LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
Vladimiro Furlan
Ha pubblicato il libro
Vladimiro Furlan - Ave Maria
Una donna
una madre
una candela
nel vento del tempo

 
  
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
 
15x21 - pp. 288 - Euro 15,00
 
ISBN 978-88-6037-396-0

 
In copertina fotografie dell'autore
 

 
Pubblicazione realizzata con il contributo de
IL CLUB degli autori in quanto l'autore è finalista nel concorso letterario «Il giro d'Italia delle Poesie in cornice» 2006
 
Prefazione
Incipit

Prefazione
 
 
Non v'è altro modo per descrivere la mia emozione nel leggere queste pagine di Vladimiro Furlan: la pura meraviglia. È stato come inoltrarmi in un mondo che ha visto i suoi protagonisti immergersi in un oceano d'umanità, un mare pulito e trasparente dove ci si può ancora specchiare, dove è ancora possibile scorgere chiaramente ciò che è depositato sul fondo: e l'acqua scorre seguendo il suo ciclo naturale, accompagna i sentimenti autentici, le azioni e le scelte, gli sguardi e i sorrisi, le tenerezze e le amorevoli attenzioni, e poi, infine, inonda i ricordi che diventano schegge d'esistenza sempre pervase da un amore inattaccabile dal tempo.
Forse ciò che mi ha più impressionato è stata la continua verifica che le parole conservano ancora un profondo significato.
Le stesse parole di Vladimiro Furlan che provengono dal luogo della memoria, dalle pulsioni del cuore di un figlio che innalza il suo canto amorevole per la madre: e tutto ciò che leggerete in queste pagine è, solo ed esclusivamente, un dono d'amore offerto senza remore, senza cercare di abbellire con artificiose invenzioni la semplice vita che scorre via, come sabbia finissima che scivola dalle mani anche se cerchiamo disperatamente di trattenerla.
Come a far tornare la voglia di vivere ad una diversa velocità, come ad assaporare ancora il lento fluire del tempo, tenendo per mano coloro che si amano, camminando e chiacchierando del più e del meno, nel più bel giardino che si possa immaginare mentre il vento del Nord scompiglia i capelli.
In ogni essere umano v'è la necessità di lasciare un segno, una traccia del proprio passaggio, una testimonianza che renda il massimo onore a coloro che ci hanno amato, ad una madre che ha offerto la sua vita per regalare tutto ciò che rendeva bello il suo "essere" nel mondo.
È evidente che Vladimiro Furlan, come figlio e poi come Uomo, ha sentito il bisogno vitale, l'insopprimibile "necessità fisica", come la definisce egli stesso, l'inderogabile desiderio di riportare una parte della sua vita su questi frammenti di carta, incidendovi in modo chiaro ciò che ha vissuto, sentito, amato e sofferto affinché il ricordo potesse rimanere vivo e pulsante, quasi a fermare nel tempo, dopo sette mesi dalla scomparsa della madre, quello stesso ricordo.
Ma non v'è mai la parola che segna la "fine di tutto" quando il ricordo è così intenso perchè significa che v'è qualcosa che non subisce le ingiurie del tempo, una sostanza invisibile, l'Amore, che non conosce limiti di tempo né di spazio.
La conservazione della memoria da parte di Vladimiro Furlan conduce alla rinascita dei giorni d'una vita vissuta intensamente e pienamente.
Una sorta di prodigio dell'arte che fa di una donna, di una madre, una figura eterna.
La volontà di Vladimiro Furlan è di rimanere "ancorati alle radici del proprio tempo": amare chi sa e vuole amare, riuscire a risollevarsi dalle sconfitte solo con la forza di volontà, con orgoglio, lottare per ciò che si reputa giusto: essere umili e camminare a testa alta, con la dignità d'un vero uomo che porta con sé la serenità d'animo, la consapevolezza di essere un uomo unico che vive nella cultura dell'amore. Per non dover rimpiangere di non aver avuto il tempo di regalare un gesto d'amore, una carezza ad una figlia o un figlio, un sorriso a chi soffre e patisce, una parola d'amore a chi è al nostro fianco.
Ecco allora che questo affettuoso omaggio all'adorata madre Maria riveste un duplice significato perché oltrepassa la semplice valenza d'un ricordo e diventa la storia di uomo, della sua famiglia, raccontate con garbo e delicatezza: la madre "irriducibile romantica" e sempre pronta a ridere e scherzare, il padre molto diverso e austero, l'educazione ricevuta che riportava tutto a "onestà, sincerità, amore", i quattro figli da seguire, la voglia e la capacità di lavorare senza lamentarsi, le occasioni nelle quali Vladimiro aiutava la mamma a fare mille cose insieme con la gioia di farle, il croccante fatto in casa, le favole che lei raccontava durante le sere magari dopo aver sgranato le pannocchie, la sua gioia nel vedere i figli crescere sani, la fede incrollabile, la forza travolgente dell'amore che ha accompagnato lunghi periodi di sofferta solitudine e poi la grave malattia.
 
* * *
 
Le parole non sono forse un modo per riportare su bianchi fogli ciò che siamo, ciò che abbiamo vissuto, ciò che vorremmo fare domani.
V'era un poeta che affermava "la poesia, come la vita, non sono altro che un incantamento continuo": come a trovarsi a vivere sempre con occhi nuovi, ad osservare le vicende umane sempre con un nuovo entusiasmo quasi a voler rigenerare la vita attraverso la visione poetica, l'estasi della scrittura, come a sconfiggere la morte, l'abisso, la fine di tutto nelle tenebre: non è forse questo l'intento, il traguardo anelato.
L'estrema sensibilità e l'amore profuso a piene mani da Vladimiro Furlan creano l'immagine d'un uomo autentico, capace di recuperare la complessità del vivere odierno senza lasciarsi stritolare dalle apparenze, dall'Avere che domina sull'Essere, attento a dare il giusto valore a ciò che è fondamentale e veramente importante nell'esistenza. La vita che deve essere una miscela di sentimenti, emozioni, entusiasmi, suggestioni, sogni, visioni e continui incantamenti. Ecco il significato profondo dell'esistere, una sorgente a cui attingere, a dispetto dell'apparire che nasconde il vuoto. E scrivere é sconfiggere il vuoto.
Anche Vladimiro Furlan, come me, non guarda la televisione, non utilizza internet per conoscere il mondo ma cerca di viverlo sulla propria pelle, non rincorre come un demente l'ultimo modello di cellulare, e riesce a preservare buona parte del "suo" tempo da dedicare a chi veramente desidera un contatto emotivo, fa dell'ospitalità per un amico, anche solo di passaggio, un momento unico di gioia, di condivisione d'un po' di tempo magari solo per fare quattro chiacchiere sorseggiando un bicchiere di Picolit, vino da meditazione per eccellenza.
Allo stesso modo, dopo aver letto questo libro, scritto in un mese, non si può far altro che meditare.
Forse non rimane che rammentare l'affermazione di Socrate quando passeggiava nel grande mercato di Atene: "di quante cose posso fare a meno".
 

