- Tesi
di laurea
- Si diresse in
cucina tenendo gli occhi socchiusi, pieni di un sonno
che non aveva dormito. L'odore del caffè appena
fatto incuriosì i suoi sensi e
sbadigliò, stropicciandosi i capelli. Suo padre
lo guardò di sfuggita. Si alzò e mise a
scaldare un pentolino di latte.
- «Notte in
bianco?», chiese al giovane, mentre si
sedeva.
- «Non riesco ad
addormentarmi se non ho un sogno da sognare, lo
sai».
- «Hai
paura?»
- «Ho sempre
paura della notte. Solo i sogni mi
salvano».
- «E non ne
avevi uno pronto?», chiese il padre rimettendosi
a capotavola.
- «No. Non ne ho
da settimane».
- «Te li
dovresti costruire. Dovresti prepararli prima»,
gli suggerì, mascherando una totale mancanza
d'esperienza in quel campo.
- «Sì...
costruirli... E come dovrei fare?»
- «È
semplice: dovresti sdraiarti e usare il pensiero.
Dire... ECCO, ALLORA, QUESTA NOTTE VOGLIO SOGNARE
D'ESSERE IN UNA FORESTA CANADESE
E...»
- «Eh...?».
- «Non lo so...
ho detto una cosa così, tanto per fare un
esempio».
- «Vorrei essere
come te e non temere la notte».
- «No, Andrea.
Tu somigli tutto a tua madre. Lei saprebbe cosa dirti.
Lo sapeva sempre».
- La stanza
lasciò risuonare un senso grave di malinconia
per una donna che ormai se n'era andata.
-
- Andrea pensò
che suo padre aveva ragione: se ci fosse stata lei,
lui non avrebbe avuto più una paura così
infantile. Solo suo padre lo sapeva: persino
Alessandro, il suo migliore amico, non sospettava una
tale debolezza.
-
- Di notte non
dormiva, a meno che, dal fondo del suo cervello non
comparisse, d'improvviso, un'immagine, un segnale, la
traccia di un sogno. Doveva avvenire senza
manipolazioni, senza l'intervento della
volontà, altrimenti il sogno svaniva prima che
lui potesse addormentarsi.
- Aveva avuto spesso
la tentazione di rivolgersi ad uno psicologo, ma non
c'era mai andato. Cosa avrebbe pensato suo padre?
Aveva la quinta elementare e faceva il barista da una
vita. Lui sapeva che gli psicologi avevano a che fare
coi malati e non avrebbe digerito passivamente che suo
figlio ne consultasse uno.
- E sua madre? Si
sarebbe rigirata nella tomba, di sicuro.
- Non poteva assumere
medicinali: era sempre stato un ragazzo fragile. Il
suo cuore non funzionava come quello dei suoi
coetanei. Perciò poteva limitarsi soltanto a
prendere qualche prodotto di erboristeria, ma non
contava a molto.
-
- Suo padre ripose il
giornale sul tavolo, fissò per un paio di
secondi l'orologio e si alzò.
- «Comincia il
mio turno. Passi nel pomeriggio?»
- Andrea tuffò
un crumiro nel latte e lo guardò con
incertezza.
- «Non lo so.
Devo scrivere l'ultimo capitolo della tesi. Se non mi
ci metto oggi, non mi ci metto
più».
- «Perché
dici così?»
- «Perché
sono due mesi che vorrei concludere e non ci riesco.
Non riesco a far nulla: devo laurearmi in
fretta».
- «Boh...»,
borbottò suo padre, mostrando di non capire
bene cosa significasse tutta quella
premura.
-
- Vivevano soli da
diversi anni. La sorella di Andrea, Carla, si era
sposata ed era andata a vivere a Roma. I due uomini
andavano d'accordo: si dividevano i lavori di casa,
cucinavano a turno e non invadevano troppo l'uno gli
spazi dell'altro. Suo padre stravedeva per lui: fin da
quando avevano scoperto i suoi problemi di salute, gli
si era affezionato ancora di più e poi, dopo la
morte della moglie e la partenza di Carla, Andrea
sembrava l'unica persona per cui valesse ancora la
pena vivere. La perdita della madre aveva lasciato un
vuoto enorme nel ragazzo; non riusciva a concentrarsi
per molto tempo, e non trovava le parole per scrivere
quella maledettissima tesi di storia; l'ansia che
accumulava durante il giorno si raccoglieva tutta tra
le pieghe delle sue coperte e i sogni non arrivavano.
