Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Valerio Bologna
Con questo racconto ha vinto il quinto premio del concorso Fonòpoli - Parole in movimento 2001-2002, sezione narrativa
Eutanasia

Mi stanno torturando. Mio Dio, mi stanno torturando.
Mi chiamo M-Michele, almeno credo. I ricordi cominciano ad offuscarsi.
Mi vengono in mente immagini, suoni, parole, ma dopo pochi minuti tutto scompare nel silenzio che inesorabilmente, come un morbo indomabile, sta soggiogando la mia mente. In questo momento ricordo di avere una moglie. Sì, ho una moglie, credo proprio di avere una moglie.
Dio ti prego aiutami, sto male. Aiutami Signore, non resisterò a lungo in questa maniera.
Parlo con Dio perché, in tal maniera, trovo conforto. Non sono mai stato un appassionato credente. Ma nell'infamia in cui sono caduto Dio è tra i pochi appigli che mi restano.
Fino ad ora mai avrei creduto che l'uomo potesse arrivare a compiere una mostruosità di questo tipo ad un suo simile, mai ho ritenuto degne di essere ascoltate le parole di quegli amici, di quei colleghi, di quei parenti che mi ammonivano sulla malignità, sulla crudeltà nella quale l'uomo può spingersi, affogando l'ultima sua briciola di raziocinio e rispettabilità. Ora mi rendo conto che quelle persone si sbagliavano. Sì, loro non sanno che l'essere umano può spingersi oltre.
Mi viene da piangere, ma non ho le forze per farlo. Vorrei urlare. Ho bisogno di urlare, di squarciare le corde vocali per placare un'indignazione, una costernazione che mi mortifica l'anima. Ma non ho le forze per farlo.
Mia moglie. Mi viene in mente un'immagine di lei mentre mi accarezza il viso e mi sorride. Forse durante un mio compleanno. Quanti anni ho? Non ricordo. Lo strazio bestiale mi acceca, impedendomi di rivolgere lo sguardo al passato. No, non è possibile che tutto questo stia accadendo a me. Che abbia commesso qualcosa di orrendo, di indicibile per meritare tale sprezzante scempio delle carni e dello spirito? No, nulla giustifica la tortura in cui mi stanno sottomettendo. Devo cercare di calmarmi, devo riflettere. Devo capire da dove tutto questo ha avuto origine.
Comincio... comincio a rammentare qualcosa...
Ero uscito da un palazzo enorme, tutto rivestito di vetri. Il sole mi abbagliava e sentivo caldo. Indossavo un vestito elegante e... e... Dio non ricordo, non ci riesco.
Ho paura, una paura folle, uno sgomento che mi lascia inebetito, impotente come una fragile imbarcazione serva dei flutti di un mare in tempesta. In questa circostanza unico motivo di rassicurazione è, per me, la consapevolezza che peggio di così non può andare. Non credo che essere vivente sulla terra abbia mai sperimentato sulla propria pelle quello che sto vivendo io e spero che mai nessun altro, dopo me, possa vantarlo fra le proprie memorie.
No, maledizione no! Devo ricordare quello che mi è successo, devo dare una pur minima indicazione ad una domanda che non può in alcun modo avere risposta: perché mi fanno questo?
Allora... sentivo caldo. Quel palazzo altissimo, io... io devo aver visto molte volte. Ora ricordo! Io lavoravo lì! Non so di cosa mi occupassi precisamente, ma sento che in quel palazzo ci lavoravo! Avevo finito, o forse ero in pausa. Mi avvicino a qualcosa... non capisco di cosa si tratti, le forme sono confuse, disordinate in un turbinio incomprensibile. U-un oggetto, una... una cosa grande e luccicante. È una macchina! Forse un furgoncino, mio Dio non lo so! Entro e chiudo la portiera. Cammino. Degli alberi scorrono ai lati della strada, maestosi alberi verdi e odorosi. Mi sembra di sentire il loro profumo, anche se, mi rendo conto, è frutto della mia immaginazione, una delle poche facoltà che, assieme alla ricezione nervosa del dolore, mi rimangono. Vento. Entrano nell'abitacolo soffi delicati d'aria fresca. E... è piacevole. Signore mio, da quanto non ricordavo una cosa piacevole! Grazie di avermi permesso di ricordare! Grazie Dio, grazie...
 
