È uscito il n° 117-118
Maggio-Giugno 2002
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 6 maggio 2002
 
Editoriale
 
Dario Bellezza: Il dominio dell'Io
 
Nazym Hikmet: Il vento e il leone della poesia
 
News
 
In vendita nelle seguenti librerie
Cent'anni fa nasceva a Salonicco
Nazym Hikmet: Il vento e il leone della poesia
Hikmet è uno di quei poeti che si incrociano spesso, e quasi sempre senza saperlo. I suoi versi vagano nell'universo delle parole scritte e dette, diciamo nell'immaginario collettivo, lasciando ovunque quel loro inconfondibile aroma di rosa e miele. Due esempi a caso, gli ultimi in ordine di tempo? Un film, Le fate ignoranti. Non un film di cassetta, un bel film che come di rado accade, per qualche misteriosa alchimia, diventa un film di successo nonostante la sua qualità. I due protagonisti, donna e uomo, legati dall'amore per lo stesso uomo - morto - di cui la prima era la legittima moglie e il secondo il clandestino amante, scoprono di aver dato vita a un triangolo di passione alimentata dalle poesie di Hikmet. Secondo esempio, un fumetto, di quelli che potrebbero avere diritto d'asilo in tutte le case perché non offendono né il gusto né l'intelligenza: Julia, giovane e sofisticata criminologa dal viso aristocratico e dolce di Audrey Hepburn, riceve da un anonimo spasimante, che poi si scoprirà essere l'adolescente figlio della domestica, rose e versi. Questi versi: anima mia/ chiudi gli occhi / piano piano / e come s'affonda nell'acqua / immergiti nel sonno / nuda e vestita di bianco / il più bello dei sogni / ti accoglierà. Julia legge, chiude gli occhi, si distende nell'incanto di quelle parole, sogna. Come lei, uomini e donne di ogni paese del mondo - Hikmet è stato tradotto in più di cinquanta lingue - si lasciano sedurre dalle sue poesie: perché hanno un segreto, qualcosa di speciale che le distingue da tutte le altre. Sono semplici, semplici e potenti insieme: ogni singolo verso ha tutta la potenza della semplicità. Non c'è nulla di complicato nelle poesie di Hikmet: tutto è chiaro e sereno, aperto, offerto al lettore con il gesto più antico dell'ospitalità: vieni, qui c'è acqua fresca per te, bevi. Non ci sono significati nascosti, tentazioni metafisiche, non c'è contrasto né tensione tra cielo e terra, tra ideale e reale. Tutto è profondamente e intrinsecamente umano, imbevuto di passione profonda e amore autentico per l'uomo; l'uomo così com'è, non come si vorrebbe che fosse. L'uomo nonostante i suoi egoismi, le sue crudeltà, le sue ingiustizie. L'uomo per quel che potrebbe diventare se imparasse la legge dell'amore e della solidarietà. Hikmet queste leggi le aveva imparate, per quel che è possibile quando si è fatti di carne e sangue, e ha anche cercato di applicarle con un impegno personale che non è mai venuto meno nonostante le persecuzioni, il carcere, la tortura, l'esilio. A testimonianza del fatto che essere coerenti si può, anche se si paga. Talvolta molto caro. Il prezzo, per lui, è stato particolarmente alto.
 