Allora si girava e rigirava nel letto fino all'alba
senza trovare un angolo di conforto. La paura lo
faceva tremare come un bambino. Se ne vergognava
così tanto che non aveva neanche il coraggio di
alzarsi.
-
- In quelle ore
mattutine i suoi nervi si riprendevano dalle tensioni
notturne, ma si ritrovava stanco e spossato, senza
quella lucidità indispensabile per studiare.
Ogni volta che andava dal suo professore, veniva
puntualmente umiliato per la sua poca volontà,
la sua lentezza e l'uso di espressioni macchinose. Non
ne poteva più. Per questo pensò che quel
giorno avrebbe scritto l'ultimo capitolo tutto d'un
fiato, senza distogliere l'attenzione del
computer.
-
- Si fece una doccia,
poi si sedette al computer. E scrisse. Scrisse fino a
non sentire più la sensibilità dei
polpastrelli. Senza nemmeno rileggere. Quando prese
coscienza del tempo che era passato, si
stiracchiò un attimo e qualcuno suonò
alla porta. Aveva voglia di imprecare, ma si
limitò a guardare il soffitto con l'aria di chi
non può aggiungere altro. Andò ad aprire
e fu stupito di trovarsi di fronte Monika, la sua
più cara amica, dopo Alessandro.
-
- «Lo so, lo so
che hai la tesi, ma voglio parlare con qualcuno».
Entrò come un fulmine, lasciando una scia di
profumo dolce mentre passava davanti al corpo spento e
un po' consumato di Andrea. Era così bella che
quando la vedeva, lui, per i primi cinque minuti, si
sentiva il cuore scoppiare e pensava che nella sua
vita non c'era mai stato niente che le somigliasse
anche lontanamente. A volte aveva addirittura paura di
incontrarla perché pensava che un giorno o
l'altro, quel suo cuore non avrebbe retto e sarebbe
morto stecchito. Ma questo non gliel'aveva mai detto
e lei era fermamente convinta di essere piuttosto
bruttina. Non che le interessasse: Monika non badava
minimamente a certe questioni. L'unica cosa che le
interessava era il teatro. Voleva diventare un'attrice
e nient'altro. Sua madre l'aveva nutrita costruendo
per lei bellissimi spettacoli nella sua cameretta e le
aveva recitato Ionesco e Beckett ancora prima che
potesse leggere e scrivere. Quei modi inusuali di
farla giocare e farla crescere avevano profondamente
plasmato il suo animo sensibile verso un'unica
direzione.
-
- «Ho scelto il
monologo. Farò un pezzo da NOVECENTO e
leggerò una poesia di Montale. Non so ancora
quale, però».
- Andrea distolse lo
sguardo dalla ragazza che passeggiava nervosamente
avanti ed indietro.
- «Baricco e
Montale. Connubio perfetto», disse senza lasciar
trapelare alcuna emozione dal tono di
voce.
- «Dimmi
sinceramente: che pensi?»
- «Te l'ho
appena detto: è perfetto».
- «Hm...
piuttosto: come va la tesi?», chiese Monika,
sbirciando lo schermo del portatile.
- «Procede.
Entro stasera finisco. Domani porterò l'ultimo
capitolo al prof.».
- «Non ti ho mai
visto così certo», commentò
sorpresa.
- «È ora
di finirla. Non c'è più tempo. Io sono
troppo stanco».
- «Ti capisco.
Dev'essere frustrante stare lì e scrivere tutto
il giorno».
- «E allora,
stare sopra ad un palco e recitare? Non è
altrettanto frustrante?»
- «No, che
c'entra. Recitare è giocare». Lo ripeteva
spesso Monika. Sorrideva con un lampo negli occhi e
diceva quella sua frase. Recitare c'entrava molto con
la vita, ma non era come vivere realmente: era tutto
vero, eppure intangibile, impalpabile, come un
incanto. Sul palco era bello persino soffrire. Monika
forse non voleva vivere, ma solo giocare a vivere. E
per lei, il teatro era l'unico modo. Andrea glielo
leggeva nel volto, sul palmo delle mani. Si
sentì profondamente vicino a lei in quel
momento e dalla gola gli uscì una
voce.
