Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Tiziana Battestini
 
Con questo racconto ha vinto il settimo premio del concorso Vittorio Tolasi 2000, sezione nerrativa
Quel che non muore
 
Erano trascorse poche ore dal primo pomeriggio, da quando sua madre era stata sepolta nel piccolo cimitero di collina che guarda al mare, ed ora lei era lì, dove aveva promesso di essere, dove da tanto tempo non tornava, nella terra dimenticata della sua famiglia.
La calura di un'estate precoce aveva infuocato le zolle che adesso, sotto la brezza di un tramonto che si avvicinava,
rimandavano ai piedi calzati di leggero, un tepore insolito. Maria era sola in un mondo di colori assurdi, aggrovigliata in quella matassa di ansia e dolore che da anni la stritolava, a volte soffice come un presentimento, altre dolorosa come lo stiletto di un arcano torturatore.
"Guarda in faccia il tuo rancore, è vecchio come me, è ora che tu lo lasci andare" le prime e le ultime parole di sua madre e adesso nemmeno lei c'era più, la Dina se n'era andata lasciandola alla sua disperata solitudine. E proprio lì, "Torna a casa tua, là ti sei persa, là ci ritroveremo tutti". In realtà era proprio da quel luogo che era sempre fuggita, da quel campo di girasoli, dalla quercia incendiata, dal mistero.
Un brivido le corse su per le braccia mentre un soffio di vento muoveva i suoi biondi capelli, dorati come il grano maturo, con i fili d'argento di mese in mese più numerosi, come le spighe che il contadino si attarda a mietere e che si incupiscono ai fusti.
Salì verso la casa, quella della sua infanzia, col recinto di sassi ormai smossi, le persiane invecchiate e scrostate dalle intemperie. E intorno lo risentì, l'alito di sua madre, il suo respiro buono e condiscendente, la sua fiducia. "Quando saprai perdonare, troverai la pace", diceva a questa figlia inquieta, smarrita a se stessa. Ma il perdono, nel cuore arso di Maria, non trovava spazio.
Eppure voleva che qualcosa cambiasse. Il suo presente era come il suo passato, un deserto incandescente di magma in statica ebollizione. L'acredine aveva infatti ammorbato ogni suo rapporto, era la peste che le aveva precluso la serenità dell'essere amica, amante, sposa e madre. Aveva eletto il suo cinismo calcolato ed intelligente a parafulmine della sua vita, ma ciò non era bastato a proteggerla da se stessa e dalla solitudine. Solo sua madre, l'aveva sempre saputo perché le leggeva nel cuore e negli occhi, ed ora l'aveva lasciata.
Si sedette sconsolata sul muretto di pietra mentre le sue narici aspirarono un intenso profumo di glicine e gelsomino. Si voltò verso il recinto, ma la siepe che divideva dalla proprietà dei vicini, non era in fiore e ciò la stupì. Allora, il profumo della sua infanzia tornò e come mano leggera ma imperiosa, un soffio di vento le ordinò di ricordare..., ricordare... anche se triste, anche se doloroso. Lentamente, quasi sfogliasse una storia illustrata, coi pugni serrati pronti a lottare contro qualcosa di oscuro ed ineluttabile, ritornò il suo incubo, nitido come mai era stato, a spiazzare anni di rimozioni forzate e di falsati ricordi.
I girasoli in fiore si tinsero ancor più d'oro fuso nella luce del tramonto che avanzava, quasi ad abbacinarla, a trascinarla in un altro tempo...
Ricordò la ragazzina correre fra quei fiori alti quanto lei, correva serena come a sfidarli, ben allineati verso il sole che cominciava a nascondersi. Le auree corolle leggermente chine ad assorbire riverenti l'ultima energia del giorno, mentre lei volava quasi ad allontanarsi dalla notte che sentiva alle calcagna.
Spostava i grandi fiori con le mani, sentendoli morbidamente pungenti, quasi fossero d'accordo a frenare la sua corsa, come a volerla assurdamente rallentare.
Poi, voci concitate ed uno scalpiccio sulla terra dura, pestata. L'urlo di sua madre frenò in quell'attimo e per sempre, la sua fiduciosa corsa e i girasoli le si chiusero attorno. Paralizzata dalla paura, aveva atteso di capire. Oltre le corolle addormentate li vide avvicinarsi, tre, quattro, coi fucili al fianco. Calpestarono gli steli, le tenere corolle e la sua acerba femminilità. Avevano già caricato suo padre sul camion e lei non lo vide più.
Impressi nella sua retina, per sempre, i girasoli e la fine della sua giovinezza.
Il dolore e l'odio crebbero al pari della sua solitudine.
Sporca, infamata e sola. Non riuscirono a scuoterla né il tempo, né le tenere parole della madre. Trascinava il suo dramma mese dopo mese contemplando le macerie fuori e dentro di lei. Non guardava più i girasoli e ad ogni infuocato tramonto, si rotolava nel suo dolore.
