pace io possa in mezzo a l'armi.
 
Raccogliete me dunque, e in voi si trove
quella pietà che mi promise Amore
e ch'io già vidi, prigioniera altrove,
nel mansueto mio dolce signore.
Né già desio di racquistar mi move
co 'l favor vostro il mio regale onore;
quando ciò non avenga, assai felice
io mi terrò se 'n voi servir mi lice. &endash;
 
Così parla costei, che non prevede
qual dolente fortuna a lei s'appreste.
Ella era in parte ove per dritto fiede
l'armi sue terse il bel raggio celeste,
sì che da lunge il lampo lor si vede
co 'l bel candor che le circonda e veste,
e la gran tigre ne l'argento impressa
fiammeggia sì ch'ognun direbbe: "È dessa."
 
Come volle sua sorte assai vicini
molti guerrier disposti avean gli aguati;
e n'eran duci duo fratei latini,
Alcandro e Poliferno, e fur mandati
per impedir che dentro a i saracini
greggie non siano e non sian buoi menati;
e se 'l servo passò, fu perché torse
più lunge il passo e rapido trascorse.
 
Al giovin Poliferno, a cui fu il padre
su gli occhi suoi già da Clorinda ucciso,
viste le spoglie candide e leggiadre,
fu di veder l'alta guerriera aviso,
e contra le irritò l'occulte squadre;
né frenando del cor moto improviso
(com'era in suo furor sùbito e folle)
gridò: &endash; Sei morta ´&endash;, e l'asta in van lanciolle.
 
Sì come cerva ch'assetata il passo
mova a cercar d'acque lucenti e vive,
ove un bel fonte distillar da un sasso
o vide un fiume tra frondose rive,
s'incontra i cani allor che 'l corpo lasso
ristorar crede a l'onde, a l'ombre estive,
volge indietro fuggendo, e la paura
la stanchezza obliar face e l'arsura;
 
così costei, che de l'amor la sete,
onde l'infermo core è sempre ardente,
spegner ne l'accoglienze oneste e liete
credeva, e riposar la stanca mente,
or che contra gli vien chi glie 'l diviete,
e 'l suon del ferro e le minaccie sente,
se stessa e 'l suo desir primo abbandona,
e 'l veloce destrier timida sprona.
 
Fugge Erminia infelice, e 'l suo destriero
con prontissimo piede il suol calpesta.
Fugge ancor l'altra donna, e lor quel fero
con molti armati di seguir non resta.
Ecco che da le tende il buon scudiero
con la tarda novella arriva in questa,
e l'altrui fuga ancor dubbio accompagna
e gli sparge il timor per la campagna.
 
Ma il più saggio fratello, il quale anch'esso
la non vera Clorinda avea veduto,
non la volle seguir, ch'era men presso,
ma ne l'insidie sue s'è ritenuto;
e mandò con l'aviso al campo un messo
che non armento od animal lanuto,
né preda altra simil, ma ch'è seguita
dal suo german Clorinda impaurita;
 
e ch'ei non crede già, né 'l vuol ragione,
ch'ella, ch'è duce e non è sol guerriera,
elegga a l'uscir suo tale stagione
per opportunità che sia leggiera;
ma giudichi e comandi il pio Buglione,
egli farà ciò che da lui s'impera.
Giunge al campo tal nova, e se ne intende
il primo suon ne le latine tende.
 
Tancredi, cui dinanzi il cor sospese
quell'aviso primiero, udendo or questo,
pensa: "Deh! forse a me venia cortese,
e 'n periglio è per me", né pensa al resto.
E parte prende sol del grave arnese,
monta a cavallo e tacito esce e presto;
e seguendo gli indizi e l'orme nove,
rapidamente a tutto corso il move.
 
 
Canto settimo
 
Intanto Erminia infra l'ombrose piante
d'antica selva dal cavallo è scòrta,
né più governa il fren la man tremante,
e mezza quasi par tra viva e morta.
Per tante strade si raggira e tante
il corridor ch'in sua balìa la porta,
ch'al fin da gli occhi altrui pur si dilegua,
ed è soverchio ormai ch'altri la segua.
 
Qual dopo lunga e faticosa caccia
tornansi mesti ed anelanti i cani
che la fèra perduta abbian di traccia,
nascosa in selva da gli aperti piani,
tal pieni d'ira e di vergogna in faccia
riedono stanchi i cavalier cristiani.
Ella pur fugge, e timida e smarrita
non si volge a mirar s'anco è seguita.
 
Fuggi tutta la notte, e tutto il giorno
errò senza consiglio e senza guida,
non udendo o vedendo altro d'intorno,
che le lagrime sue, che le sue strida.
Ma ne l'ora che 'l sol dal carro adorno
scioglie i corsieri e in grembo al mar s'annida,
giunse del bel Giordano a le chiare acque
e scese in riva al fiume, e qui si giacque.
 