E dire che Nazym Hikmet era nato sotto auspici decisamente fortunati, avvolto dalla solidità economica e dal prestigio sociale di una famiglia ricca, potente, ossequiata.
Era il lontano 1902. Esattamente cent'anni fa, ma sotto certi aspetti si potrebbe anche pensare che di anni ne siano passati mille. Il mondo era assai diverso, nel 1902, e conservava molti dei tratti che aveva avuto per secoli. L'Europa era ancora il centro del mondo, e difatti il mondo se l'era spartito con grande cura, tracciando precise rette che tagliavano a fette grandi e piccole ampie zone degli altri continenti. Provate a guardare una cartina politica dell'Africa: le frontiere degli stati non seguono i confini naturali - fiumi, catene montuose - come avviene in Europa. No, lì gli stati non si sono configurati ad opera della morfologia e della storia; sono opera di geometri e architetti dello sfruttamento di risorse, riuniti per l'occasione a Berlino pochi anni prima che nascesse Hikmet. Nel 1885 gli europei, inglesi francesi e tedeschi in testa, stretti intorno al tavolo delle trattative, avviarono il balletto del "tocca a me tocca a te" e lottizzarono tutto quel che si poteva lottizzare nel mondo. L'America, intesa come Stati Uniti, era ancora molto lontana, intenta a occuparsi del suo "cortile di casa"; solo quando a qualche potenza o ex potenza europea saltava in mente di mettere il piedino nell'America Latina lo zio Sam prontamente interveniva (come ben si vide nel brevissimo conflitto ispano americano del 1898, quando gli americani aiutarono Cuba a liberarsi del dominio spagnolo, offrendo soldati, cannoni e ovviamente disinteressata protezione da lì fino, potenzialmente, al giorno del giudizio). Era l'epoca dell'imperialismo, della positivistica fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità, del capitalismo trionfante, delle stole di ermellino argentato, delle tube di seta nera, dei bastoni con il manico d'avorio e delle cortigiane di lusso, sovente attrici o ballerine, cui principi e capitani d'industria regalavano diamanti e appartamenti di lusso. L'Europa celebrava se stessa a ritmo di can can. La chiamavano Belle Epoque, e frizzava come lo champagne. Ma antichi rancori e moderne cupidigie covavano sotto la brace ardente di ricchezza e benessere di quell'epoca bella e dissennata. La Francia aspettava la resa dei conti con la Germania dopo la disfatta del 1870, quando l'esperienza straordinaria della Comune di Parigi era finita spalle al muro, e di fronte il plotone d'esecuzione; Inghilterra e Russia guardavano con sospetto quel Reich tedesco che sembrava sempre più affamato di cannoni e guardava volentieri all'est europeo, come se volesse portare a compimento il suo secolare Drang nach Osten; e tutti quanti, Francia Inghilterra Germania e Russia, e persino la minuscola Italia (dagli occhi sempre più grandi della pancia, come ben sa e recita la saggezza popolare) avevano l'acquolina in bocca se appena volgevano lo sguardo verso la penisola balcanica: perché lì c'era la preda più appetitosa e disponibile, più succulenta e indifesa. Lì c'era l'antico e glorioso impero ottomano, la spina musulmana nel fianco della cristianissima europea, il nemico di sempre: il turco, che con la sua scimitarra affilata aveva osato spingersi fino alle porte di Vienna. Erano passati due secoli, ma nessuno l'aveva dimenticato. I tempi della storia sono lunghi, non infiniti.
 
