Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Umberto Li Gioi
Ha pubblicato il libro

Umberto Li Gioi - Quando cominciammo a viaggiare


 
  
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
 
15x21 - pp. 148 - Euro 12,00
 
ISBN 88-6037-197-X

 
In copertina fotografia di Umberto Li Gioi
 

Pubblicazione realizzata con il contributo de
IL CLUB degli autori in quanto l'autore è 2° classificato
nel concorso letterario «M. Yourcenar» 2004

 

Prefazione
Incipit 


Prefazione
 
 
"Quando cominciammo a viaggiare" di Umberto Li Gioi è un appassionato recupero memoriale che miscela il ricordo degli amici, degli incontri, delle vicende vissute che hanno segnato in positivo la vita d'un uomo. Le sue parole sono pervase da un desiderio di raccontare una stagione della propria vita che diventa simbolicamente un inno alla gioia di vivere, di viaggiare, di sentirsi liberi, di gustare la vita anche nelle minime cose. In fondo può considerarsi un tentativo di offrire uno spaccato delle esperienze vissute ma sempre volgendo il suo sguardo al lato positivo: a volte il suo racconto è velato da un tono ironico e divertito, altre volte prevale un accento quasi nostalgico, altre ancora si può percepire l'immensa felicità nel ricordare i "bei tempi" nei quali lui e gli amici avevano cominciato a viaggiare con la mitica Cinquecento azzurra.
Ci si rende subito conto che tutte le persone incontrate hanno raccontato ed offerto qualcosa di interessante pur seguendo il loro destino che, inevitabilmente, le ha disperse nel tempo e, come in un labirinto del luogo dei ricordi, emergono i frammenti d'un periodo, le fulminee emozioni percepite in quegli anni, le atmosfere suggestive della Sicilia, e le storie rivivono e vengono illuminate dalle parole di Umberto Li Gioi.
E pare di averli davanti agli occhi gli amici: Marcello, detto Riccio, il seminarista pentito che poi avrebbe influenzato in modo fondamentale il passaggio dall'adolescenza all'età adulta; l'amico Renato e Vito, il compagno più studioso, lo zio Michele con il suo chiosco di bibite dietro la stazione ferroviaria e poi il periodo degli esami di maturità, i compagni di scuola, le vacanze estive, le fantasie adolescenziali e gli incontri della notte con i compagni di viaggio quando il mondo sembrava fosse lì a portata di mano e bastava prenderlo.
Spiriti inquieti di giovani che peregrinavano nella notte e nelle assolate giornate estive: i luoghi della memoria come quel "faro rosso" tra i flutti, il cine teatro Bellini con le sedie di legno scheggiato e le locandine dei film western alle pareti, la rivendita di tabacchi della stazione, l'odore metallico dei binari e la polvere dei treni che passavano chissà con quale destinazione, e poi l'incanto del mare azzurro, l'aria frizzante della gioventù, il primo avventuroso viaggio con mèta l'isola di Pantelleria, gli attimi magici in cui pareva di "volare".
Ancor più quando a diciotto anni la Cinquecento azzurra fece raggiungere l'autonomia e cambiò radicalmente la vita permettendo veramente di viaggiare per le strade della vita.
Ma il tempo passa e trasforma le cose, i luoghi, le immagini, le emozioni e anche noi cambiamo: le notti passate non concedono il bis, lo sguardo non può rimanere rivolto all'indietro.
È proprio con questo stato d'animo che Umberto Li Gioi racconta un periodo della propria vita e, "si racconta", in modo magistrale, avvincente, entusiasta nel rivivere frammenti del "tempo", schegge inebrianti d'un modo di vivere, e non v'è mai, a mio avviso, un rammarico del tempo andato ma piuttosto un desiderio fremente di ricordare i giorni che sono stati fondamentali per formare la sua personalità e il suo modo di intendere la vita.
"I ricordi sono come i sogni": le giornate straordinariamente intense e le sue parole di oggi rendono giustizia. Poi, anche lui, s'è sovente accorto che da un treno in corsa il mondo "può assumere altre prospettive": e forse, è proprio in quel momento che ci si sente davvero liberi.
Il viaggio non deve essere una fuga ma una nuova entusiasmante esplorazione. Come è giusto. La consapevolezza è che c'è sempre un nuovo viaggio che ci attende. Ecco perchè quei giorni, oggi, sembrano "fuggiti", divenuti ormai leggenda personale: così la cinquecento azzurra come gli occhi verdi d'una ragazza nei quali perdersi. Un nuovo viaggio è ormai in preventivo.
 