Massimo Barile

 

 

Dedica
 
 
Dedico tutte le pagine di questo libro a mia madre, "Ave Maria", e a tutte le donne, mamme e no, che col loro lavoro, fatto di piccoli, significativi gesti quotidiani, sono riferimento ed esempio per la maggior parte dell'umanità. Soltanto se le donne prenderanno la barra del timone, forse, gli eventi miglioreranno il loro corso.
Più dei padri, le mamme possono cambiare l'evolversi della storia di questa nostra civiltà.
Una donna, una madre, credo, ha in sé un patrimonio negato al mondo maschile. Le femmine, in genere, sono molto più dotate.
Per questo motivo, secondo me, all'universo femminile compete una maggiore responsabilità in ogni campo si manifesti l'azione umana.
Le donne, come mia madre, abbiano il coraggio e la determinazione che serve a diventare protagoniste autentiche del proprio tempo allo scopo di migliorare questo trasandato, deluso genere umano.
La smettano, certe donne, di atteggiarsi a scimmiette, a pupattole che per forza devono compiacere certi tangheri puzzolenti per il solo fatto che questi hanno soldi o potere.
Le donne, le mamme, per favore, dispieghino tutti i loro strumenti, e li usino non dico per salvare l'umanità, ma tentare di edificare il migliore dei mondi possibile.

 
Nota dell'autore
 
 
 
Mai avrei immaginato che un giorno avrei scritto qualcosa su mia madre. Tutto è maturato all'improvviso. Ho percepito la smania sette mesi dopo la sua morte, avvenuta il venti aprile duemilacinque.
In meno di trenta giorni ho terminato il libro.
Tutte le parole che ho usato abitano la memoria del cuore; io non ho fatto altro che trascriverle con la matita sopra un foglio bianco.
Intenzionalmente, non ho mai riflettuto su ciò che ho annotato: mi sono affidato completamente alla voce del sentimento.
Non ho effettuato ricerche relative a date, persone, cose, perciò posso essere incappato in limiti ed errori: domando scusa per questa mia trascuratezza; nondimeno tutti gli avvenimenti corrispondono alla verità.
Sono dell'idea che se avessi stilato questo libro in un modo più confacente ai canoni letterari, forse, avrei ottenuto un migliore impatto emotivo: ma non era questo l'intendimento.
Più che dello spirito, la mia è stata una necessità fisica, materiale, di scaricare un'emozione che mi strozzava il respiro.
Ora non sono guarito di questo tremendo attaccamento, tuttavia l'averlo reso pubblico un poco mi consola.
 
 
 

 
Infiniti ringraziamenti a:
 
Don Luciano Mandelli, anziano professore e sacerdote nella mia città.
I suoi suggerimenti mi hanno confortato.
 
Clara e Arturo Tremolada che hanno realizzato la copertina del testo.
 
Renato Busi che ha trasformato in libro un manoscritto illeggibile anche per me.
 

Ho letto questo libro inizialmente con presuntuosa attenzione alla forma descrittiva e soprattutto ortografica e grammaticale, ma poi attirato dalla sostanza dei contenuti e dalla plasticità della figura della mamma, sono stato incantato di fronte a una persona degna di essere proposta all'ammirazione.
Sono rimasto dolcemente ammaliato dal primo all'ultimo capitolo.
 

don Luciano Mandelli


 
"La freschezza e la vivacità dei ricordi
più lontani è segno che c'è qualcosa
in noi che non invecchia".
 

Arthur Schopenhauer

 

 
 
(Forse è l'amore che mai muore?)
 

V. Furlan

 


Ave Maria
Mia Madre: una donna
che mai ho osservato dal buco
della serratura.

 
Introduzione
 
 
 
La bellezza sfolgorante dei fiori, la personalità unica di certi alberi; albe radiose e coralli fiammeggianti a sera, e molto altro ancora.
La nascita di un bambino, il primo volo di un uccellino, il sorriso di una madre, di un amico.
La potenza travolgente della natura, la bravura di tanti esseri umani dotati di gran cuore e di mani da celebrare.
E molto altro ancora.
Tutto vive. Ogni singola realtà fa parte della vita, contestualmente ha una esistenza propria.
L'insieme esprime splendore e armonia, tuttavia se rimaniamo assenti, distratti innanzi a tanta magia, è come se l'immensa ricchezza in cui siamo immersi non esistesse affatto.
Probabilmente la nostra vita non è che il viaggio all'interno di un sogno: una illusione che alcuni giorni ci strazia e altri ci consola.
Ma, per favore, all'interno di questo mondo che ci ha coinvolti cerchiamo la maniera di mantenere i sensi attenti, sempre svegli.
Sgraniamo i bulbi oculari, dilatiamo tutti i recettori che abbiamo a nostra disposizione.
E il dì che ci troveremo davanti a un fenomeno che ci offre gioia non tratteniamolo soltanto per noi: facciamolo conoscere.
Se passiamo innanzi a un capolavoro dell'uomo o del creato siamo inclini a indicare con l'indice l'opera che delizia; allo stesso modo, se abbiamo la fortuna di incontrare un uomo, una donna, un vecchio o un bambino fuori dal normale, facciamolo sapere al mondo.
Può darsi che per gli altri si tratti della normalità, ma se non ne parliamo non lo sapremo mai. La verità, forse, emerge dal confronto. Si da il caso che tutto passa; ogni cosa nasce, cresce, svanisce: così a noi pare.
Tuttavia qualcosa rimane, e non si tratta di scia di lumaca, restano simboli, insegnamenti, esempi del cielo, della terra e degli esseri umani.
Però da quando l'umanità ha smesso di trasmettere le sue conoscenze e le esperienze per via orale, se pretendiamo che resti qualche traccia del nostro passaggio, è necessario che le azioni vengano scritte.
Il tempo che passa non ci vede, non fa caso a noi né a ciò che facciamo, sta a noi, che abitiamo dentro il tempo, agire come riteniamo sia corretto: scrivere, descrivere tutto ciò che ci incanta.
Per noi, per il nostro esclusivo uso e consumo, con lo scopo, qualche volta, di rendere meno pesante il peso che ci schiaccia. Sì, se confrontiamo il nostro macigno con quello degli altri, spesso il peso che ci opprime diventa un disagio più sopportabile.
Scrivere, far conoscere la vita di qualcuno che c'è stato, è importante, diversamente, se non scritta, è come se per l'umanità non fosse mai esistita.