Il turco, nel 1902, agonizzava. Era già da un secolo che le fameliche potenze europee avevano cominciato a strappare dal corpo dell'impero brandelli di territorio, mentre altri frammenti si staccavano per conto loro. Era già da un secolo che i sultani, a fasi alterne, cercavano di mettere delle pezze riformando qualcosa, aggiustando qualcos'altro, allentando un po' la morsa dell'oppressione fiscale e religiosa che da sempre stringeva il mosaico di popoli sottomessi. Senza alcun risultato: troppo timide le riforme, troppo prepotente il fiume della storia. L'impero ottomano aveva fatto il suo tempo, e di lì a poco sarebbe giunta la fine, convulsa e ridicola come tutte le fini. Chi non ricorda come finì Roma caput mundi? Nel salone polveroso e scuro della corte di Ravenna, dove l'ultimo imperatore, un ragazzino che pomposamente portava il nome del fondatore e ironicamente quello deformato del primo grande imperatore, Romolo Augustolo, giocava rincorrendo galline sotto le ampie e buie volte mentre il generale degli eruli, ma poteva essere chiunque altro, prelevava le insegne imperiali inviandole con gesto di formale ossequio all'imperatore d'Oriente. Così finì Roma, e non se ne accorse nessuno perché tanto era già finita da tempo. Così finì l'impero ottomano, quando un gruppo di giovani - i Giovani Turchi, per l'appunto - depose il sultano praticamente senza colpo ferire con l'obiettivo di riformare in senso costituzionale e democratico lo stato. Era il 1908, Hikmet aveva solo sei anni e viveva a Salonicco, nella fastosa dimora di famiglia, la casa dove era nato. Suo padre, Hikmet bey, era capo dell'ufficio stampa del governo Giovane-turco; sua madre, Aiscé Jelilé, era, si dice, la più bella donna dell'impero: pittrice, coltissima, appassionata lettrice di poesia francese, Baudelaire e Lamartine soprattutto, che recitava al figlio in lingua originale perché le traduzioni erano rarissime. «Mia madre conosceva benissimo il francese - ricorderà poi Hikmet - ma l'ottomano lo sapeva ancora meno di me». Il turco ottomano, che non è la lingua turca, era formato da parole arabe e persiane, e anche le regole grammaticali e sintattiche erano arabe e persiane; in questa lingua scriveva il nonno paterno, Nazim pascià, poeta e governatore di varie province, appartenente alla setta dei Mevlevè, dervisci vagabondi che derivavano il loro nome dal poeta Mevlana Gelaleddin. «Le poesie di mio nonno erano dogmatiche, didattiche, religiose. Non le capivo ma ero il nipote di un nonno poeta». Si capisce come mai la poesia, in quella casa, fosse sugli altari: il nonno gli leggeva i componimenti di Mevlana, la madre gli spiegava Baudelaire. E non era finita lì: l'altro nonno, quello materno, Enver pascià, era figlio di un nobile polacco, fuggito dalla Siberia zarista e fattosi musulmano, ed era filologo e storico di grande valore; aveva sposato la figlia di un tedesco, anche lui diventato musulmano, che era stato plenipotenziario ottomano al congresso di Berlino. Una famiglia potente, come si vede, dove prestigio e cultura camminavano a braccetto, dove Oriente e Occidente si mescolavano: i due nonni, entrambi pascià, signori di alto rango, non tenevano harem ed erano monogami all'uso occidentale. Inevitabile che in un ambiente familiare così vario e ricco di stimoli il giovanissimo Nazym crescesse pieno di curiosità, interessi e voglia di scrivere. E difatti, molto presto, cominciò a sua volta a inventare poesie, e a costruire giornaletti coi compagni di scuola.
 