Massimo Barile
 

 



Quando cominciammo a viaggiare
 

Ad Andrea V. e a tutti quelli che non ce l'hanno fatta.

 
 

In pieno inverno, un ricordo d'estate
 
 
 
Sul molo della lanterna rossa, io e il Riccio, una notte di gennaio.
 
 
Una sigaretta accesa.
Il fumo denso, acre, che si divincola nel suo colore elastico, privo di toni, privo di chiaroscuri - il fumo leggero di una Camel che invade l'aria racchiusa nell'auto ferma sul molo, con le ruote a pochi metri dal mare.
Gli occhi di lei, il verde d'un limone appena sbucciato, che rilucevano al sole di quell'estate lontana dell'82 - occhi illuminati da quell'azzurro d'acqua da cui erano emersi e che brillava maliardo tra gli scogli a incorniciare la storia - occhi tagliati sul viso, vagamente orientali, sornionamente felini, di una gatta persiana sdraiata tra i tappeti di un'alcova nascosta agli sguardi e ai pensieri indiscreti di tutti.
Un pacchetto di Camel, giallo, miscela turca - l'unica cosa rimasta di lei - l'unico regalo a uno che non aveva mai fumato e che adesso, per non distruggere quel ricordo, porta sempre quelle sigarette in una tasca.
Un pacchetto così bello, così colorato, da fargli raccontare in giro d'averlo scelto per il disegno stagliato tra le palme di un'oasi di caldo egiziano - come quel caldo che nei mesi estivi soffoca e rilassa sulla riva del mare.
Lei era bellissima - bellissima nei ricordi - per quello che aveva rappresentato - la ragazza del primo bacio vero, di quel bacio che assume e conserva tutti i sapori, e i fremiti e i sogni e i desideri che si avverano - di una vita che sta per esplodere, che ha ancora tanto e tutto da mostrare e dimostrare.
Lei era quella che aveva dato un significato a un'avventura nata per caso ma voluta, piena di aspettative - piena di sperati risvolti che se non li speri è inutile che tu faccia qualsiasi cosa. Lei era quella che guardavo tra le gocce di pioggia - quella che catturava i miei sguardi con un lampo degli occhi - quegli occhi che cercavo di calamitare nei miei, tra pupille impazzite che annullavano i timori e accendevano i sensi - quegli occhi annebbiati, nascosti, velati dal fumo di una delle sue Camel che diffondeva strati di foschia nella mia mente, mentre ancora le gocce di pioggia, della solita pioggia delle quattro del pomeriggio, profumavano l'aria con l'odore muschioso della terra bagnata.
Chissà dov'è adesso lei - chissà com'è, se c'è ancora, o vive soltanto nei miei ricordi come un sogno sognato prima dell'alba - poco prima di svegliarmi e aprire gli occhi per rendermi conto che tutto è finito, mai stato, al di fuori di quel mondo che ogni notte rinasce e scompare senza lasciar traccia, come un vampiro impaurito dalla luce incipiente che si rinchiude nel sepolcro prima che sorga il sole - per non morire e poter rinascere col prossimo buio.
I pensieri volano alti, trasportati dal fumo verso un misterioso e inesistente "dove", fino a perdersi alla vista e alla mente nel cielo nero di una notte fredda e stellata d'inverno, mentre le parole adesso tacciono per accompagnarli in quel viaggio, e le bocche preferiscono buttar fuori solo respiri impregnati di tabacco.
Mare calmo - scendiamo dall'auto - fa freddo.
Sul molo incrinato e tormentato da crepe d'asfalto, riempite dall'acqua piovana degli ultimi giorni, i nostri passi restano il solo rumore che infrange il silenzio - le nostre parole ripartono e si ammassano negli spazi creati come le righe d'un quaderno da riempire, dove possono perdersi se non metti i numeri in fondo alla pagina per poi andarle a cercare quando avrai voglia di rileggerle.