 
 
Mondi paralleli
 
 
 
Strano paese, il nostro. Di giorno, ma anche di notte, emana fascino e pollini d'ispirazione. Bellissimo all'inverosimile, incanta per la varietà del suo panorama geografico, culturale, enogastronomico.
A percorrerlo in lungo e largo non ci si annoia mai perché è sufficiente spostarsi di pochissimi chilometri, da un villaggio all'altro, per scoprire dettagli assenti altrove.
Laghi, spiagge, colline e maestose montagne, flora e fauna, clima che sazia chi cerca il caldo e il suo contrario, arti e architettura.
L'Italia è una landa meravigliosa; e su questa terra accogliente ci sono decine di milioni di individui che, ahimè, non sempre la meritano.
Alcuni sono fantastici, altri un po' meno; qualcuno bisognerebbe segregarlo e gettare la chiave (non scarto la possibilità di appartenere a questi ultimi a causa del libro che ho scritto per dissipare l'emozione di un particolare travaglio interiore).
In Italia ci sono persone che possiedono patrimoni immensi: conquistati oppure ereditati, capitali amplificati e qualche volta distrutti.
C'è chi detiene primati economici, chi ha navi e aerei personali, taluni hanno bisogno dell'auto per compiere il perimetro dei loro possedimenti; palazzi e castelli sono la residenza di famiglie divenute ricche in tanti modi, meritevoli gli uni, un po' cialtroni gli altri.
E poi, nel nostro paese, ci sono anche quelli, tanti, che hanno enormi difficoltà a mettere insieme il pranzo e la cena tutti i dì.
I lavoratori precari, che non hanno accesso ai sogni né alle speranze, è impossibile contarli perché troppi si vergognano di dichiarare la loro vera condizione. Dal Veneto alla Sicilia, ci sono molti agricoltori che per il solo fatto di amare la terra, più faticano, maggiori sono i debiti che riescono ad accumulare. Milioni di giovani, intanto che giocano col computer, senza saperlo, hanno il macigno dell'incertezza che cala sulle loro spalle.
Senza indossare occhiali particolari questo è ciò che vedono i miei occhi in questi anni.
C'è in atto una nefasta deriva di costumi e di assurdi consumi, innescata da un po' di anni dall'evento dei canali commerciali della televisione, che non credo ci farà approdare all'isola della felicità.
Ma, intanto, che fare?
"L'ha detto la televisione!"
All'interno di questa tumultuosa realtà le vecchie generazioni si adattano meglio che possono, soffrono, ma spesso riescono ad assuefarsi. E i giovani? Partecipano al banchetto senza interrogarsi, senza preoccuparsi: così sembra.
La mia non è un'accusa, è una constatazione; probabilmente non potrebbe andare diversamente: non so.
Oggi la regola a me pare sia quella di non avere regole.
La gente non comunica più. Anche l'amore è fatto di spot via e-mail: è l'epoca dell'effimero e del virtuale. Eric Fromm, quando io ero giovane, scriveva "AVERE O ESSERE?" oggi è importante un'altra cosa: apparire.
Nella civiltà contadina da cui provengo c'era tanta fatica.
Persone, animali e ambiente vivevano in simbiosi.
La natura dettava le leggi e imponeva i ritmi: ora è tutto sottosopra: fragole a Natale e Capodanno, per esempio, la dicono lunga.
Ma ciò che maggiormente mi brucia è che abbiamo perso per strada la capacità di stare insieme: l'effetto tribù.
La gente non sa, non desidera comunicare col prossimo.
Quando io ero bambino vedevo che gli adulti, tutti, si recavano al lavoro nei campi oppure nelle botteghe.
Vecchi e bambini presidiavano la casa, la stalla e gli animali del cortile. I nonni dialogavano, si prendevano cura dei piccoli; per la verità, in molti casi, non si capiva se era il vecchio ad accudire frotte di piccoli oppure il contrario.
Il nonno, con le parole e con l'esempio aiutava la crescita dei nipoti. Quando rientravano i genitori dei bambini non hanno mai avuto difficoltà a intendersi coi propri figli.
Bambini, adulti e vecchi hanno sempre usato il linguaggio del medesimo libro: era, in quei tempi, una catena senza anelli spezzati.
In questi giorni le famiglie sono frantumate, polverizzate; non giudico se è meglio o peggio di allora, non è questo il punto: la questione riguarda il fatto che gli adulti non sono più in grado di comunicare né con i propri figli, tantomeno coi genitori.
Inoltre, a me pare che nessuno abbia tempo. Ma dove sarà finito il tempo se tutti dichiarano: "Non ho tempo. Ho molte cose da fare; purtroppo non ci riesco a mettermi in pari. Magari ci vediamo più avanti: ci sentiamo". La cultura dell'accoglienza, poi, merita di essere valutata attentamente.
Qualche decina di anni fa un ospite era sempre una nota gradita, quasi attesa, era una sferzata di vita.
Per un amico, un parente, un vicino di casa, la porta era sempre aperta, giorno e notte.
In caso di emergenza c'era sempre un piatto di cibo disponibile e una sistemazione; in casi estremi perfino il proprio letto veniva messo a disposizione per aiutare qualcuno.
Di questi tempi, specialmente in alcune aree del Nord, questa disciplina è una materia in disuso.
Il conoscente, l'amico, "il fratello", meno si fa vedere nei paraggi, meglio è!
Anche noi con un consanguineo, quando si avvicina l'ora dei pasti è meglio affermare che si è impossibilitati a fermarsi a mangiare; il parente trarrà un lungo sospiro di sollievo.
Se poi, per caso, ci si trova a casa di questi nell'ora in cui il sole reclina i suoi raggi e noi non sappiamo dove recarci per ripararci dalla notte, vedremo scomparire il sorriso dal volto di chi abbiamo onorato con la nostra visita.
Saremo fortunati se il parente stretto in questo caso ci suggerirà l'indirizzo di un albergo.
Se non sei considerato un personaggio importante, se non offri regali sostanziosi, talvolta c'è il rischio che neanche ti facciano entrare nella loro proprietà.
Con l'evento delle aree video-sorvegliate il padrone di casa è in grado di verificare chi suona alla sua dimora, perciò gli è molto facile negarsi.
Alcuni ti fanno entrare nella loro abitazione; ti impongono di pattinare con i feltri sotto le scarpe per non rovinare la superficie del pavimento di marmo o delle piastrelle a cui è stata applicata la cera.
Altri ti fanno ammirare le loro cose sapendo che a te non importa un fico secco.
Ti rivelano la bontà dei frutti bellissimi appesi ai rami degli alberi situati accanto all'edificio. Se con te hai dei bambini, ai piccoli cascherà il cuore dal desiderio di ricevere un piccolo dono: in ricordo di una visita allo zio, all'amico di famiglia; ebbene, in questo caso, nemmeno ti viene consegnato l'indirizzo del fruttivendolo dove puoi raddrizzare le aspettative dei pargoli.
Se poi si è i parenti poveri che giungono da molto lontano, in questo caso aprono il cancello della proprietà, ma ti fanno accomodare nella taverna. Non ti fanno vedere la casa perché manca loro il tempo.
Ti offrono un caffè seduto a una tavola situata accanto alle loro prestigiose automobili, caffè al benzene: non ti dico!
Questo, più o meno, è il riassunto telegrafico dei giorni che stiamo attraversando visti dal mio osservatorio, dalla mia scarsa intelligenza e coscienza; dalle mie esperienze.
Io ho sempre moltissimo tempo, soldi e salute da dedicare a me stesso e al mondo che ho intorno.
Non ho mai posseduto un televisore, non ho il computer e confesso che non sento la necessità di avere un telefonino: forse è per questo che mi rimangono sostanze da dedicare ad altro? ad altri?