-
- «Ho paura
della notte, quando non ho sogni da
sognare».
- Quelle parole
sapevano di rivelazione ed Andrea le pronunciò
senza pensare alle conseguenze.
- Monika posò
NOVECENTO sulla scrivania. Scrutò l'amico per
un attimo, poi aprì e richiuse
l'armadio.
- «Paura? Della
notte?», chiese per avere un'ulteriore conferma.
Poi aggiunse: «Da quando?»
- «Da molto
tempo ormai. Lo sa solo mio babbo».
- «Te ne
vergogni?»
- «Tu te ne
vergogneresti?»
- «Se fossi
maschio sì. Alle femmine, debolezze del genere
sono concesse. Comunque il rimedio è prepararsi
i sogni prima di dormire».
- Andrea sorrise:
«È la stessa teoria di mio babbo. Ma non
funziona con me».
- «Certo...»,
concluse Monika «devono venire da
dentro...»
- «È una
cosa che mi tormenta e mi dà ansia. Non
c'è soluzione. Mi capita sempre più
spesso di non dormire. E se non dormo, i pensieri mi
soffocano. Il senso della morte più che
altro...»
- Monica riprese il
libretto e si appoggiò al muro
dispiaciuta.
- «Tutti pensano
alla morte, non sei il solo». Lei guardò
l'orologio e si decise ad andare. «Sarà
meglio che ti rimetti al lavoro. Ti faccio già
le congratulazioni: sarà 110 e lode,
vedrai».
- Andrea le sorrise
ancora, ma non rispose e l'accompagnò alla
porta. Un'altra scia di profumo gli confuse le idee e
gli venne il desiderio di sfiorarle i capelli. Dopo un
istante però ritornò alla
scrivania.
-
- Quello fu un
pomeriggio di grazia: dopo tanto tempo perso per
mancanza di concentrazione e confidenza con le parole,
ecco che tutto ritornò ad essere semplice. Gli
bastava leggere un punto della scaletta, pensarlo e
subito le frasi prendevano vigore sotto il ritmo
brillante ed energico delle sue dita alla tastiera.
Gli sembrava di essere tornato bambino, quando in
braccio a sua madre, scriveva i primi pensierini: "Il
gatto è sul tetto. Il bambino va al parco".
Erano frasi così stupide; eppure sua madre non
si permetteva mai di contraddirlo o di suggerirgliene
di più perfette. Semplicemente lo teneva sullo
scollo per fargli sentire che non era
solo.
-
- Sapeva che quella
tesi non era speciale: le sue considerazioni non
sarebbero passate alla storia e nessun editore avrebbe
pubblicato quelle pagine. Nonostante ciò, le
frasi si stendevano sullo schermo ed evocavano una
remota idea di completezza, l'una legandosi
solidamente all'altra, senza dover apportare troppe
correzioni. Si sentì fiero di sé, delle
sue potenzialità che certamente un giorno, non
lontano, sarebbero sbocciate e lo avrebbero liberato
dalla paura.
-
- Verso le venti suo
padre rientrò. Posò sul tavolo una busta
con dei mignon e tirò fuori dal frigo una
birra.
- «Andrea, sono
tornato».
- «Sì,
sì, ora vengo», gli rispose una voce da
una delle stanze interne.
- Intanto lui si mise
a cucinare. Dedusse che Andrea non aveva toccato cibo,
così preparò degli spaghetti e bistecca
con insalata. Aveva bisogno di energie, quel ragazzo.
La vita lo stava aspettando. Solo dopo tre quarti
d'ora, Andrea fece comparsa in cucina. Si sedette a
tavola e versò da bere nei
bicchieri.
-
- «Ce l'ho
fatta. Ho finito».
- «Olè...!
Bravo! Complimenti!»
- «Aspettiamo di
sentire cosa dice il professore. Ho appuntamento
domani alle dieci. Mi svegli tu?»
- «Sì,
sì, non ti preoccupare. Ora
mangiamo».
- Fu una serata
allegra. Al momento del caffè, Andrea disse al
padre: «Oggi ho detto a Monika della mia paura.
