Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Umberto Li Gioi
Con questo racconto ha vinto il sesto premio al concorso
Città di Melegnano 2006, sezione narrativa

«Rio Preto»



Olinto aveva ormai trent'anni ma chi lo incontrava per la prima volta difficilmente avrebbe potuto intuire la sua età e ne avrebbe immaginati per lui una buona decina di più. Ma era difficile scorgerlo tra i nugoli di polvere in cui viveva disperso. L'unica cosa che sapeva far bene era tirare il collo ai polli - era stato il suo mestiere sin da quando, giovanissimo, aveva imparato - era diventata un'arte macabra che era cresciuta con lui. Come tutti nella selva era venuto al mondo per caso. Suo padre non se n'era quasi accorto - andava sempre di fretta sulla strada per Manaus. A quei tempi prendeva i pendolari a bordo del suo furgone giallo di lamiera contorta e dal capoluogo li trasportava nei villaggi sparsi per la foresta o viceversa. Così, quando Olinto era venuto al mondo, di lui nessuno aveva avuto notizie. Quella donna che lo aspettava col neonato tra le braccia, tra le lenzuola ancor sporche di sangue, era rimasta delusa, e con lei tutti coloro - pochi a dir la verità - che ancora confidavano nell'assennatezza delle sue scelte.
Aveva visto suo figlio per la prima volta nel giorno del battesimo, quando era arrivato in chiesa con un'ora di ritardo, sudato e trafelato, con la camicia color caffèlatte stropicciata di pieghe e priva di due bottoni. Gli sconfortati ospiti della missione salesiana lo avevano guardato con sdegnata disapprovazione, e lui, da quel momento, si era sentito maledetto dall'Onnipotente - tutte le disgrazie occorsegli in seguito le avrebbe giustificate col suo comportamento scellerato di quel giorno.
Il piccolino aveva poco meno di due settimane quando il sacramento gli era stato imposto. Da quelle parti si deve far presto perché l'amarillica e la malaria non hanno pietà, e non sarebbe cosa giusta che un bambino muoia senza esser stato affrancato dal peccato originale. Sua madre, forse per l'infallibile intuito di chi ha tenuto dentro di sé un figlio per nove mesi, aveva percepito nel suo modo di frignare qualcosa di poco promettente, e aveva cominciato a pregare perché i suoi dubbi potessero restar solo tali.
Anche Don Sebastiano lo aveva giudicato un po' strano, ma pur sempre un dono di Dio. Costui era l'anziano sacerdote a cui la chiesa aveva affidato la cura delle anime esiliate in quell'angolo dimenticato dal Creatore, e il suo compito era proprio quello di far loro capire che quell'Essere invisibile prima o poi si sarebbe ricordato anche di loro. Durante la cerimonia lo aveva calato nella fonte a testa in giù, reggendolo per i piedini e lui, al contatto fresco dell'acqua, anziché piangere come tutti gli altri bimbi, aveva spalancato gli occhi come se volesse fissarlo dal basso in alto. Don Sebastiano si era sentito in colpa e, dimenticando per un istante la sacralità del rito, lo aveva tirato su con uno strattone. Poi lo aveva battezzato ugualmente tra le sue braccia, accarezzandogli la fronte con la mano bagnata.
La donna che lo aveva messo al mondo lo aveva allevato così come si fa con l'unico figlio, almeno fin quando le forze l'avevano sostenuta, e fin quando il sudore non si era portato via la sua anima intrappolata tra le gocce che le imperlavano la fronte, madida tra le convulsioni della febbre.
Era rimasto quindi da solo, ed era cresciuto senza dar troppo fastidio a nessuno - tra le sue ingenue stravaganze, che molti nel villaggio consideravano deficienza d'intelletto, e l'indifferenza degli altri bambini che, più che prenderlo in considerazione, preferivano prenderlo in giro.
Già a tredici anni aveva ucciso il primo galletto. Il suo maestro, quel corpulento signore che tutti chiamavano Ze Pepe e che sembrava ingrassare soltanto con i profumi d'arrosto che si levavano dalle braci, gli aveva detto che solo se la sua mano fosse stata ferma come la pietra non avrebbe provocato alcun dolore alle vittime. E Olinto aveva irrigidito i polsi, deformandoli attorno alle sue vene pulsanti di sangue, così come si fa con un paio di tenaglie.