«Avevo tredici anni. Abitavamo a Istanbul. Scoppiò un incendio di fronte alla nostra casa. Era la prima volta che vedevo un incendio. Ne fui stupito ed ebbi paura. Mio nonno, affinché l'incendio non arrivasse a casa nostra, si mise in piedi davanti alla finestra, brandendo il Corano aperto. L'incendio si spense, ma non per la forza del Corano, e nemmeno per quella dei pompieri; si spense da solo, dopo aver incenerito la casa che bruciava di fronte a noi. E io, due ore dopo, scrissi la mia prima poesia, 'L'incendio'». Quella poesia non esiste più, ovviamente. Hikmet ricordava però di averla scritta in ottomano, adottando la metrica arabo-persiana. La seconda poesia, un anno dopo, era dedicata a uno zio morto al fronte, ed era scritta in turco. Poi Hikmet conobbe un altro poeta, Yaya Kemal, suo professore di storia all'Accademia e frequentatore del salotto di casa - «penso fosse innamorato di mia madre» - che aveva inventato una lingua poetica nuova. Suggestionato dal carisma del personaggio scrisse una poesia sul gatto della sorella, la fece vedere a Kemal ed ebbe questa risposta: «se puoi fare una poesia su quella sudicia bestiola puoi diventare un grande poeta». Parole profetiche, come la storia ha dimostrato. Da allora la poesia e la vita di Hikmet sono diventate tutt'uno e l'amore, la coscienza, l'onore, l'eternità sono entrati nei suoi versi.
Hikmet era un giovanotto di buona famiglia, s'è detto, e curioso. A diciotto anni fuggì dall'Accademia e dal dorato mondo di Istanbul per conoscere la sua gente e il suo paese, di cui non sapeva praticamente nulla, nemmeno la lingua. All'Accademia, infatti, si scriveva con caratteri arabi, e la lingua colta che si leggeva sui testi e si parlava nei salotti era diversa e incomprensibile per i contadini dell'Anatolia, quegli uomini stanchi e curvi che Hikmet aveva talvolta visto da lontano, quando il nonno lo conduceva a fare un giro in carrozza per le campagne. Forse il ragazzo si domandava, già allora, il senso di quelle vite estenuanti, schiena piegata e mani rotte dalla fatica, e forse gli sembrava tutto molto ingiusto. Intanto erano successe un po' di cose. Nazym pascià e la moglie avevano divorziato: il primo aveva preso a occuparsi con grande entusiasmo di belle donne, la seconda era andata a Parigi seguendo i suoi estri di pittrice. E poi, soprattutto, c'era stata una drammatica resa dei conti per tutti: la Grande Guerra, la prima guerra totale e totalmente distruttiva che aveva cambiato la faccia del mondo bruciando in quattro anni milioni di vite e gli appetiti delle potenze europee, le quali, vincitrici e perdenti, apparivano ormai al di là di ogni ragionevole dubbio come ex di fronte al gigante che arrivava dal mare con enorme dispiego di uomini, mezzi e capitali: gli Stati Uniti. In quella guerra, iniziata proprio nei Balcani (la famosa "polveriera d'Europa") quando neppure le colonie africane e asiatiche erano più riuscite a contenere la fame di conquista delle potenze europee, dirottata prontamente e con cupidigia sui possedimenti ottomani, erano stati bruciati i fasti della Belle Epoque, immolati ottimismi e certezze, distrutti gli equilibri dell'intero continente europeo (che difatti di lì a breve riprecipiterà nel conflitto); si erano dissolte le ultime due reminiscenze del passato: l'impero russo e quello ottomano, precipitate su se stesse come castelli di sabbia. Era finito il secolo della fiducia nel progresso scientifico e civile, nella ragione individuale e collettiva; erano finiti il can e can e le frivolezze. Era iniziato un nuovo secolo, e la sua alba aveva bagliori di sangue.
 
L'impero ottomano era uscito dalla Grande Guerra a pezzi, smembrato e ridotto, per ironia della sorte, alla sola Anatolia, la terra, abitata dall'etnia turca, che per secoli era stata considerata come una specie di colonia dagli ottomani, signori e padroni di un impero così vasto e ricco da far apparire quegli altipiani deserti e i suoi rozzi pastori come una specie di anticamera dell'inferno, un possedimento di second'ordine, un luogo di inciviltà irrecuperabile, buono per essere sfruttato per quel poco che c'era da sfruttare. Eppure proprio da lì aveva preso le mosse il movimento dei Giovani Turchi che ora, dopo la disfatta, non voleva più semplicemente riformare quel che restava dello stato ottomano: lo voleva abbattere per fondare uno stato nazionale turco indipendente e moderno. La guerra, in Turchia, non era affatto finita, e Hikmet ci si buttò a capofitto. Fuggito da Istanbul, attraversò l'Anatolia a piedi per raggiungere i Giovani Turchi, comandati da Mustafà Kemal (passato alla storia come Ataturk, il padre dei Turchi), e unirsi a loro. Non sapeva bene cosa avrebbe potuto fare, che contributo dare: in fondo non era altro che un giovane educato e colto, assai poco avvezzo alle armi e alle fatiche. Ataturk, però, sapeva cosa fargli fare: lo mandò, insieme ad altri giovani intellettuali, in mezzo ai contadini, perché insegnasse loro a leggere e scrivere. Fu così che Nazym Hikmet, figlio e nipote di pascià, aspirante raffinato compositore in versi, si trovò, di colpo, in mezzo alla vita. Quella vera, sporca, sudata e affamata del popolo: «a 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo alla sua fame e alle sue cimici, contro l'esercito greco sostenuto da inglesi e francesi. Ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo adorai, compresi che bisognava scrivere tutto ciò in un altro modo». Lo scrisse. Sono di quegli anni le prime poesie civili, che venivano stampate su fogli nazionalisti e recitate nelle riunioni. La fama di questo giovane poeta impegnato nella causa di liberazione crebbe rapidamente, e lo stesso Ataturk lo salutò come poeta nazionale. Nel 1922 venne pubblicato un poemetto, Anatolia, scritto ricalcando il ritmo dei canti tramandati oralmente, di generazione in generazione, dove si raccontano le pene e le lotte di generazioni stremate dalla fatica ma pronte alla ribellione; dove si canta «la spaventosa miseria di un'umanità fuori dal tempo» che proprio allora sembrava affacciarsi, per la prima volta, sulla scena della storia. Tutto sembrava andare in una direzione precisa: Hikmet sarebbe diventato il cantore della rivoluzione turca prima, e del governo di Ataturk poi. Invece tutto andò in una direzione ben diversa. Ben prima che Ataturk diventasse il nuovo capo turco, riconosciuto all'interno e all'estero, Hikmet aveva preso la strada un'altra volta. Direzione, sempre il popolo. Ma questa volta era quello russo.
 