Così mi accorgo che tutto il frullare d'idee gira e rigira sempre attorno a lei, pensiero - momento culminante - di quell'avventura cominciata poco lontano da qui, ai piedi di quel faro rosso che adesso, di notte, riesco a scorgere solo quando lampeggia per rivelare la sua presenza nascosta - ultimo lampo prima del mare aperto - ultimo punto di questa terra protesa sul mare che offre l'arrivederci a chi parte e il benvenuto a chi arriva.
Proprio qui il bandolo intricato della matassa ha cominciato a svolgersi - una volta trovato il capo ed impugnatolo tra le mie mani, l'intreccio ha iniziato a dipanarsi velocemente, inesorabilmente libero, verso il suo destino finale - se esiste un destino - per chi crede che ogni cosa sia volta a una meta già decisa a priori, non determinata da eventi casuali.
Il filo segna un cammino, un sentiero tortuoso - scavalca gli ostacoli - affonda e riemerge - gioca a rimpiattino. Ma all'altro capo la matassa è ben salda e compatta, attorcigliata con un cappio al rosso metallico di quel faro che nella sua vita ha l'unico compito di accendersi e spegnersi con intermittenza continua - di pulsare col suo cuore di ferro - sento quel tic tac privo di vita - senza sangue che scorre, con le vene e le arterie gelate dalla sua non vita.
Quel battito, quella matassa che si srotola, quella strada tracciata - o che va tracciandosi - quelle notti insonni, quelle calde giornate di luglio quando Pablito diventava il "pichichi" di Spagna, quando per festeggiare una vittoria ci tuffavamo in mare con i vestiti addosso - quegli occhi verdi di gatta, quel costume bianco, il fumo di quelle Camel che non avevo mai visto e divenute simbolo di una vita che non conosce simboli e che forse li accetta solo come puntelli del suo divenire. E quel faro - gigantesco - immenso - padrone del cielo e del mare, accarezzato dai venti del sud, dei quali lui solo conosce, interpreta e traduce la lingua atavica e ossessiva. Da lassù scruta lo spazio e il tempo, dimensioni diverse e parallele che non si toccano ma che si sfiorano, anche scambiandosi baci e donandosi fluidi - come quando baciavo lei tra le onde e il suo sorriso s'apriva - pieno di tutto - pieno di me come uno specchio.
Notte, notte, sempre la notte - quando tutto sembra tranquillo - quando niente di male pare accadere - lenimento, analgesico, nello stato di veglia.
Domattina, quando mi sveglierò tra le coperte del mio letto di adesso - nel sudario della realtà - non ricorderò nulla. Niente mi offrirà più questi fremiti che adesso sembrano eterni. Domattina sarò un altro, o forse lo stesso di sempre - è ora che sono diverso, probabilmente me stesso, quello che ero - quello che sarei voluto restare per sempre. Quello che non potrò più tornare ad essere se non tra le braccia della notte - di una silenziosa notte d'inverno dell'emisfero boreale - l'estate dell'anima.
Il freddo attiva la circolazione del sangue, la circolazione dei sogni - il traffico dei ricordi ormai miscelati ai pensieri del dopo - filtrati dagli anni passati e dai fatti accaduti.
Il filtro sono io - come il filtro di una sigaretta, di una di quelle Camel che sto fumando. Sono io che rivedo, che traspongo - che riaccendo i carboni morenti dell'immenso braciere. Riaccendo i suoi occhi mai spenti, e il ricordo di quello sguardo mi capta di nuovo - mi stordisce - riaccende anche me.
I vapori del fuoco assalgono pian piano tutti i miei sensi - riavviano il motore - un processo che dura un istante ma che sembra una vita. Quel motore girerà fino a domani - fino a quando, intorpidito dal sonno, avrà bruciato tutto il carburante messo a sua disposizione.
La notte.