Non aveva tremato davanti al pensiero di dover dare la morte a un essere del Signore. Non aveva mai tremato, e con un sol colpo spezzava l'osso del collo agli sfortunati pennuti, sicuro di non causar loro sofferenza.
Quando Ze Pepe gliel'ordinava con un gesto eloquente o con un urlo, lui infilava la mano nella gabbia e chiudeva gli occhi, per lasciare alla sorte l'ingrato compito di scegliere il predestinato. Lo sollevava per le zampe mentre con l'altra mano lo stringeva poco sotto la testa - Non ti farò del male - pensava - stai tranquillo, ne sono certo.
Prima che il povero galletto avesse il tempo di capire che era arrivato il suo momento, in un attimo gli strappava la vita. Poi, mentre faceva colare il sangue dopo averlo appeso a testa in giù alla stessa corda che la sera le donne usavano per stendere la biancheria ad asciugare, s'inginocchiava sotto di lui e lo fissava tra gli occhi che andavano spegnendosi - era terribilmente attratto da quel passaggio dalla vita alla morte che lui stesso aveva avviato - incuriosito da quel collo allungato che forse aveva trascinato via il respiro prim'ancora che la vita stessa. Continuava a porsi domande come se l'immagine vacua che aveva davanti potesse dargli prima o poi le sospirate risposte. Lo spennava e lo portava a Ze Pepe, che lo vedeva arrivare da lontano.
- Un povero scemo, non è altro che un povero scemo - recitava costui indispettito a chi si era fermato ad osservare la scena da lontano.
Quindi tagliava la carne in pezzi e la innestava negli spiedi che giravano lenti sulla fiamma, mentre Olinto restava incantato tra le scintille che guizzavano attorno, attizzate dall'olio e dal grasso che si scioglieva.
Rio Preto da Eva era uno scalcinato villaggio che appariva per caso nel cuore dell'Amazzonia brasiliana, a cavallo tra fiumi nascosti dalla foresta e la strada di terra rossa che la spaccava in due parti. Poche case bianche, i cortili, la polvere e tanti polli. E alle spalle l'immensa barriera verde che si arrampicava a cercare le nubi sparpagliate nel cielo.
Il sole, la pioggia, ancora il sole e poi di nuovo la pioggia - il tempo era un capriccio delle stagioni. E lì davanti, quasi ad attirare gli autisti dei bus e delle auto di passaggio, la locanda di Ze Pepe.
Ze Pepe aveva sistemato la fornace all'aria aperta, sotto l'insegna del locale, e gli spiedi che giravano sul fuoco non restavano mai vuoti - come in una catena di sincronismi impeccabili sostituiva la carne ormai cotta con quella ancora sanguinolenta che gli arrivava direttamente dalle mani ormai callose di Olinto.
I polli che entravano nella grossa gabbia intrecciata col filo di ferro erano destinati al martirio mentre, sullo sfondo, i resti dei loro simili infilzati negli spiedi s'indoravano al sole.
La gente fermava il proprio mezzo, parcheggiandolo in un punto qualsiasi del largo spiazzale, e andava a sedersi tra i tavoli in comune che abbondavano disordinatamente nell'ampia veranda su cui una tettoia di canne secche proiettava un'ombra ristoratrice.
Ze Pepe completava il pranzo servendo riso e fagioli neri, e annaffiandolo con la birra che giungeva direttamente da Manaus su grossi camion che si fermavano pieni e ritornavano vuoti dopo una settimana.
Quel giorno di luglio, all'apparenza uguale agli altri, soffocava di calore chi attraversava la selva - l'umidità si condensava sulla pelle, impastata con la polvere rossa che stagnava nell'aria priva di vento, sospesa sulla strada dilaniata da solchi profondi di pneumatici.
I traballanti trattori che trasportavano tronchi ormai morti, simulacri d'alberi abbattuti e depredati, filavano via senza fermarsi mentre Ze Pepe, incurante di tanto scempio, continuava tranquillamente a girare gli spiedi, a svuotarli e a riempirli di nuovo.
Olinto afferrava i polli e, al solito segnale, tirava loro il collo - come ogni giorno - come sempre.