«Era necessario, a quanto pare, che passassi nell'Unione Sovietica. Era la fine del 1921. Fui mille volte più stupito, e sentii un amore e un'ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto, in quel 1921-22, una carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e una immensa speranza, un'immensa gioia di vivere, di creare. Ho scoperto tutta un'altra umanità». Quell'inverno la neonata Unione Sovietica conobbe una delle più spaventose carestie della sua storia, che arrivava immediatamente dopo la guerra, la rivoluzione e la guerra civile. Il popolo russo venne provato al di là dell'immaginabile, e spronato a resistere al freddo alla fame alle morti da una parola sola: avvenire, là dove brillava il sole che Marx aveva acceso e Lenin faceva balenare agli occhi di una popolazione affamata ed esausta. Hikmet andò in Russia senza neppure sapere che c'era stata la rivoluzione, anche se aveva già scoperto il comunismo attraverso alcuni scritti di Marx. Lui voleva andare in Germania, aveva sentito parlare della Luxembourg e degli spartachisti e ne era rimasto profondamente colpito; del resto, Ataturk era dichiaratamente antisovietico, aveva messo fuori legge il minuscolo partito comunista turco e fatto uccidere quindici dirigenti (sono le Quindici ferite cui Hikmet dedicò un canto); lui stesso si sentiva in pericolo. Così, clandestinamente (e la clandestinità doveva diventare la cifra della sua vita), passò il Mar Nero coi contrabbandieri, sbarcò sul suolo sovietico e alla fine arrivò a Mosca. Ben presto conobbe gli intellettuali della rivoluzione, Majakovskij e Esenin in testa, e si accese di passione politica più consapevole e mirata, scrivendo articoli contro l'arte pura e versi ispirati a immagini della civiltà industriale e della tecnica. Quell'appartenenza ideologica e politica, Hikmet non l'abbandonerà più. «Sono uno scrittore impegnato - dichiarò molto più tardi - credo che ogni scrittore, anche se molto ermetico, anche se dichiara di non essere impegnato, non può non essere tale. È solo una questione di gradi, di coscienza. L'uomo ama, l'uomo mangia, l'uomo ha fame, l'uomo ha paura, l'uomo lotta, l'uomo spera; allora, se io scrivo per le speranze dell'uomo, o per l'amore dell'uomo, o per la sua fame, o per la sua nostalgia, scrivo tutto questo da un determinato punto di vista. E non si può scrivere da un punto di vista astratto, si scrive sempre da un punto di vista concreto. Ogni scrittore, dunque, è impegnato. Io sono marxista, sono comunista». Per questo non è possibile parlare della poesia di Hikmet senza parlare della sua fede politica. Sarebbe mancargli di rispetto, perché lui non l'ha mai rinnegata, pur pagandola molto cara.
 