Cibo non prende già, ché de' suoi mali
solo si pasce e sol di pianto ha sete;
ma 'l sonno che de' miseri mortali
è co 'l suo dolce oblio posa e quiete,
sopì co' sensi i suoi dolori, e l'ali
dispiegò sovra lei placide e chete;
né però cessa Amor con varie forme
la sua pace turbar mentre ella dorme.
 
Non si destò fin che garrir gli augelli
non sentì lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l'onda scherzar l'aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
alberghi solitari de' pastori,
e parle voce udir tra l'acqua e i rami
ch'a i sospiri ed al pianto la richiami.
 
Ma son, mentr'ella piange, i suoi lamenti
rotti da un chiaro suon ch'a lei ne viene
che sembra ed è di pastorali accenti
misto e di boscareccie inculte avene.
Risorge, e là s'indrizza a passi lenti,
e vede un uom canuto a l'ombre amene
tesser fiscelle a la sua greggia a canto
ed ascoltar di tre fanciulli il canto.
 
Vedendo quivi comparir repente
l'insolite arme, sbigottìr costoro;
ma li saluta Erminia e dolcemente
gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d'oro:
&endash; Seguite, &endash; dice &endash; aventurosa gente
al Ciel diletta, il bel vostro lavoro,
ché non portano già guerra quest'armi
a l'opre vostre, a i vostri dolci carmi. &endash;
 
Soggiunse poscia: &endash; O padre, or che d'intorno
d'alto incendio di guerra arde il paese,
come qui state in placido soggiorno
senza temer le militari offese?
&endash; Figlio, &endash; ei rispose &endash; d'ogni oltraggio e scorno
la mia famiglia e la mia greggia illese
sempre qui fur, né strepito di Marte
ancor turbò questa remota parte.
 
O sia grazia del Ciel che l'umiltade
d'innocente pastor salvi e sublime,
o che, sì come il folgore non cade
in basso pian ma su l'eccelse cime,
così il furor di peregrine spade
sol de' gran re l'altere teste opprime,
né gli avidi soldati a preda alletta
la nostra povertà vile e negletta.
 
Altrui vile e negletta, a me sì cara
che non bramo tesor né regal verga,
né cura o voglia ambiziosa o avara
mai nel tranquillo del mio petto alberga.
Spengo la sete mia ne l'acqua chiara,
che non tem'io che di venen s'asperga,
e questa greggia e l'orticel dispensa
cibi non compri a la mia parca mensa.
 
Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro
bisogno onde la vita si conservi.
Son figli miei questi ch'addito e mostro,
custodi de la mandra, e non ho servi.
Così me 'n vivo in solitario chiostro,
saltar veggendo i capri snelli e i cervi,
ed i pesci guizzar di questo fiume
e spiegar gli augelletti al ciel le piume.
 
Tempo già fu, quando più l'uom vaneggia
ne l'età prima, ch'ebbi altro desio
e disdegnai di pasturar la greggia;
e fuggii dal paese a me natio,
e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia
fra i ministri del re fui posto anch'io,
e benché fossi guardian de gli orti
vidi e conobbi pur l'inique corti.
 
Pur lusingato da speranza ardita
soffrii lunga stagion ciò che più spiace;
ma poi ch'insieme con l'età fiorita
mancò la speme e la baldanza audace,
piansi i riposi di quest'umil vita
e sospirai la mia perduta pace,
e dissi: "O corte, a Dio." Così, a gli amici
boschi tornando, ho tratto i dì felici. &endash;
 
Mentre ei così ragiona, Erminia pende
da la soave bocca intenta e cheta;
e quel saggio parlar, ch'al cor le scende,
de' sensi in parte le procelle acqueta.
Dopo molto pensar, consiglio prende
in quella solitudine secreta
insino a tanto almen farne soggiorno
ch'agevoli fortuna il suo ritorno.
 
Onde al buon vecchio dice: &endash; O fortunato,
ch'un tempo conoscesti il male a prova,
se non t'invidii il Ciel sì dolce stato,
de le miserie mie pietà ti mova;
e me teco raccogli in così grato
albergo ch'abitar teco mi giova.
Forse fia che 'l mio core infra quest'ombre
del suo peso mortal parte disgombre.
 
Ché se di gemme e d'or, che 'l vulgo adora
sì come idoli suoi, tu fossi vago,
potresti ben, tante n'ho meco ancora,
renderne il tuo desio contento e pago. &endash;
Quinci, versando da' begli occhi fora
umor di doglia cristallino e vago,
parte narrò di sue fortune, e intanto
il pietoso pastor pianse al suo pianto.
 
Poi dolce la consola e sì l'accoglie
come tutt'arda di paterno zelo,
e la conduce ov'è l'antica moglie
che di conforme cor gli ha data il Cielo.
La fanciulla regal di rozze spoglie
s'ammanta, e cinge al crin ruvido velo;
ma nel moto de gli occhi e de le membra
non già di boschi abitatrice sembra.
 