Ogni tanto squilla il telefono che ho in casa. Si tratta di un vecchio apparecchio incastonato nel mobile della biblioteca; quelli verticali, con la rotella dotata dei fori per le dita, per intenderci. Dicevo, qualche volta suona il telefono, è la ditta "Telecom" che insiste per sostituire il mio impianto. "Mi va bene così" rispondo io.
E questi: "Ma signore, dal suo apparecchio non può far partire messaggi particolari né prenotazioni dirette a Enti e Ospedali. È tutto gratis. Veniamo lì e in dieci minuti togliamo il disturbo; in cambio lei si ritroverà in casa il nostro ultimo modello".
Da qualche anno la società dei telefoni non mi dà tregua.
Fino a questo punto non c'è nulla di cui meravigliarsi, oso affermare.
Inizio, invece, a dare segnali di inquietudine tutte le volte che tramite il telefono mi interpellano aziende concorrenti di Telecom.
"Con noi telefona gratis". dice una società.
"Noi altri offriamo vantaggi mai visti" propone un'altra.
"Sono un cavernicolo, felice di fare a meno delle vostre offerte" rispondo io.
"Ma come sarebbe, che significa cavernicolo?" mi domandano le voci che mi hanno appena lanciato la loro speciale proposta.
"Sì, sono un cavernicolo" replico io.
"Ma osservi bene, non un cavernicolo moderno, cioè quello con la pelle d'animale e la clava: io sono rimasto ancora al femore di bue". Giuro, questi sono i miei dialoghi con chi mi propone alcune utili modernità!
Io ho avuto i miei primi modelli e maestri, genitori, nonni, vicini di casa, che con molta pazienza e il loro esempio mi hanno insegnato a distinguere l'utile dal superfluo: forse io qualche volta esagero nel mettere in pratica il loro ammaestramento: forse che sì, forse che no. Oppure ho preso troppo sul serio le affermazioni di Socrate il quale, quando passeggiava con gli amici nello sterminato mercato di Atene, diceva: "Ma guarda un po', è incredibile il numero delle cose di cui posso fare a meno".
Prima di andare in pensione, per condurre al meglio la mia professione ero obbligato a stare continuamente incollato al telefono e digitare sulla tastiera.
Senza il computer sulla scrivania non sarei riuscito a dialogare con gli uffici tecnici tantomeno con clienti e fornitori.
Tuttavia, mai ho subito il fascino di questi strumenti: appena ho potuto sono ritornato alle mie origini, e ci godo. Sono rimasto ancorato alle radici del mio tempo.
Per me ha senso il rumore dell'acqua di un torrente; detesto quello delle automobili e dei congegni meccanici anche quando si rilevano utili. Amo la fatica della strada in salita e non so per quale motivo mi fa pena chi guadagna le alte vette con l'elicottero.
Amo chi ama; mi piace un po' meno chi desidera, a tutti i costi, essere amato.
Se brucia la mia casa non soffro per quello che non c'è più, ma mi consolo col poco o tanto che rimane.
Ogni mia sconfitta m'ingegno per trasformarla in una vittoria. Non sempre ci riesco, ma io ci provo, e ci riprovo.
Dopo ogni battaglia che ho perso non mi avvilisco, ma persevero a condurmi meglio che riesco all'interno dei miei giorni.
Ogni sconfitta mi rende non più contento, al contrario, ma più tenace.
"Porca miseria" dico a me stesso, "anche questa volta ho perduto: però ho combattuto".
Vincere o perdere talvolta non è che un punto di vista; ciò che è davvero utile, importante, è combattere, alla morte se l'idea è tale da meritare il sacrificio estremo.
Io non m'interrogo mai, non mi domando perché sono fatto in questa maniera. Ognuno di noi è un pezzo unico diverso dal resto del consorzio umano. Il servizio migliore che un essere umano possa fare a se stesso è accettarsi. Migliorare un po' allo scopo di piacersi un po' di più è comprensibile, ma fondamentalmente soltanto il giorno che ci accetteremo per ciò che siamo, per come siamo, vinceremo la nostra battaglia più importante.
La scienza sostiene che l'uomo è il risultato del patrimonio genetico più il contributo ambientale.
Se le cose stanno davvero così, se si deve fare la somma aritmetica del percorso della propria esistenza per comprendere chi si è, come siamo e come funzioniamo, allora, mi si chiarisce la vista dei sentimenti.
Come tutti, al momento del concepimento ho ricevuto in dote ventiquattro cromosomi dal papà e ventiquattro dalla mamma.
Poi, nell'età della formazione, nel periodo della pubertà e dell'adolescenza non ho avuto che mia madre come modello e come riferimento.
Qualcosa l'ho attinto dalla scuola e dalle figure rappresentate dai miei vicini di casa, specialmente quella del padre, fino all'età di quindici anni.
Non per scelta ma per forza di cose mi sono ritrovato in una situazione abbastanza originale; figlio primogenito di genitori separati per necessità ho vissuto a strettissimo contatto con la madre.
Ho imparato a pensare con la mia testa, è vero, ma l'impronta indelebile lasciata da questo essere umano, inevitabilmente, m'accompagnerà, e non mi dispiace, per tutto l'arco dei miei giorni a venire.
Mammone? Cultura mammista? Come faccio a saperlo: mi si dovrebbe osservare da fuori. Io vorrei, gradirei essere considerato, per ciò che dico e che ho sempre fatto; un piccolo essere umano che tenta di esprimere una sola disciplina: la cultura dell'amore.
Amore di gesti, di umiltà, di serenità d'animo.
Amore che mai giudica, che non odia, che non si lascia travolgere da invidia e vana gelosia. Amore che qualsiasi cosa accada non si sofferma mai alla superficie delle apparenze, ma si interroga sui perché, proteso a comprendere; sempre; a ogni costo, costi quel che costi: non giudicare, bensì comprendere.
Certo, a puntare l'indice si fa molta meno fatica, ma quante cantonate rischiamo di collezionare.
E quando capiterà a noi? Di qualsiasi fatto o misfatto si tratta, vorremmo essere additati da tutti o preferiremmo un trattamento diverso, più umano: "Comprensione" per esempio?
La mia adorata mamma, "Ave Maria", fino all'ultimo dei suoi giorni mi ha accompagnato lungo il sentiero, a volte un po' faticoso, che si chiama amore.
"Sì, bisogna procedere e progredire, ma anche avere il coraggio di fermarsi e talvolta tornare indietro quando si capisce che stiamo sbagliando. Ammettere i nostri errori ci vuole più forza che scalare una montagna in inverno, tuttavia dobbiamo essere onesti e leali soprattutto con noi stessi: anche questo è amore".
Sulle labbra di mia madre ho udito questo ragionamento cento volte.
Ma le parole che mi hanno maggiormente colpito riguardano l'atteggiamento da assumere con gli altri, persone, animali e cose.
"Con un fiore oppure con un albero, nei confronti dell'aria che respiri e dell'acqua che contempli, in presenza di un uomo, una donna, un bambino, trova ogni volta la maniera giusta di proporti. Noi possiamo odiare, essere indifferenti oppure amare: scarta i primi due, perché alla fine ognuno offre solo ciò che possiede. Sii sempre educato, rispettoso, affettuoso.
Sì, affettuoso. Ogni volta che la situazione lo consente inventati una maniera che esprima tutto l'affetto di cui è capace il tuo cuore, il tuo sentimento. Non essere timido. Tutti, tutto intorno a noi reclama affetto: non essere egoista, non portartelo tutto nel sepolcro".
Questa piccola, sconosciuta donna e madre, per me ha rappresentato un titano.
Forza fisica e d'animo, bellezza della carne e nello spirito mi hanno indotto a concludere che soltanto grazie a queste persone il mondo è un po' più facile da respirare.
Il lettore mi perdoni queste pagine che dichiarando tutto non dicono nulla. Le prossime righe narrano un percorso che solo a pochi risulterà strano. Per i vecchi ci sarà poco di nuovo. I giovani potranno confrontarsi sul prima, sul durante e su ciò che sarà il futuro che sapranno costruirsi.