Cominciò a pagare nel 1924, quando rientrò in Turchia e, condannato per la sua attività politica a quindici anni di carcere, scappò di nuovo a Mosca, dove terminò gli studi universitari e continuò l'attività poetica (sempre rigorosamente in turco, nonostante parlasse ormai perfettamente il russo) e la frequentazione degli intellettuali sovietici. Nel 1928 tornò clandestinamente in Turchia e lì rimase ventitrè anni, in bilico perenne tra la clandestinità e la galera. Diciassette di quei ventitrè li passò in una cella (ma complessivamente il governo turco riuscì ad appioppargli cinquantasei anni di prigione) dove forse sarebbe morto se il suo caso non fosse stato portato all'attenzione di tutto il mondo da una campagna mondiale promossa da Tristan Tzara. Pablo Neruda, divenuto amico di Hikmet, ne raccolse una testimonianza: «mi ha detto che è stato costretto a camminare sul ponte di una nave fino a sentirsi troppo debole per rimanere in piedi, quindi lo hanno legato in una latrina dove gli escrementi arrivavano mezzo metro sopra il pavimento... Il mio fratello poeta ha sentito le sue forze mancare: i miei aguzzini vogliono vedermi soffrire. Resiste con orgoglio. Comincia a cantare: all'inizio la sua voce è bassa, poi sempre più alta fino a urlare. Ha cantato tutte le canzoni, tutti i poemi d'amore che riesce a ricordare, i suoi stessi versi, le ballate d'amore dei contadini, gli inni di battaglia della gente comune. Ha cantato qualsiasi cosa la sua mente ricordasse. E così ha vinto i suoi torturatori». Eppure, nonostante i ripetuti arresti e processi, Hikmet non smise di scrivere - quello mai, e se gli toglievano carta e penna elaborava le sue poesie a memoria e le faceva imparare a chi andava a trovarlo - e riuscì persino a far pubblicare qualcosa in patria. Le prime pubblicazioni (835 righe, La Gioconda; Si-Ya-U; Varan-3; 1+1=1) mostrano fin dal titolo l'influenza del futurismo russo, e difatti gli valsero un arresto per propaganda comunista; quella volta venne liberato quasi subito, ma la successiva, con la raccolta Un telegramma venuto di notte, non gli andò altrettanto bene: condannato a morte, la pena fu in seguito mutata a cinque anni di carcere poi abbreviati da varie amnistie. Ma dopo il 1938, e fino al 1950, le porte del carcere restarono chiuse: per l'uomo, non per la poesia. Misteriosamente, i versi di Hikmet sembravano aggirarsi per la Turchia e per l'intera Europa sospinti dalle ali del vento: ne trovarono fino in Spagna, nelle tasche dei marinai che combattevano per la repubblica durante la guerra civile: e gli valse un'altra condanna. Persino Ataturk, l'amico di un tempo, il persecutore di sempre, si faceva leggere i suoi versi e sospirava «è il più grande poeta turco. Peccato che sia un avversario politico». Allo scoppio della seconda guerra mondiale la Turchia si allineò alla Germania hitleriana, pur senza entrare in guerra, e le condizioni della prigionia di Hikmet peggiorarono ancora, con mesi e mesi di segregazione; peggiorarono tanto da causargli un infarto. A lui, l'uomo della curiosità e della scoperta, non davano altro da leggere che la Bibbia e il Corano; e lui, per tutta risposta, inventò un dramma satirico con le fonti che aveva a disposizione: «sono il solo scrittore marxista - scherzava - che abbia scritto un dramma di argomento biblico basandosi rigorosamente sulle sacre scritture». Ma il frutto vero di quegli anni furono i Paesaggi umani, un poema grandioso, in più di settantamila versi, in cui, partendo dalla sua esperienza individuale e con cerchi concentrici sempre più ampi, giungeva a descrivere l'intera Turchia e a ipotizzare le prospettive generali dell'umanità, nel tentativo di raccontare e raccontarsi in mezzo al paesaggio degli altri uomini, senza finzioni, senza nascondersi: «L'uomo è quasi un'erba / il vento è il santo patrono delle erbe». Il vento che Hikmet poteva solo ricordare, chiuso dietro le grate della cella; il vento che continuava a disperdere i suoi canti per il mondo (era già tradotto in moltissime lingue); il vento che vivifica e rende trasparenti i destini. Buona parte di quel poema è andato perduto, distrutto dalla polizia turca.
 