Senza sapere perché. Dopo però mi sono
sentito leggero, come se mi fossi liberato di un
peso».
- Il padre
ingoiò un mignon. «È bene dire le
cose. Sì, tutti hanno dei segreti e a volte
è meglio stare zitti, ma non con le persone che
ci vogliono bene. Monika è così
intelligente. Andrà a lavorare in televisione,
vedrai. Quella non ha mica peli sulla lingua. È
un vulcano. Devo ammettere che sua mamma è
sempre stata un po' grulla. Ma la Monikina è
venuta su bene, mi sembra una brava ragazza,
no?»
-
- Andrea lo
guardò teneramente. Se Monika fosse stata
lì, avrebbe proclamato il suo totale
disinteresse per la televisione. Già
s'immaginava la scena: si sarebbe inalberata con forza
e avrebbe cominciato uno dei suoi monologhi
disquisitori.
- «Sì,
è una brava ragazza. Ma forse non
lavorerà in televisione».
- «Televisione o
no, nella vita combinerà qualcosa di buono, non
ci sono dubbi...»
- «Ed io?»,
chiese Andrea.
- «Tu? Ma
sì... certo, anche tu. L'importante però
è che non desideri qualcosa di più
grande del tuo cuore. Perché lo sai, no? Il tuo
cuore è piccolo...»
- «Sì,
babbo, lo so. Me lo ripeti ogni santo
giorno».
- «Ho l'arterio,
Andrea. Ripeto le cose, perché sono vecchio e
il tuo cuore è l'unica cosa che rimane. Vai a
dormire, ci penso io qui».
-
- Il ragazzo fece un
cenno con la mano: uno di quei saluti che si fanno
quando si è sul treno e si sta lasciando la
stazione. Andò in camera e rilegò i
fogli mettendoli in una busta trasparente.
Preparò i vestiti per l'indomani e prese un
pezzetto di carta. Vi scrisse il suggerimento del
padre: "Regola numero uno: non desiderare ciò
che il tuo cuore non può contenere".
Ripassò le parole con un evidenziatore, come
per imprimerle dentro la carta, e una sua voce
interiore le ripeté fino a farle rimbombare
contro le pareti della stanza.
-
- Andò a
dormire: chiuse gli occhi e non pensò a nulla.
Per un attimo ebbe paura di un attacco d'ansia. Invece
tutto era tranquillo. Forse perché era
soddisfatto oppure perché aveva raccontato quel
segreto a Monika. Il giorno dopo lo avrebbe detto
anche ad Alessandro perché con loro non doveva
vergognarsi: avrebbero capito di certo. In quella
calma piatta d'Oceano che sposa l'orizzonte, un
gabbiano spuntò dal nulla. Volava a
rallentatore e le nuvole lo inghiottivano a tratti.
Andava verso un punto immaginario, in fondo al cielo;
più che un punto sembrava una macchia violacea,
che ricordava i colori delle vesti religiose. Il
gabbiano non aveva fretta: il suo volo seguiva una
pulsazione che si sarebbe persa nel vuoto da un
momento all'altro. Andrea lo vide meglio e gli
sembrò davvero vicino. Ancora più vicino
a quella macchia violacea che ora si era ingrandita e
si era messa anch'essa a pulsare faticosamente. Si
allargò fino ad invadere tutto il cielo e
continuò a battere. Di colpo il gabbiano
sparì, risucchiato da quel lago di viola che il
cielo era diventato e ci fu silenzio.
-
- «Andrea,
è ora». Il babbo avanzò nel buio
della camera e aprì la finestra per far entrare
il sole. Andrea dormiva così profondamente che
il padre si rammaricò di doverlo
svegliare.
- «Deve aver
fatto uno dei suoi sogni buoni»,
pensò.
- «Andrea, oh...
è ora!», ripeté il padre scuotendo
il corpo del giovane figlio. Lo scosse ancora, con
dolcezza, poi con più convinzione e si accorse
che il corpo non rispondeva.
- L'occhio
attraversò la stanza trasalendo e di sfuggita
scorse un pezzetto di carta sul comodino.
-
- «Andrea!
Andrea!». Lo sollevò dal cuscino e gli
baciò la testa, disperato. Di nuovo
guardò il piccolo foglio e questa volta vi
scorse delle parole: "Regola numero
uno..."
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