CAPITOLO I
 
 
In una casa ai margini del bosco
 
 
 
 
Le nascite e la morte sono eventi che impongono anse e accelerazioni non prevedibili al fiume della vita.
Dopo una nascita, all'indomani di una morte, in una famiglia non è più come prima. Quando morì mio nonno Antonio, nel novecentoquarantotto, sotto lo stesso tetto abitavano sedici persone: sette donne, sei uomini, tre bambini.
Il nonno, col solo sguardo, riusciva a sedare i soggetti più agitati.
Egli parlava assai poco, a differenza della nonna che si moveva in una assemblea permanente.
Parlava poco il nonno, ma lavorava molto. Il suo esempio e il credo erano: "Fare, non chiacchierare".
Alla sua morte, aveva sessantasette anni, tutti incontrarono maggiori difficoltà a procedere e a sopportarsi l'un l'altro.
La nonna si applicò al meglio delle sue possibilità, tuttavia le figlie litigavano fra loro e con le due cognate.
I maschi erano meno turbolenti, ma, anche loro, mugugnavano: lo spazio s'era improvvisamente ridotto, al punto che taluni affermavano che mancava il respiro.
Il papà, che in quegli anni lavorava sodo, portava in casa dei bei soldi e consegnava il salario al nonno che destinava una piccola parte da dare alla mamma che doveva provvedere a me e a Silvana; la maggior quantità dei quattrini veniva assorbita dalla famiglia.
Ciò che mensilmente riusciva a risparmiare, il nonno lo investiva in un pezzo di terra oppure acquistava buoni fruttiferi postali del valore di cinquecento o mille lire.
Il papà non era incline al lavoro nei campi, perciò fin da piccolo si era sempre prodigato a guadagnare fuori casa.
Gli andava bene quasi tutto purché fosse un'occupazione onesta che gli consentisse di imparare e portare al padre somme che lo facessero ben figurare.
Così va il mondo: il papà era il primogenito, aveva sempre portato a casa, però, alla morte del nonno, i fratelli, nessuno escluso, non gli hanno riconosciuto il diritto a un centesimo.
I suoi fratelli, tutti, se ne erano rimasti nella loro casa, anche quando Pietro rischiava la pelle nella guerra di Spagna e in Jugoslavia.
A qualche mese dalla morte di Antonio esplosero alcune tensioni.
Chi progettava di emigrare in Francia chi in Argentina.
Le femmine da marito, anche se non avevano lo spasimante ideale, incominciarono a far prendere aria ai cassettoni dove tenevano la loro dote.
Nel quarantanove il papà cedette alle progressive insistenze della mamma che, anche se giovane, sapeva benissimo dove approdare.
Pietro riuscì a farsi assegnare dai fratelli un appezzamento di terra sopra il quale fece montare una casetta di legno.
Un bel giorno vidi Pietro che poneva la mucca tra le stanghe di un carro leggero: stavamo per traslocare.
Il papà e la mamma seduti davanti, io e Silvana al centro del pianale attorniati di mobili sgangherati e stracci, abbiamo percorso i trecento metri che ci separavano dalla casa nuova.
Quasi tutti i giorni andavo a trovare la nonna, zie e zii.
Adoravo stare tra di loro, ma quando rientravo era tutt'altra cosa.
Il papà era sempre fuori a lavorare perciò io e la mamma facevamo mille cose insieme: imbiancare con la calce le pareti di casa, governare oche e tacchini, galline e il porcellino, il lavoro nell'orto e nei campi. Occuparmi di non perdere mai di vista la mia sorellina: in quegli anni si era obbligati a crescere in fretta.
Poco dopo, compiuti i sei anni di età, io ho iniziato a frequentare le elementari. Per raggiungere la scuola dovevo percorrere a piedi circa un chilometro all'andata e un altro al ritorno.
Tutti i pomeriggi, terminati i compiti, dovevo fare da baby sitter a mia sorellina di tre anni: professione che avevo intrapreso già da tempo.
Alle spalle della baracca avevamo un campicello coltivato a mais, due filari di viti e, in autunno, qualche cespuglio di patate dolci. Nel cortile ruspavano una quindicina di pennuti. I palmati erano zingari sempre in giro. In una casetta di legno, tutti gli anni, allevavamo un piccolo suino.
Il porcellino, da solo, si mangiava quasi tutto il raccolto di pannocchie. Se in quella realtà ci fosse stato anche il capofamiglia non avremmo desiderato nulla di meglio, ma il papà, purtroppo, ci era consentito di averlo con noi solo per periodi molto brevi: in un anno lo si vedeva quattro o cinque volte.
Quando lavorava a Milano non poteva raggiungerci tutte le volte che avrebbe desiderato per non dissipare gran parte delle risorse che guadagnava.
Era lontano, però, un giorno sì e uno no il postino ci portava una sua lettera, che mamma leggeva con gioia sempre rinnovata.
Vivere nella casetta di legno, non essendo abituati, dopo un po' di tempo si rivelò traumatico. Entrava l'aria da tutte le parti. D'inverno si moriva dal freddo e d'estate s'andava arrosto. Topi e pantegane divoravano le pareti esterne e poi l'interno: non eravamo mai soli. Non esisteva il silenzio.
Mio padre, pungolato con insistenza dalla moglie, si vide costretto a prendere provvedimenti. Un giorno, sopra un foglio di carta bianca fece uno schizzo; ci mise alcune quote e lo consegnò a un muratore di sua fiducia che abitava in paese.
Questi, avendo già un'occupazione presso un'impresa edile, poteva venire da noi soltanto la sera, dopo il lavoro.
La mamma, tutto il dì lo spendeva a faticare nel campicello, a tenere in ordine la baracca e ora doveva preparare i materiali per l'operaio che arrivava dopo le cinque.
Metteva a bagno i sassi di calce viva. Disponeva i mattoni forati in un recipiente pieno d'acqua. Ma la vera fatica consisteva nel preparare la malta. Prima col badile, poi con una zappa, preparava un'enorme torta di sabbia sulla quale disponeva la calce spenta e un po' di cemento; una volta versati sopra alcuni secchi d'acqua doveva mescolare il tutto finché la massa si presentava omogenea senza grumi: né solida né troppo molle.
Quando arrivava il muratore lo si doveva servire. Questi, un mattone sopra l'altro, ad alta velocità, in meno di due ore consumava tutto il precedente lavoro della mamma.
A causa della calce viva e dello sforzo eccessivo con le mani, ben presto si ritrovò vesciche e sangue in entrambi i palmi: imparò a bendarsi, da sola, con le strisce di cotone che le donne usavano nel periodo mestruale.
In quei giorni la mamma aveva ventinove anni, era bellissima, ma ne dimostrava quaranta. Certe sere era talmente stanca che affidava la casa a me. Stremata, si metteva a letto. Se le portavo qualche cosa da mangiare, come un uccellino, beccava solo un po' di polenta e zucchero.
La casa, tre stanze quattro per quattro, con ingresso nella sezione centrale, fu pronta in pochi mesi.
Un locale venne destinato a deposito per gli attrezzi e granaio, uno diventò la nostra camera da letto, quello di mezzo venne adibito a cucina.
Una casa di mattoni, anche se piccola, tutta per noi, segnò una grande vittoria dei miei genitori: fede e grandi sacrifici avevano dato il frutto sperato. Eravamo molto felici anche se avevamo debiti di lieve entità.
Il papà era sempre lontano, però, con assoluta puntualità, un giorno sì e uno no arrivava una lettera. Una volta al mese il postino ci consegnava un vaglia postale.
Andavo a scuola regolarmente, tutto andava per il verso giusto.
Silvana cresceva; incominciavamo a giocare insieme: ero sempre più felice.
Topi e le pantegane sfrattati il dì che vendemmo la casa di legno, trovandosi in aperta campagna, senza tetto, e quel che è peggio senza cibo, s'ingegnarono finché trovarono la maniera d'insediarsi nel locale dove era situato il mais. Quando spostavamo le pannocchie, per far loro prendere aria, trovavamo svariate famigliole di topini rosa dentro un nido simile a quello degli uccelli. Anche nella abitazione nuova di zecca abbiamo avuto il nostro bel lavorare per mantenerla pulita.