Allo stremo delle forze Hikmet iniziò uno sciopero della fame, nel 1949, per protestare contro le disumane condizioni carcerarie che pativa sulla carne da più di dieci anni. Intanto il movimento di opinione a favore della sua causa diventava sempre più rumoroso, proteste al governo turco giungevano dagli intellettuali di tutti i paesi. Non che le proteste degli intellettuali abbiano mai avuto un peso politico consistente, ma ci sono momenti in cui per questioni di immagine e di diplomazia internazionale un governo sente di dover salvare la faccia. Così Hikmet venne scarcerato nel luglio del 1950. Fuori, a casa, trovò la moglie Munevér, che in turco vuol dire "la saggia", che lo aspettava, così come aveva fatto tanti anni. A lei Hikmet aveva dedicato, dal carcere, poesie di struggente, estenuante bellezza. Poesia dove la donna amata riassume in sé ogni cosa, il suo paese, la sua lotta, la passione per la libertà e la giustizia, la speranza, la vita. Pur essendo profondamente sensuali, cariche di allusioni erotiche, le poesie d'amore di Hikmet non si risolvono in un delirio morboso dei sensi, in un'ossessione romantica, in un appannamento del volere e della ragione in favore dell'esaltazione dei sentimenti; si realizza in quei versi una perfetta fusione tra amore e impegno: «è il punto - ha scritto Joyce Lussu, la scrittrice italiana cui si devono le traduzioni dal turco - di un altissimo equilibrio raggiunto: l'amore è inserito nel contesto della vita e impegna tutta la sua umanità, la donna è una donna ma anche un essere umano completo, un amico e un compagno di lotta oltre che un'amante, non solo immagine, stimolo o oggetto». Le poesie d'amore di Hikmet sono forse le più note; sono quelle che vengono in mente quando si desidera parlare d'amore, quando si cercano parole che diano spessore e profondità all'intensità che vibra, quando si sente il bisogno di prendere il proprio amore e farne sentire all'altro tutto il peso, il calore, la consistenza, la rabbia e il desiderio.
 