Così un anno dopo era più alta di una spanna e più vecchi di un decennio. In una mattina livida di maggio, mentre il sole con fatica, a tratti cercava di colorare blandamente i gialli fiori acerbi nel campo, sentirono bussare alla porta. Non interruppero le loro faccende, in campagna, i padroni, non si chiudono a chiave. - Entra, Lina. - gridò sua madre contro lo sciacquio dell'acqua nel lavatoio. Poteva essere solo la vicina, a quell'ora. Bussarono di nuovo e di nuovo, gridò - Entra, dai, non farmi asciugare le mani. - Nessuno varcò quella soglia.
Allora, con la calma tipica della gente provata e rassegnata, la madre andò alla porta e l'aprì.
E il mistero le avvolse entrambe. La grande quercia annosa a cui la facciata della casa quasi si appoggiava, fumava a metà, incenerita dalle radici ai rami, così, all'improvviso. Un sottile fumo quasi acre o quasi dolce saliva al cielo mentre un leggero crepitio confondeva i loro pensieri. Il sole si affacciò per un lungo istante tra le nubi a dare splendore a quei volti attoniti, a quelle argentee ceneri.
"Dovevo aprire a tuo padre e non l'ho fatto!"
alla fine della guerra il Ministro comunicò che in un giorno imprecisato di quel maggio, C. Turati era entrato nel forno crematorio di Mathausen. Ma sua madre lo sapeva già, come sapeva che Carlo era passato da lei, a salutarla per amore, un'ultima volta.
Maria, invece, non seppe più nulla. Cercò, per molto tempo ancora, nella sua razionalità, qualcosa di simile ad un fulmine che potesse spingere l'arcano, ma non lo trovò.
Fuggì da lì, dal dolore e dal mistero portandosi dietro entrambi, attraverso gli anni e i fallimenti della sua vita per l'ostilità di tutto il genere umano che le negava ogni benché piccolo atomo di felicità. E la traduzione dei suoi stanchi anni, ora era lì, in quelle fitte rughe sottili che appesantivano lo sguardo di quei magnifici occhi azzurri fissi nel tramonto di un'esistenza perduta nel rancore.
Non aveva mai allentato la presa. L'astio era la colla della sua vita e l'aveva invischiata fino nell'anima, sottilmente, senza darle tregua. Era andata avanti senza respirare, rattrappita nel suo mallo spinoso. Adesso era là perché l'aveva voluto sua madre.
Adesso era stanca. Su quel muretto ormai freddo il tempo scivolava piano, come i suoi giorni, esasperantemente lenti e sempre uguali. Cattivi. Inutili.
"Devi perdonare. Solo l'Amore può sopravvivere, Tuo padre ce l'ha detto, quel dì" le sussurrava il vento, con le parole di sua madre, vecchie di secoli, ripetute, ripetute... e mai ascoltate.
D'improvviso il fiato si fece corto, ogni certezza si confuse e sopraggiunse la crisi, dirompente, inaspettata. In quell'istante, qualcosa ruppe la dura corazza e si sentì smarrita, il suo cuore si dilatava contro la sua volontà, rompeva gli argini portandola chissà dove.
Allora abbandonò le braccia lungo i fianchi, finalmente sfinita, ormai costretta ad abbandonare la lotta.
Poi di nuovo si impennò, come ad evitare una mortificazione alla folle idea di aver sbagliato ogni cosa, ancora cercò di ribellarsi al suo spirito che tentava una virata.
"È tutto perduto" si sussurrò sgomenta, voltandosi verso la casa della sua infanzia, mentre il sole baluginava rosso prima di cedere alla notte. Sentiva che l'unica forza che l'aveva tenuta viva, stava miseramente crollando. Ne ebbe paura e la cercò. Di colpo non riuscì a trovare l'odio che conosceva per chi aveva ferito ed oltraggiato la sua vita, per chi le aveva strappato tutti i sogni. Disperatamente cercò il rancore di sempre nel ricordo di quelle ore fra i girasoli antichi e, con sgomento, non trovò neppure quello. Rinfocolava il ricordo cercando di alimentare il vecchio astio, ma dentro non c'era più nulla, solo un grande vuoto privo di sentimenti. Una tabula rasa su cui incidere il rinnovato miracolo della quercia. La sua catarsi.
E finalmente si arrese. Le tornò in mente un vago ricordo di suo padre e sentì presente anche sua madre in quel momento, a sostenerla. Qualcuno la indusse a pensare che solo ricominciando da loro, poteva salvarsi. Il sentiero che l'avrebbe riportata a se, passava tra rovi e gelsomini, per tornare sempre alla grande quercia, alle sue amorevoli radici.
Allora il grande albero ondeggiò le sue fronde sul mezzo tronco secco accarezzando lieve il muro scaldato dal sole, Maria si strascinò fino alla porta e lì, contro quel legno vetusto, lasciò che le lacrime vecchie di secoli, la spurgassero di tutto il veleno cullato come un figlio, per tanti sofferti anni.
Accarezzò la quercia con dolorosa malinconia. Era l'albero della vita vera, l'albero di sua madre, della sacrificata esistenza di suo padre e in quell'attimo eterno, si riappropriò del suo vivere e della sua terra.
I girasoli assopiti nella bassa luce della sera, dondolandosi mollemente nella brezza, e sbirciando la scena da lontano, sussurrarono al mondo e a quell'antica ragazzina che ancora li avrebbe sfidati: "Ricorda, solo l'Amore è quel che non muore".
 
Classifica Concorso Vittorio Tolasi 2000 sez. narrativa
 
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inserito il 19 dicembre 2000