Era il cinquantuno, e io che non sapevo niente in fatto di donne, non mi resi conto che la mamma era in procinto di dare alla luce un fratellino.
Nel maggio del cinquantadue la nostra famiglia aumentò di una unità.
Il papà, ancora una volta, venne incalzato dalla mamma finché fece un disegno su un pezzo di carta e lo consegnò al muratore che aveva eretto la costruzione. La nostra famiglia s'era allargata, serviva più spazio.
La mamma, come in precedenza, si fece ritornare le vesciche e il sangue ai palmi di entrambe le mani: non ho mai udito da lei un solo lamento. Per lei era normale cantare felice e fare sacrifici: era la sua vita.
Venne edificata una quarta stanza su due piani accanto alle tre precedenti. La parte inferiore fu destinata ad accogliere attrezzi e cianfrusaglie varie; la parte alta, invece, la usammo per deporre le pannocchie, le zucche e altri frutti della terra.
La mamma, Silvana e Walter, s'insediarono nel locale appena liberato, io ebbi una meravigliosa, ampia camera tutta per me.
A trent'anni, mia madre aveva già tre figli: uno di otto, una di cinque, uno di tre mesi.
Ero piccolo di statura. A malapena, quand'ero in piedi, riuscivo a manovrare gli strumenti di cucina; la mamma, però, pretendeva che l'aiutassi.
Mi insegnò a preparare il sugo per la pasta asciutta e altre vivande. Per cucinare usavamo la stufa a legna, ma in caso di necessità disponevamo anche di un fornello a gas con tre fiamme alimentato da una bombola.
Per risparmiare, e per non sporcare la casa, se il tempo atmosferico lo consentiva, la mamma ci insegnò a cucinare all'aperto.
Sopra tre mattoni alti trenta centimetri, disposti su tre lati, poggiavamo la pentola; sotto si introduceva la legna che serviva alla combustione; in mancanza di legna usavamo la canna secca del mais.
Un po' d'acqua che recuperavamo dal pozzo, un cubetto o due di dado Liebig, (all'inizio degli anni cinquanta i dadi erano piccoli cubi di una decina di millimetri di lato, costavano circa cinque lire) e tutta la famiglia si godeva il brodo che per noi era il più saporito del mondo.
Una gallina non potevamo ammazzarla perché garantiva le uova; tutt'al più potevamo tirare il collo ai pulcini maschi cresciuti abbastanza: i pollastrelli.
Un pollastro, quasi tutte ossa, era poca cosa in confronto alla nostra fame, tuttavia riuscivamo ad avanzare qualcosa per il gatto.
Per saziarci, la mamma ci riempiva di polenta di mais bianco.
Un maialino, mai abbastanza ingrassato, forniva qualche salame, lardo, pancetta, cotechini (musetti), costolette, ossa per fare minestre e minestroni, salsiccette di fegato da friggere in padella o sui cerchi caldi della stufa. A dirlo sembra molta roba, in pratica, però dovevamo farla durare quanto più era possibile.
E poi tanti legumi. Fagioli in insalata, nella minestra, pasta e fagioli, fagioli in tegame al pepe, fagioli come primo e unico piatto, fagioli come contorno di un altro contorno. Radicchio fresco mescolato ai fagioli avanzati il giorno prima era il piatto più ricorrente.
Non avendo l'energia elettrica in casa, la sera bisognava cenare prima del calar del sole, e poi, lavati i piatti, puliti i denti, recitate le preghiere, tutti sotto le coperte. Che meraviglia d'inverno: giorni brevi e notti infinite. Qualche sera s'andava a letto vestiti tanto era il gelo.
Il vento certe notti urlava, allora andavo nel letto grande con la mamma e i fratelli; non mi piaceva stare da solo.
Quando arrivava la neve rischiavo di non andare a scuola.
Attendevo che gli zii e i vicini di casa scavassero le trincee entro le quali ci si poteva spostare. Ricordo che lo spessore della neve superava sempre l'altezza della mia persona.
Il tempo passava. Noi, piano piano, si cresceva. La mamma, sempre più, soffriva.
La solitudine le pesava; lo capivo perché ogni volta che tornava il papà, quando presumeva che nessuno la sentisse, nell'intimità, gli ripeteva continuamente che faceva molta fatica a condurre quella vita.
Avevo dieci anni quando ho compreso il dramma di una persona che, anche se non sola, soffre tremendamente la solitudine.
Compiuti undici anni ho terminato le scuole elementari. La mamma m'ha iscritto subito alla scuola di avviamento professionale: meccanici aggiustatori o falegnami ebanisti era la sua scelta. I figli dei benestanti, invece, si recavano fuori paese; loro frequentavano "le commerciali". (le tre medie e poi qualcuno andava oltre).
È stata dura perché iniziavo alle otto del mattino. Quattro ore in aula e quattro in officina: un'ora di intervallo.
Poi, a casa, a fare da balia e da papà ai fratelli.
Prima di cena, tutte le sere mi recavo dai vicini di casa, che avevano alcune mucche, per farmi dare un litro di latte appena munto. Era in assoluto il momento più interessante della mia giornata: della vita, oserei affermare.
Con un mestolo il latte passava da un secchio al mio pentolino. A svolgere l'operazione era una ragazza bellissima, mia coetanea. La medesima ragazza che fino a qualche tempo prima vedevo sovente, e volentieri, nella mia casa.
Accadeva che quando i fratelli della giovinetta rientravano dal lavoro all'estero, per qualche giorno da trascorrere in famiglia, i bambini più piccoli dei vicini venivano ospitati per la notte nelle case confinanti: la piccolina veniva da noi.
Mia madre, in quelle occasioni ci faceva fare i compiti: ci teneva d'occhio; nonostante ciò io trovavo il modo di far pervenire, di nascosto, alcuni bigliettini. Ricordo che in uno scrissi: "Stanotte, a mezzanotte ti, seguito da puntini di sospensione". Lei mi rispose con un foglietto: "Sei un orso", frase che non ho mai capito.
A quei tempi non avevamo due camere, perciò la mamma ci faceva coricare tutti insieme: mamma, Silvana e l'ospite sdraiate in un senso, io nell'altro: praticamente ai piedi delle tre donne.
La ragazzina, come s'infilava sotto le coperte, metteva il pollice della mano destra in bocca, iniziava a succhiarlo e subito s'addormentava. Io, ai suoi piedi, mi ficcavo l'indice e il medio della mano destra in bocca, mentre la mano sinistra s'indaffarava a far passare e ripassare l'estremità del lenzuolo sotto il naso fino ad addormentarmi: quasi subito anch'io.
Ho sempre pensato con tanta tenerezza a questa creatura.
La spiavo quando eravamo bambini. A quei tempi, quando avevamo entrambi otto o nove anni, io ero uno specialista dell'altalena. Legavo una grossa corda di canapa, a tre metri d'altezza, attorno il fusto di due pioppi; sulla parte inferiore della fune ci si sedeva, e con la spinta giusta alle spalle da parte di chi assisteva si accendeva il gioco più emozionante che si potesse immaginare. Vari bambini venivano sulla mia altalena, ma solo lei era la presenza veramente attesa, sperata.
Con l'altalena avevo un discreto successo, ma mi costava energici rimproveri da parte di mio padre. Quando veniva a casa e scopriva i canapi abbastanza rovinati un po' s'adirava, ma per me ne valeva la pena.
Se da bambino la spiavo, tra gli undici e i tredici anni la pensavo e un pochino, se si presentava l'occasione, la seguivo; non solo con lo sguardo. La tenevo d'occhio in chiesa, alla messa. La cercavo, non visto, al cinema. In quegli anni i maschi dovevano stare tutti a sinistra e le femmine a destra: così al cinema, così in chiesa.
Verso i tredici, forse a quattordici anni, lei ha iniziato a indossare le calze trasparenti: è stato un colpo al cuore. Le calze conferivano alle sue gambe qualcosa al quale non ero preparato. Sotto il ginocchio la forma era bellissima, piena, matura; la trasparenza schiariva l'incarnato, la faceva sembrare più avanti negli anni: pareva una ragazzina con gambe di donna.