Ma il tempo che Hikmet passò a casa, con la sua donna, fu breve. Perennemente e pesantemente controllato dalla polizia, con la spada di Damocle di un nuovo arresto sospesa sulla testa, con una salute ormai malferma - nonostante avesse ancora l'aspetto di un leone, alto e robusto, capelli biondo-rossi e occhi chiari - non poteva rischiare di finire nuovamente in carcere. Pochi mesi dopo la sua liberazione prese, da solo e di nascosto, la via dell'esilio. La moglie e il figlio che doveva nascere non poterono seguirlo per dieci anni. Di nuovo la separazione, lacerante, dalla casa, dalla famiglia, dal paese che amava senza speranza; di nuovo sulla strada. Strada lunga e cosmopolita, questa volta. All'inizio Hikmet tornò a Mosca, la sua seconda patria, dove aveva conosciuto Lenin che era stato per lui il padre ideale e il rivoluzionario esemplare. Trovò la città e l'Unione Sovietica molto diverse; erano gli ultimi anni di Stalin, il terrore pesava ancora sulle teste di tutti, il conformismo imposto e accettato era un abito mentale che si assumeva fin da piccoli, pena la prigionia o peggio. Hikmet osservò, valutò, scrisse e descrisse tutto ciò che vedeva in alcuni lavori teatrali. Uno di questi terminava, coraggiosamente, con la voce fuori campo dell'autore: «L'Unione Sovietica è davvero la mia seconda casa, e io amo molto il suo popolo. Appunto per questo devo agire come agirebbe un qualsiasi uomo d'onore. Se vedo che in questa casa s'è infiltrato un serpente, è mio dovere schiacciarlo». Poi viaggiò moltissimo, nell'Europa dell'Est e dell'Ovest; venne in Italia diverse volte, andò a Cuba (cui dedicò il poemetto La conga con Fidel); fu a decine di conferenze stampa, interviste, congressi e convegni, sempre portando la sua testimonianza di uomo prima che di uomo di partito. Durante una delle tante uscite pubbliche, dopo alcune domande che sentì come provocatorie, all'improvviso divenne rosso di collera: «Voi vorreste insegnare la libertà dei vostri padroni - gridò - a me che l'ho provata nel corpo e nello spirito? Io sono stato cacciato dalla mia patria soltanto perché ero reo di amare la verità e di scriverla nelle mie poesie». Prese fiato, si fece portare un bicchier d'acqua e concluse: «Mi piace bere l'acqua così fredda, tutta d'un fiato perché è uno dei desideri che ho patito di più in carcere. Mi dà la certezza, un bicchiere d'acqua bevuto così, di essere libero». A proposito di semplicità e potenza.
 
Negli ultimi dieci anni di esilio e di vita Hikmet scrisse molto, senza darsi troppa pena della perfezione formale. La poesia era sempre stata, per lui, una modalità naturale della comunicazione, un semplice strumento del colloquio tra uomini. La poesia era sì ricerca individuale, ma si completava solo nel momento in cui diventava un mezzo per essere con gli altri e in mezzo agli altri: ed è forse per questo che le sue poesie, benché tradotte, "passano" (per usare un termine molto in voga) immediatamente dall'autore al lettore. Passano, non trascorrono. «Penso - diceva - che la poesia debba essere innanzi tutto utile... utile a tutta l'umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona. Utile a una causa, utile all'orecchio... Voglio essere capito e letto dal maggior numero possibile di persone, ai più vari livelli di cultura, nei più diversi stati d'animo, dalle prossime generazioni. Voglio essere traducibile per i popoli più diversi. Credo che la forma sia perfetta quando dà la possibilità di creare il ponte più solido e comodo tra me, poeta, e il lettore. Detesto non solo le celle della prigione, ma anche quelle dell'arte, dove si sta in pochi o da soli. Sono per la chiarezza senza ombre del sole allo zenit, che non nasconde nulla del bene e del male. Se la poesia regge questa gran luce, allora è vera poesia». Quindi, scriveva, e continuava a scrivere tanto. Regalava i suoi versi, non li conservava, alzava le spalle se una traduzione era malfatta. Si interrogava sulla morte, che non era più quella eroica che sarebbe potuta essere, un gesto estremo di coraggio e fede; no, era una morte anagrafica e fatale, quella che ti può cogliere così, banalmente, perché il cuore non regge e il tempo è finito. Ne scriveva come sapeva fare lui, con semplicità: «Non ho paura di morire / ma morire mi secca / è una questione di amor proprio». L'ultima poesia scritta da Hikmet si intitola Il mio funerale. Due giorni dopo, il 3 giugno 1963, uscì dalla porta del suo appartamento di Mosca per andare a comperare il giornale. Ma non arrivò mai all'edicola: il cuore si fermò sulla soglia. Semplicemente.
 
Quest'anno, per il centenario della morte, il governo restituirà la cittadinanza a Nazym Hikmet. L'Unesco ha deciso di dedicargli un programma di iniziative per tutto il 2002, a partire da una mostra documentaria proprio a Istanbul, nella sua Turchia.
 
a cura di Olivia Trioschi
Per leggere alcune poesie di Nazym Hikmet  
 
 
 

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