Cos'è che mi fa pensare - che mi fa ricordare, graffiare il cielo - che mi fa tornare indietro ad imboccare il tunnel senza ritorno?
La notte - unica, inimitabile quiete piena di angosce per quello che ho vissuto e che non è andato come volevo - che è andato via senza possibilità di rivalsa.
Tu ancora te ne rammarichi caro amico mio - ancora ti mordi le mani per tutto quello che avresti voluto fare e che ora faresti col senno coraggioso del poi. Aspetti sempre che le parole possano mutare qualcosa, rivangare il passato, dissodarlo come un terreno da ricoltivare - la notte se lo carica sulle spalle il tuo pesante fardello - ti alleggerisce, ti svuota, ti spreme. La voglia di rifarlo, di riviverlo - la voglia di tutti quei giorni passati insieme, dei tuffi, dei boccali di birra traboccanti di schiuma sollevati al cielo come trofei appena conquistati - la voglia di esserci non ci abbandonerà mai, e la notte attacca i tuoi pensieri accarezzati di nostalgia che come miele gocciola giù, senza fretta - addolcisce la tua mente, le tue parole che tornano a farsi frammenti, le tue risate che fendono il silenzio accompagnando i nostri passi sull'asfalto bagnato.
Da dove ricominceresti? Dalla notte.
Ci sarà stata una notte simile a questa - ce ne saranno state cento, forse mille - con gli stessi pensieri, gli stessi progetti - malinconie, gioie, delusioni. Inutili giochi mentali proiettati nell'oscurità - salti mortali, piroette amorfe senza una meta, senza un finale. O forse - è incredibile - forse non è mai esistita una notte. Il faro rosso - l'unica certezza di questa storia - l'unica certezza di sempre. Sul molo, nella mente, in tutti questi anni. Nelle nostre vite.
Ombre oscure, enormi distese di nero - sprofondo senza accorgermene, e poi me ne avvedo quando sono là, in mezzo al vortice. Il nero assorbe i colori, assorbe i pensieri e li annulla in me stesso.
Dov'è la luce? Dove sono il mare ed il cielo? Confusi verso la città - divisi soltanto dalla striscia lontana di luci d'auto. Ho tolto l'unico freno che avevo, quello che m'impediva di precipitare.
Penso all'estate - il sole, l'odore caldo del vento - la pelle bagnata del braccio che appoggiavo sul viso per raccogliere tutto, per abbracciare me stesso senza far disperdere nulla.
I gabbiani - come quello che un giorno portai a casa - le urla di mia madre che lo vide entrare di nascosto, le ali che spalancò appena lo adagiai dolcemente sul letto temendo che fosse ferito. La grandezza di un animale degli spazi immensi, senza limiti come il mare che non ha confini e del quale i miei occhi sentono la mancanza ogni qualvolta scompare allo sguardo.
Ricordo quel mare - i timori che incuteva quando ci guardava da laggiù, dal fondo di quel precipizio lontano ai piedi del faro - della sua irrinunciabile schiumosa attrazione. Il cuore dell'estate - che batte, che sale in gola e piomba giù, batte e risale - si ferma - freme, vibra, oscilla - si agita, si riempie e si svuota. Gli occhi si abituano - la notte ora vive. Dietro al molo le nubi argentate dalla luna - mezzaluna, punti di stelle - appaiono, scompaiono, bucano il cielo come teste di spillo mentre i pensieri ricominciano a gridare, a soffiare da dentro la brezza dei ricordi - dalle immagini diafane al chiarore di riflessi sfocati e margini d'ombra.
Gennaio - l'aria è straziata dai richiami dei gatti in amore, e l'odore pungente dell'urina esala da angoli nascosti. Suoni, rumori - sempre gli stessi - avvolti nei loro nascondigli che si spalancano pian piano, senza fretta, senza un motivo, dal profondo di un unico esaltante caleidoscopio - di un puzzle - di una notte qualunque.
 