Una delizia quel tratto di carne visibile. Stranamente, con la fantasia, non ho mai indagato altri dettagli della sua meravigliosa figura. Con l'immaginazione le scrivevo lettere infuocate al punto che quando me la trovavo davanti, in carne e ossa, arrossivo di vergogna a causa delle frasi che in precedenza avevo solo pensato.
L'adoravo, la trattenevo con tenerezza assieme ai miei pensieri più importanti, però, mai ho avuto il coraggio di far trapelare il sentimento. L'amavo con rispetto e tanta dolcezza, tuttavia non la desideravo. Il desiderio avrebbe guastato il sogno che cullavo anche quando avevo le palpebre sollevate.
Con le rare monete che avevo a disposizione, qualche volta acquistavo le gomme da masticare con le figurine. "Le gomme non mi piacciono, se non le prendi tu non so che farne; a me interessano solo le figurine" era la bugia dietro la quale nascondevo la mia segreta speranza di sfiorarle le mani. Non so se l'ha mai capito. Il mio era amore di bambino. Una parentesi indimenticabile all'alba del sogno provocato dal sentimento.
La famiglia di lei è stata un po' anche la mia famiglia.
Quando prima dell'inverno c'era da arare il nostro podere, ai tempi in cui non c'erano macchinari agricoli, arrivava uno dei suoi fratelli con un tiro di buoi, e per poche lire svolgeva il lavoro: alle rifiniture ci pensava la mamma a forza di braccia: vanga e zappa, qualche volta, per rifinire a regola d'arte, il rastrello.
Davanti alla nostra abitazione, tra l'orto e il giardino, il papà aveva scavato un pozzo profondo dal quale attingevo l'acqua per gli usi domestici e per gli animali; per uso alimentare la adoperavamo solo se bollita.
Avessimo fatto la domanda al consorzio nemmeno ci avrebbero risposto; perciò per l'acqua da bere, munito di un recipiente andavo a rifornirmi alla fontana dell'acqua potabile dei vicini di casa.
Loro erano parecchio emancipati: avevano anche l'energia elettrica, e perfino la radio, alle cinque del pomeriggio bevevano il tè. Molte sere, in inverno, da solo, oppure con mamma e Silvana, ci recavamo dai vicini, nella loro stalla, per stare alcune ore al caldo. Le donne cucivano i panni mentre gli uomini riparavano attrezzi, costruivano manici per badili e picconi. I più esperti realizzavano meravigliose scope di saggina (sorgo). In quel luogo, in quella promiscuità, la luce di una lampadina raggruppava una manciata di serena, severa umanità.
Il caldo tepore era prodotto da quattro buoi e alcune mucche, ma partecipava al coro anche Tell, il cane, e un numero indefinito di gatti. Di tanto in tanto non mancava di far capolino il muso tremolante, timido, di qualche cucciolo di coniglio.
L'unico inconveniente, se così si può definire, consisteva nel fatto che per alcune ore, dopo essere stati nella stalla, non si profumava né di viola né di lavanda. Cristo, però, quanta beatitudine, quanta umanità, quale armonia di uomini, animali, mezzi.
Devo precisare che la casa dei miei vicini contadini era abitata da svariati fratelli, ammogliati con relativi figli. Se un nucleo famigliare era composto da tante persone era positivo perché tante anime sono tante braccia da impiegare nel lavoro della terra, (poche braccia = poco reddito).
La ragazzina del mio cuore aveva alcuni fratelli e tanti cugini, tutti sotto il medesimo tetto. Per me il fenomeno era inspiegabile: soltanto un suo fratello per me rappresentava il modello a cui riferirmi. Sentivo affetto e stima per maschi e femmine di questa numerosa famiglia, ma solo uno era il mio capitano. Di alcuni anni più anziano di me, d'estate era abbronzato come un indiano americano; con gli occhi molto chiari, faceva un certo effetto guardarlo.
Lui guidava la nostra banda, a torso nudo, quando certe sere, calato il sole, con la complicità delle tenebre, si andava per orti a razziare i frutti sugli alberi. C'erano da sfidare cani arrabbiati e fili spinati, nonché padroni attrezzati di doppietta; fa niente, noi s'andava, quando il capitano guidava non s'aveva paura: ci ha sempre riportati a casa senza un graffio.
Egli ci insegnava come costruire un arco e come ottenere delle frecce ben temprate, ottimamente bilanciate. Era sua l'arte della fionda: dalla ricerca della forcella al modo di tagliare gli elastici da una camera d'aria di bicicletta o da una borsa per l'acqua calda in disuso; fino all'assemblaggio finale e il collaudo.
Ci faceva vedere come lanciare una baionetta o un coltello a grande distanza contro i blocchi di paglia pressata senza sbagliare un colpo, lui non si abbassava ai giochi dei più piccoli; ci indicava esercizi più difficoltosi: discipline utili come stimare pesi e distanze: giocando, ci istruiva ad affrontare con più disinvoltura la vita.
Con i fratelli e i cugini della ragazza mi ritrovavo anche a giocare a palla nell'ampio cortile polveroso davanti alla loro casa. Ogni tanto si verificavano gioiose invasioni di campo da parte di chiocce con una nidiata di pulcini o tacchine seguite da una covata di piccoli indisciplinati.
Questi miei vicini di casa, maestri di vita, hanno rappresentato una meravigliosa cellula di umanità che ha contribuito, positivamente, a segnare il resto del mio esistere.
Io, d'estate, qualche volta sconfinavo. Entravo nella loro proprietà allo scopo d'indagare il territorio. Sapevo sempre cosa cercare, ma non sapevo dove.
Mi interessavo in particolare modo agli alberi con i frutti maturi appesi. Non disdegnavo raccogliere angurie e meloni: mangiavo la refurtiva sul posto prestando attenzione a far scomparire eventuali testimonianze dell'avvenuta incursione. Se lasciavo tracce di scarpe o di bucce non sarei potuto ritornare sul luogo.
Io mi ritenevo molto avveduto, in quegli anni non esistevano buste di plastica e tanti altri comodi contenitori. Per razziare frutti io viaggiavo munito d'un colapasta di alluminio. Dio mio, quante volte sono stato sorpreso e catturato dai miei amati vicini di casa col colapasta colmo d'uva o d'altro: che vergogna!
All'istante, sul posto, mi veniva sequestrato l'attrezzo e, a mani vuote, mi si invitava a ritornare a casa.
Il giorno dopo, immancabilmente, lo strumento di cucina veniva consegnato a mia madre. Può sembrare strano, ma mai, nemmeno una volta, sono stato sgridato, offeso, oppure picchiato come ci si potrebbe attendere in simili situazioni.
La tolleranza e la comprensione nei confronti di un bambino povero, da parte di questa famiglia, è stato commovente. Un modello quasi impossibile da mettere in pratica se non si hanno enormi ali di umanità.
Che dire: ho sempre nel cuore un luogo, un po' polveroso, dove c'erano animali, insetti e tanto verde; dove le canzoni delle stagioni erano abbastanza diverse da quelle di questi giorni.
In questo particolare posto, che occupa una parte importante del cuore, ci sono volti e azioni che appartengono a un tempo, a una terra dove ho lasciato tutte le mie giovani radici.
Se mi sono separato dalle radici, però, non mi sono mai scordato volti ed emozioni troppo belle, le più importanti nella formazione di colui che in seguito avrebbe provato a diventare un uomo.
Affermo di essere in debito con una casetta situata ai margini di un bosco dalla quale si udiva una particolare musica del mondo. Sono nato e cresciuto sotto un cielo terso, e quando il vento ci portava il clima dell'est mi immergevo nel sano profumo del mare; e accanto, e sopra, e dovunque, il volto d'angelo di una ragazzina e quello Raffaelitico di suo fratello: mio indimenticato maestro, modello e riferimento.