Verso le tre di quel pomeriggio un folto manipolo di operai aveva preso posto nel locale, sotto la tettoia. Erano assetati, ma soprattutto affamati - si erano scolati intere bottiglie di birra e tanti bicchieri di guaranà, e nel frattempo avevano ordinato da mangiare. Sporchi nel viso, come se si fossero rotolati per terra, non avevano avuto esitazioni ad afferrare il pane ed il riso con le mani, sporche ancor più dei loro volti. Per saziare quella dozzina di belve affamate sarebbe stato necessario immolare diversi polli. Se non fossero bastati quelli già nella gabbia, si doveva cercare di raccattarne qualche altro tra i tanti che razzolavano liberi là attorno. Ze Pepe aveva cominciato ad agitarsi perché la carne arrostiva e i rifornimenti scarseggiavano. Poi, ad un certo punto, si erano addirittura interrotti.
Negli ultimi giorni Olinto gli era apparso più strano del solito.
Lo aveva trovato spesso oltre la gabbia, con il pollo appena ucciso tra le mani e lo sguardo fisso sul collo dell'uccello che penzolava scosso dai movimenti sussultori che lui stesso gl'imprimeva, ora verso destra ora verso sinistra.
- Sei proprio uno scemo - glielo aveva ripetuto ogni volta - anzi, più cresci e più lo diventi - Ed era stato costretto a strappare via i galletti dalla sua presa per portarli lui stesso al braciere.
Olinto rimaneva solo e ripensava a quando, solo alcuni istanti prima, aveva tremato al momento di tirare il collo alle sue vittime. Aveva tremato, le sue mani erano state percorse da un fremito e non era stato più sicuro di esser capace di ucciderle senza far provare loro del male. Non erano più ferme com'era sempre accaduto. Aveva provato paura, aveva pensato al dolore che sicuramente aveva provocato - un dolore sconosciuto e mortale. Aveva perso per sempre tutte le sue certezze d'innocenza. Quel pomeriggio, quando gli operai avevano cominciato a levar proteste per il ritardo, Olinto aveva lasciato i polli e si era allontanato fino al magazzino di travi di legno. Aveva raccolto una corda - una di quelle per legare i cani quando digrignano i denti agli sconosciuti - e l'aveva legata ad una delle travi del tetto. Poi se l'era passata attorno al collo dopo esser salito su una catasta di assi. Quindi si era fermato.
Adesso stava lì, fermo sulle gambe ma tremendamente incerto nei pensieri. Cominciò a muovere il cappio, stringendolo e girandolo, per provare le diverse forme della morte - il lento dolore di una morsa sempre più stretta
Guardò le sue mani aperte davanti agli occhi - come in una preghiera - e le vide ancora una volta tremare, prima una poi l'altra - poi entrambe nello stesso momento.
No, non era più il caso di far soffrire quelle povere creature destinate comunque alla fine. Se non poteva più ucciderle senza torture, era giusto smettere. Ma prima di lasciare ogni cosa volle sapere - volle rendersi conto una volta e per tutte - volle capire, volle sperare di non aver vissuto invano. Di non esser stato un boia. Volle conoscere se aveva davvero provocato quel dolore che aveva sempre ritenuto impossibile.
Ze Pepe, aizzato dalle urla dei suoi avventori affamati, andò a cercarlo infuriato, deciso a fargliela pagare - Mi sentirà quello scemo - sfilò via la cintura dai calzoni - gli lascerò un segnale addosso che quando sarà vecchio al solo vederlo dovrà inorridire.
Fu lui a inorridire quando, dopo esser stato attirato dentro al magazzino dal rumore sordo delle assi che si sparpagliavano per terra, entrò e vide il corpo del suo unico figlio dondolare nella penombra attaccato a una corda.
Impietrì - gli occhi sbarrati di entrambi rivelarono, in tutto e per tutto, il legame di sangue. I loro sguardi si riflessero l'uno nell'altro come davanti a uno specchio. La straordinaria somiglianza che tutti avevano sempre notato e che gli aveva dato sempre tanto fastidio aveva toccato il suo punto più alto nel confronto tra il trapasso e l'orrore - tra la morte del corpo e quella dell'anima.
- Il mio piccolo scemo - lacrime pesanti sembrarono portar giù le sue parole inutili - Il mio piccolo scemo mi ha lasciato per sempre - La maledizione che riteneva lo perseguitasse si era materializzata nell'irreparabile.
Il viso di Olinto invece si era addolcito, rilassandosi dopo lo spasmo. Non aveva sentito nulla - sicuramente non aveva provato dolore. Per questo adesso sembrava sorridere.

Umberto Li Gioi


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 Ins. 20-09-2008