 
Forse i fatti narrati nelle prossime pagine potrebbero essere realmente accaduti, ma dato che si riferiscono ad avvenimenti di oltre vent'anni fa, anche se così fosse non avrebbero motivo di nuocere ad alcuno in quanto appartenenti ad un tempo e ad un mondo ormai lontani, in cui ognuno di noi era libero di agire come meglio credeva.
 
 
Prologo
 
 
 
Giugno 1981, alcuni giorni dopo il terremoto.
 
 
Mancavano solo poche settimane agli esami di maturità - l'estate aveva voglia di far presto e ci spronava a tutto, tranne che allo studio.
Come ogni pomeriggio, dopo la moderata porzione di ripasso sui libri, ce ne andammo a zonzo sul nostro motociclo bianco, tra il molo della lanterna rossa e le strade semideserte della città.
Erano giorni che non avevamo notizie di Marcello, il nostro compagno di viaggio. Lui e Renato avevano avuto uno screzio tra i tavoli verdi del biliardo - se c'era una cosa che lo mandava in bestia era senz'altro il sentirsi preso in giro, e tra una palla colpita male e una battuta fuori luogo, lui aveva provato questa sgradevole sensazione.
Si era eclissato, barricandosi dietro la banale scusa degli esami, ma noi non ci avevamo creduto.
La terra sembrava essersi chetata e le scosse telluriche dei giorni precedenti avevano smesso di travagliare il sonno della gente.
Quel pomeriggio, quando era già tardi, decidemmo di gironzolare attorno a casa sua, nell'intento di osservarlo senza esser visti. Lo trovammo là, in compagnia del fratello - stavano scaricando, dall'auto con il portabagagli spalancato, due sacchi di plastica colmi di ricci di mare, e li stavano dividendo distribuendoli in altrettante cassette di legno - di quelle dove al mercato compongono la frutta.
Aveva accorciato a dismisura i suoi capelli neri, che tesi e appuntiti sulla testa lo facevano assomigliare proprio ad uno di quei ricci che stava maneggiando con cura per non ferirsi.
A noi, nascosti oltre la stretta stradina che immetteva nella piazza, non mancò l'acume di spirito per fotografarlo definitivamente in quell'immagine.
E da allora Marcello divenne e restò il Riccio per sempre.

 
Viaggi nella memoria
 
Anni di scuola passati in fretta, raccolti in un solo ricordo, rinchiusi in quella gabbia senza uscita che è la memoria, tra le sue pareti di specchi.
Ho giocato con il mio tempo ammirandolo da un'altalena che mi spingeva in alto e mi riportava rapidamente giù, lungo un percorso immutabile - a mia insaputa già scritto.
Ma quella velocità, quelle vertigini, che me lo mostravano da angoli sempre diversi - soffiati dal vento - mi hanno ingannato.
Ci muoviamo su rotte inconsciamente a noi note.
 
 
 