Torna alla sua Home Page

Se desideri acquistare questo libro e non lo trovi nella tua libreria puoi ordinarlo direttamente alla casa editrice.
Versa l'importo del prezzo di copertina sul Conto Corrente postale 22218200 intestato a "Montedit - Cas. Post. 61 - 20077 MELEGNANO (MI)". Indica nome dell'autore e titolo del libro nella "causale del versamento" e inviaci la richiesta al fax 029835214. Oppure spedisci assegno non trasferibile allo stesso indirizzo, indicando sempre la causale di versamento.
Si raccomanda di scrivere chiaramente in stampatello nome e indirizzo.
L'importo del prezzo di copertina comprende le spese di spedizione.
Per spedizione contrassegno aggravio di Euro 3,65 per spese postali.
Per ordini superiori agli Euro 25,90 sconto del 20%.
PER COMUNICARE CON L'AUTORE mandare msg a clubaut@club.it Se l'autore ha una casella Email gliela inoltreremo. Se non ha la casella email te lo comunicheremo e se vuoi potrai spedirgli una lettera indirizzata a «Il Club degli autori, Cas. Post. 68, 20077 MELEGNANO (MI)» contenente una busta con indicato il nome dell'autore con il quale vuoi comunicare e due francobolli per spedizione Prioritaria. Noi scriveremo l'indirizzo e provvederemo a inoltrarla.
Non chiederci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2007 Il club degli autori, Vladimiro Furlan
Per comunicare con il Club degli autori:
info@club.it
 
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit

 

 

IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |

Ins. 28-08-2007