Devo essere svenuto. A dire il vero mi ritrovo disteso su qualcosa che non capisco, già da diverso tempo in grembo al dio del sopore. Solo la testa continua a funzionar, come se si volesse ribellare, in un ultimo anelito di dignità, alla desolazione che mi avvilisce. Il corpo non risponde agli impulsi che gli invio. Devono essersi bloccati da qualche parte. Sento solo macabri spasmi che, come febbri, mi lacerano senza posa alcuna. Mi sono reso conto che è meglio non serbar ricordo delle sensazioni piacevoli. Alla bruttura funerea che mi affligge è meglio non contrapporre nulla di bello o gioioso. Ho capito che soffrirei di più, se mai ciò sia possibile.
I-io non riesco a immaginare il viso di mia moglie. Sento che deve essere un volto angelico, di quelli la cui vista rasserena e infonde amore e letizia. Quanto darei per riuscire ad accarezzare ancora una volta quel viso.
C-c-che diavolo succede. S-s-sento un r-rumore. È qualcosa che n-non riesco a spiegare... è... è un suono particolare, ritmico, metallico, freddo. M-ma dove mi trovo? I-io so solo che mi stanno torturando! Cosa ho fatto, cosa diamine ho fatto?! Perché mi fate questo, maledetti?! Perché? L'unico modo che ho per ribellarmi è... è il ricordo! Sì, perché patire le pene più raccapriccianti mai provate, senza neanche saperne la ragione, è indegno per quel poco che ancora di umano mi resta dentro.
Quindi... percorrevo una strada a velocità moderata su un mezzo, su una qualche macchina. Allora... io ...io viaggiavo... i-io stavo andando a casa! Ne sono sicuro, mi stavo dirigendo a casa, da mia moglie! E... mi sentivo felice. Tutta quella giornata era stata raggiante. Ma non so il motivo. Ricordo solo che ero appagato dalla mia vita. Una scritta. Vedo una scritta su una specie di cartellone, di pannello o qualcosa del genere. E poi la strada... non è più come prima... è... è diversa. Poi... e poi non so, maledizione non lo so!
Sento le carni ardere, come se mi stessero bruciando vivo. Sento il cervello scoppiare. Voglio aprire gli occhi, voglio vedere la luce! Da troppo tempo non apro gli occhi e sto scordando com'è fatto il mondo lì fuori. Mi andrebbe di correre. Vorrei correre su uno sterminato campo d'erba verde, fino ad ansimare, fino a non poter più respirare. Ma non posso. Non posso fare nulla! Non respiro più di mia spontanea volontà, c'è qualcosa che mi obbliga ad incamerare un ossigeno arido e soffocante, forzandomi nella più semplice delle mie capacità, che ora ho perso. Il ventre si alza e si abbassa meccanicamente, asservendosi ad ordini non miei. Mi stanno stuprando, sento che ogni più piccola parte del mio fisico viene stuprata da degli oggetti di tortura che sfuggono alla mia vista. Ho sete. Ho fame. O forse no. Non riesco a capire! Le sensazioni si ottenebrano e m'impediscono di sentire un corpo che, ormai, non mi appartiene più. I-io non sono più nulla. I-io percepisco che sto perdendomi in un limbo dove regna il nulla. Il freddo, il caldo, niente di tutto ciò ormai. Solo il nulla.
Uno sterile nulla.
 
Non so quanto tempo sia passato. Non so da quando sono qui. Non ricordo più com'è fatto il tempo. Sembra strano a dirsi per chi non sa quello che sto passando io ma, in una situazione come questa, le essenze più incorporee e aere assumono, nella vita che ho vissuto, forma concreta, tangibile. Non mi rendevo conto, quando vivevo, di essere dominato da innumerevoli... innumerevoli... essenze, non so come chiamarle! Mi convinco sempre più, da quando sono ridotto così, che l'uomo non vive con il corpo. Vive con le "essenze".
L'essenza della gioia, del dolore, dell'amore, del tempo... noi non facciamo altro che vivere essenze. Il nostro non è più un vivere, il nostro diventa un sentire. La vita, pochi istanti dopo che c'è data, cresce e matura in un sentire indecifrabile. Esistiamo nel momento in cui non sentiamo più nulla. La nostra diventa un'esistenza solo nel momento in cui finiamo di sentire. Allora, solo in quel preciso istante, esistiamo. Eppure, il momento in cui non sentiamo più nulla coincide con la morte. La morte è la fine del sentire. In quell'istante l'esistenza non è più, è solo la gelida, spoglia morte. La vita e l'esistenza allora non sono in realtà. Sono solo attimi, istanti impercettibili destinati a scomparire nel momento stesso in cui appaiono. Esiste solo il sentire che è qualcosa di infinitamente più aureo, grandioso, immenso e poi la morte. Eppure in questo momento io sto esistendo. Dio mio, io sto esistendo. Sono semplicemente una "cosa" che esiste, lontana dalla vita, che crea, lontana dal sentire, che vive ciò che la vita crea, lontana dalla morte, che è la fine di tutto o l'inizio di qualcos'altro. Dio... aiutami.
Non percepisco più nulla. Il dolore, il terrore, lo sconforto. Nulla. Mi hanno fatto approdare ad un punto cui nessun uomo è mai giunto. Quel luogo che Dio ci ha celato creando la morte, più generosa e amabile. L'esistenza.
 
Ora ricordo. Su quel pannello vi era scritto: "Ponte sdrucciolevole". Percorro il ponte. Qualcosa, un animale forse, spunta d'improvviso. Freno. Sbando. Buio. Poi qui. Non so quando è successo, quando è cominciato. So solo di essere qui, dove mi fanno esistere senza farmi vivere. Sto scordando ogni cosa. N-non riesco a p-pensare... il buio, sta scendendo il buio... n-non credevo c-che il buio p-potesse essere così b-bello. U-una d-donna col pancione... piange... s-sorride?... p-piange... h-ha deciso...
b-buio... s-silenzio...
Grazie.
 
Un suono particolare, ritmico, metallico, freddo tacque.
 

"Ubi non sis qui fueris, non est cur velis vivere"

Quando non si è più ciò che si era, non c'è più ragione di desiderare la vita.

(M. T. Cicerone- Epistole ai familiari)

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 Ins. 03-10-2002