 
Quando il Riccio entrò per la prima volta nella nostra aula di ginnasio, l'estate del '77 stava ormai battendo i suoi ultimi colpi di coda, pur senza mostrare segni incontrovertibili di quello che sarebbe stato il suo definitivo arrivederci.
C'era chi, ancora libero da impegni, continuava ad andare al mare, e chi invece utilizzava le ultime energie disponibili tra la polvere e il mosto della vendemmia, e mentre i camion con i cassoni pieni di grappoli d'uva affollavano i piazzali delle cantine incolonnati in lunghe file che si protraevano tranquille fino ben oltre il calar del sole, la gente di campagna viveva serena ai ritmi lenti e ancestrali di quel rito.
L'inizio del nuovo anno scolastico era arrivato puntuale ed assonnato ad incrinare quell'andirivieni di quiete, senza peraltro contribuire più di tanto ad accelerare il battito del tempo. Io ero ancora un bambino, nonostante facessi di tutto per mostrarmi grande agli occhi degli altri.
In inverno, per apparire importante, trasmettevo da una radio privata ogni domenica mattina prima dell'alba. Trascorrevo così le ultime ore della notte in uno studio radiofonico con le pareti tappezzate di grigi cartoni per le uova, con le cuffie sulle orecchie ed il sonno violentato dolcemente dalle canzoni che passavano sui piatti, scivolando via dai solchi del lucido vinile dei trentatré giri.
Durante la settimana le compagne di scuola mi riempivano le tasche con i loro bigliettini di richieste musicali. Spesso ricambiavano la promessa di una dedica in diretta con un bacio, e quando il programma terminava, mentre la città ancora dormiva, qualcuna di loro mi invitava a casa sua e mi preparava la colazione.
Le estati le avevo sempre trascorse al fianco dei miei genitori, e mi stava bene così, anche se a volte invidiavo quei coetanei che possedevano già uno spiccato senso d'indipendenza che li portava a girare da soli e a scegliere con gli amici la meta delle vacanze, e soprattutto a trovare la forza d'imporsi alle lagne di padri e madri troppo apprensivi. Salutavo i compagni di scuola alla chiusura delle lezioni e li riabbracciavo quando queste riprendevano in ottobre.
I miei genitori erano molto protettivi ed io difficilmente riuscivo ad allontanarmi dai loro spazi per conquistarne di miei. Non stavo male, per carità, ma quando si presentava un'occasione di fuga dovevo far di necessità virtù ed inventare scuse e coperture che potessero in qualche modo garantirmi.
Così, quando il Riccio varcò la soglia della classe chiedendo se quella fosse proprio la quinta B, non potevo certo prevedere cosa sarebbe accaduto, nascosto dietro un apparente stato di calma che di lì a poco sarebbe radicalmente mutato.
L'evoluzione del Riccio, che arrivava anche lui da un'esperienza ammorbidita, fu l'esempio lampante di come spesso, dietro ogni umano comportamento, c'è sempre una buona dose d'entusiasmo a volte però priva della forza necessaria per durare tutta la vita. Figuriamoci nelle scelte di un ragazzo di undici anni o poco più, capace di bruciare in brevissimo tempo tutte le immagini futuribili che si erano formate all'interno della sua mente.
Il Riccio era riuscito a disintegrare in poche settimane le elaborazioni che aveva creato e costruito in quattro lunghi anni.
A quell'età, dopo aver terminato gli studi elementari, colto da una vocazione mistica al sacerdozio durante la partecipazione ad una colonia estiva per ragazzi, si era lasciato trasportare dai suoi propositi, nonostante il cruccio malcelato di genitori e parenti. Ma quando queste cose accadono, non si sa bene spinte da quale misterioso ardore, sono difficilmente contrastabili, almeno fin quando non diminuiscano le motivazioni magari deluse dall'esperienza.
Così quello spirito puro aveva deciso di continuare gli studi in seminario, dove la libertà era praticamente ridotta a poche ore d'aria nel cortile di un imponente e minaccioso edificio, ed il mondo esterno veniva condensato in momenti gioiosi da trascorrere tutti in compagnia.
Ma a undici anni si viveva spensieratamente anche là dentro - si faceva tutto sotto i raggi del sole - si affrontava la vita senza pensare al futuro, divertendosi con quel che passava davanti, ed il Riccio, che non era certamente uno di quelli che si chiudeva in sé stesso per darsi alla meditazione o per paura del mondo, era riuscito a circondarsi d'una cerchia d'amici - la maggior parte di coloro che avevano condiviso le sue stesse intenzioni. Aveva imparato a suonare la chitarra, e una chitarra, si sa, apre mille porte, attrae come una calamita e sviluppa aggregazione, avvolgendo chi la suona in un'aura di fascino. Potere della musica la cui fonte è magica.
Con quel carattere e quella visione spensierata delle cose era riuscito a vivere bene, inconsapevole di ciò che avveniva fuori, dove la vita esplodeva in disegni dai mille colori. Le interminabili giornate estive lontano dalla famiglia, passate tra quattro mura e un atrio assolato, le trascorreva senza troppi problemi o dilemmi interiori. E i giorni delle colonie estive che lo avevano fatto innamorare di quella vita che, ai suoi occhi, non appariva ancora piena di sacrifici e rinunce, completavano il panorama di quello che doveva sembrargli un grande gioco.