Non copre abito vil la nobil luce
e quanto è in lei d'altero e di gentile,
e fuor la maestà regia traluce
per gli atti ancor de l'essercizio umile.
Guida la greggia a i paschi e la riduce
con la povera verga al chiuso ovile,
e da l'irsute mamme il latte preme
e 'n giro accolto poi lo stringe insieme.
 
Sovente, allor che su gli estivi ardori
giacean le pecorelle a l'ombra assise,
ne la scorza de' faggi e de gli allori
segnò l'amato nome in mille guise,
e de' suoi strani ed infelici amori
gli aspri successi in mille piante incise,
e in rileggendo poi le proprie note
rigò di belle lagrime le gote.
 
Indi dicea piangendo: &endash; In voi serbate
questa dolente istoria, amiche piante;
perché se fia ch'a le vostr'ombre grate
giamai soggiorni alcun fedele amante,
senta svegliarsi al cor dolce pietate
de le sventure mie sì varie e tante,
e dica: "Ah troppo ingiusta empia mercede
diè Fortuna ed Amore a sì gran fede!"
 
Forse averrà, se 'l Ciel benigno ascolta
affettuoso alcun prego mortale,
che venga in queste selve anco tal volta
quegli a cui di me forse or nulla cale;
e rivolgendo gli occhi ove sepolta
giacerà questa spoglia inferma e frale,
tardo premio conceda a i miei martiri
di poche lagrimette e di sospiri;
 
onde se in vita il cor misero fue,
sia lo spirito in morte almen felice,
e 'l cener freddo de le fiamme sue
goda quel ch'or godere a me non lice. &endash;
Così ragiona a i sordi tronchi, e due
fonti di pianto da' begli occhi elice.
Tancredi intanto, ove fortuna il tira
lunge da lei, per lei seguir, s'aggira.
 
 
Tratto da Gerusalemme liberata, XII, 51-71
 
Canto dodicesimo
 
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch'essa Arimon uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.
 
Vuol ne l'armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtù si paragone.
Va girando colei l'alpestre cima
verso altra porta, ove d'entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d'armi suone,
ch'ella si volge e grida: &endash; O tu, che porte,
che corri sì? &endash; Risponde: &endash; E guerra e morte.
 
&endash; Guerra e morte avrai; &endash; disse &endash; io non rifiuto
darlati, se la cerchi &endash;, e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l'uno e l'altro il ferro acuto,
ed aguzza l'orgoglio e l'ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d'ira ardenti.
 
Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno
teatro, opre sarian sì memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l'oblio fatto sì grande,
piacciati ch'io ne 'l tragga e 'n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l'alta memoria.
 
Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l'ombra e 'l furor l'uso de l'arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d'orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre in moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.
 
L'onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l'onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s'aggiunge e cagion nova.
D'or in or più si mesce e più ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co' pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
 
Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que' nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d'amante.
Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
 
L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue
su 'l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l'ultima stella il raggio langue
al primo albor ch'è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch'ogn'aura di fortuna estolle!
 
Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l'altro scoprisse:
 
&endash; Nostra sventura è ben che qui s'impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l'opra,
pregoti (se fra l'arme han loco i preghi)
che 'l tuo nome e 'i tuo stato a me tu scopra,
acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore. &endash;
 
Risponde la feroce: &endash; Indarno chiedi
quel c'ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese. &endash;
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: &endash; In mal punto il dicesti; &endash; indi riprese
&endash; il tuo dir e 'l tacer di par m'alletta,
barbaro discortese, a la vendetta.
 
Torna l'ira ne' cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u' l'arte in bando, u' già la forza è morta,
ove, in vece, d'entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna,
ne l'arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.
 
Qual l'alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s'accheta ei però, ma 'l suono e 'l moto
ritien de l'onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co 'l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l'impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.
 
Ma ecco omai l'ora fatale è giunta
che 'l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s'immerge e 'l sangue avido beve;
e la veste, che d'or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.
 
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch'a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtù ch'or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
 
&endash; Amico, hai vinto: io ti perdon… perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l'alma sì; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. &endash;
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
 
Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un piccol rio.
Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
 
Non morì già, ché sue virtuiti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise.
Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: "S'apre il cielo; io vado in pace."
 
D'un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a' gigli sarian miste viole,
e gli occhi al ciel affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e 'l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.
 
Come l'alma gentile uscita ei vede,
rallenta quel vigor ch'avea raccolto;
e l'imperio di sé libero cede
al duol già fatto impetuoso e stolto,
ch'al cor si stringe e, chiusa in breve sede
la vita, empie di morte i sensi e 'l volto.
Già simile a l'estinto il vivo langue
al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.
 
E ben la vita sua sdegnosa e schiva,
spezzando a forza il suo ritegno frale,
la bella anima sciolta al fin seguiva,
che poco inanzi a lei spiegava l'ale;
ma quivi stuol de' Franchi a caso arriva,
cui trae bisogno d'acqua o d'altro tale,
e con la donna il cavalier ne porta,
in sé mal vivo e morto in lei ch'è morta.
 
 
Torquato Tasso
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