I genitori lo andavano a trovare spesso. La distanza da casa era molto relativa, ridotta a poche decine di chilometri, e non aveva creato una frattura del legame fisico con i parenti. Adesso anche loro sembravano contenti della scelta del figlio maggiore, una decisione che in fondo gli assicurava pur sempre un futuro certo anche se con la tonaca addosso.
Ma un bel giorno il gioco era finito - era scemato a poco a poco, come finisce un amore, a volte senza un motivo - dapprima con sintomi insignificanti e piccoli episodi, e poi con esplosioni sempre più avvelenate dai morsi dell'insofferenza che avevano roso di nascosto la vitalità di quell'affetto spontaneo sbocciato quattro anni prima. Distrutte le radici che prima affondavano profonde nell'anima a succhiare la linfa vitale della passione, tutto il resto - la parte svelata di quella storia d'amore - era seccata rapidamente, priva della sua fonte di nutrimento.
Il Riccio aveva passato le giornate di quella che sarebbe stata la sua ultima estate in seminario in una condizione interiore terribile. Aveva fatto tutto di malavoglia e più erano andati via i giorni più era maturato in lui il desiderio di abbandonare ogni cosa.
I segnali inconsci del suo malessere erano divenuti sempre più evidenti e lo avevano spinto a rendersi conto che la sola cosa che restava da fare era proprio quella che lui temeva di più: rivelare agli altri e a sé stesso la sua decisione.
Come l'avrebbe presa il responsabile del seminario che tanto lo adorava, ritenendolo uno degli allievi più promettenti e più portati a prendere i voti? E come l'avrebbero presa i genitori, ai quali il boccone inizialmente amaro della scelta era andato giù da un bel pezzo? Ormai loro vedevano soltanto i lati positivi della vita ecclesiastica. Sarebbe stato un brutto colpo per tutti.
Quei pensieri, che producevano laceranti devastazioni nella sua mente, non lo avevano però sviato dalla decisione già metabolizzata, e così una sera, dopo l'ennesima manifestazione d'intolleranza sfociata nella rabbiosa distruzione della gettoniera di una cabina telefonica, era stato convocato dal responsabile che era riuscito a fargli finalmente sviscerare la volontà di abbandonare il seminario.
Il Riccio aveva sempre riconosciuto l'autoritaria presenza dell'anziano rettore, un sacerdote la cui statura morale era di gran lunga superiore a quella fisica, ferreo custode delle regole dell'istituto, temuto dagli allievi a tal punto che la sola apparizione della sua ombra in cima alle scale riusciva a frenare il loro impeto giovanile. Venir meno all'affezione verso quelle regole aveva decretato l'addio.
Ai genitori non era rimasto altro che accettare la nuova scelta, e cominciare a cercarne i nuovi possibili lati positivi.
Io non potevo certo immaginare che l'entrata in scena di un seminarista pentito avrebbe sottoposto la mia vita a quei cambiamenti prima lenti e poi poco a poco sempre più graduali che costituirono la leva necessaria per il passaggio dall'adolescenza all'età adulta. Essi avrebbero realizzato uno strappo definitivo con quello che poi, osservato dalla distanza degli anni, sarebbe rimasto il mondo racchiuso tra i confini della mia infanzia.
Il Riccio, visto per la prima volta dal mio posto di fronte alla cattedra, sembrava portarsi ancora addosso quell'aura di santità acquisita nei quattro anni di avvicinamento al sacerdozio. Aveva in volto e nel sorriso il candore di chi ha vissuto una realtà talmente genuina per così tanto tempo da averne assorbito dosi massicce e, anche se da quel momento in poi avesse cercato in tutti i modi di sbarazzarsene, quel non so che di idilliaco lo avrebbe permeato ancora per un po' di tempo. Ma questo ancora non poteva saperlo.
Io e Renato facevamo coppia fissa già da un anno, compagni di banco e di studi.
La nostra passione principale, tutt'altro che celata, consisteva nel prendere in giro la gente. Durante il primo anno di ginnasio, un nostro professore, pensando di fare cosa giusta, ci aveva messi assieme. Aveva azzeccato, solo che la sua opera gli si era rivoltata contro e la prima vittima del neonato connubio era stato proprio lui, preso di mira, durante le ore di lezione, dalle nostre fantasie che lo vedevano assalito da una schiera di pinocchi impazziti.
Stare seduti davanti alla cattedra non ci consentiva un riparo quando le risate prendevano il sopravvento, e spesso ci rifugiavamo sotto il banco, accovacciandoci a fingere di allacciare le scarpe.
Il bersaglio preferito e predestinato dei nostri spassi era Vito, il compagno più studioso, un carissimo amico che però aveva, mal per lui, due difetti: un naso aquilino un po' troppo sviluppato ed un metodo di studio che prediligeva la produzione di una gran quantità di appunti, sparsi in foglietti disordinatamente distribuiti tra le pagine di libri e quaderni. Se ne scuotevamo uno, questi svolazzavano via leggeri, come foglie al vento d'autunno.
Fu allora che cominciammo a disegnare le nostre vignette, dapprima improvvisate e schizzate di nascosto sul diario, ed in seguito create in serie per rendere meno noiose le interminabili giornate di studio.
Vito all'inizio ne fu l'assoluto protagonista e questa saga a fumetti lo vide sempre travolto da qualcosa - da un rullo compressore mentre cercava di recuperare un pallone malauguratamente rotolato in strada, o dall'improvviso crollo di un muro, o da quanto di più nefasto fosse capace d'immaginare la nostra mente perversa.
Poi subentrarono altri personaggi, improvvisati e passeggeri, ma il finale restò sempre tragico, come ad esempio nella storia del povero e ignoto ladruncolo che cercando una notte di scavalcare un cancello dalle punte acuminate, finiva disgraziatamente per infilzarcisi. Tutto in due sequenze accompagnate dalle didascalie - Di notte ci sono i ladri - puntini puntini - ma ci sono anche gli inconvenienti -.
Fu dunque logico che l'ignaro Riccio, presentatosi pieno di speranza ai nostri occhi, fosse incappato subito nel giudizio universale.
Occhiali da cantautore impegnato - di quelli che scrivono canzonette d'amore - folti capelli crespi e neri che se li fai allungare vanno dove decidono loro, fisico possente - almeno rispetto ai nostri, minuti e snelli - e alto, di una buona spanna superiore a tutti. Aveva quell'aria all'apparenza ingenua ma allo stesso tempo vissuta di chi ha già maturato quelle scelte che a noi erano ancora sconosciute.
Tra le cattiverie più scontate che riuscimmo subito a mandare in onda, vista la sua stazza fisica, fu quella di pensare che il nuovo arrivato fosse un ripetente, e che di conseguenza non potesse avere una mente eccelsa ma una gran bella testa di legno nascosta sotto la parrucca arruffata.
Il fatto che il professore lo avesse poi mandato a sedere allo stesso banco di Vito, per noi fece di quella una coppia assortita da tenere sott'occhio.
Vito, dal canto suo, era un tipo molto convincente, anzi proprio coinvolgente, e con le sue idee e le sue passioni conquistò subito larghi spazi nella mente ancora vergine del Riccio, fuggito da un luogo dove gli insegnamenti ecclesiastici avevano fatto praticamente tabula rasa dei pochi concetti saldi che un ragazzo della sua età all'epoca poteva avere. E quel terreno fertile e abbandonato fu velocemente invaso ed infestato da tutto quello che il nuovo compagno di banco riuscì a trasmettergli. Gli idoli del pallone presero possesso, con tutto il loro fascino sportivo, del cervello del Riccio, che cominciò ad assorbire calcio dai discorsi di Vito e dalla lettura del Guerin Sportivo, divenuto quasi subito la sua nuova bibbia.
Ci sarebbero voluti poco più di due anni perché il nuovo compagno potesse mostrare tutte le sue potenzialità - allora soltanto un embrione poco sviluppato - necessarie di un adeguata spinta verso il mare aperto, al di fuori dell'ambiente asettico del seminario. Sarebbe bastato quel tempo perché il Riccio cominciasse ad imporre le proprie idee che, come di solito succede in questi casi, avrebbero preso presto una direzione diametralmente opposta a quella di provenienza.
La conseguenza più immediata e tangibile di quattro anni passati a nutrirsi delle leggi di Dio fu che i suoi comportamenti, dapprima necessariamente retti e ortodossi, cominciarono a virare bruscamente verso sinistra, plasmandolo in una forma addirittura più anarchica che comunista. Adesso bastava sfogliare il suo diario - osservare i suoi disegni e le frasi scritte - per rendersi conto che ogni pagina era stata trasformata in un manifesto di aperta protesta contro le regole della scuola e della società.
Il Riccio deragliò come un treno che perde il controllo oltre i binari. E divenne un esempio da seguire.
Il suo avvento, volendo usare un termine oculatamente biblico che meglio possa collimare con le sue origini religiose, cominciò a manifestare i suoi effetti verso la metà del penultimo anno di liceo.
In tutta questa storia giocò un ruolo certamente fondamentale l'introduzione nella nostra vita di un elemento nuovo e indispensabile per raggiungere l'autonomia: l'automobile, ovvero la Fiat Cinquecento.
Il Riccio fu il primo a compiere i meritati diciotto anni, ma ancor prima della fatidica data aveva già in tasca il preziosissimo foglio rosa.
La nostra vita cambiò quando arrivò Caterina. Lei sconvolse i ritmi, diede una brusca accelerazione alle lente giornate, e soprattutto in poco tempo spalancò, di fronte ai nostri occhi, i cancelli della notte. Lei era una piccola Cinquecento azzurra targata TP49781, col suo colore ormai sbiadito e sempre impolverato, e fu la prima - quella che ci consentì di cominciare a viaggiare e seguire i percorsi circolari delle stelle.

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