Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Susanna Celotti
Con questo racconto ha vinto il terzo premio al concorso
Age Bassi - Castiraga Vidardo 2005, sezione narrativa

«Incontro con Medea»


«Non sono stata io a cominciare. Non l'ho voluto io tutto questo. Ero giovane, bella, figlia di stirpe regale e divina, il futuro allora si stendeva dinanzi a me come una pianura fertile e ricca di promesse. Se le promesse non furono mai mantenute, non fu certo per colpa mia».
Mi disse queste esatte parole, il giorno che la vidi per l'ultima volta. Stava ritta, con le mani ammanettate dietro la schiena, in mezzo a due guardie carcerarie che non riuscivano a guardarla mentre l'accompagnavano lungo il corridoio silenzioso. L'informe tuta arancione mortificava le forme ancora provocanti. Aveva un bellissimo corpo, Medea. Era alta, imponente nei suoi fianchi generosi, nel seno florido, la schiena si estendeva ampia e slanciata sopra la vita sottile, le gambe erano lunghe, tornite, e le grandi mani rovinate dagli anni e dagli affanni. Però mani ancora forti e spesso, troppo spesso, strette a pugno. Il viso era per metà nascosto dai lunghissimi capelli neri corvino, mentre teneva la testa stanca come appoggiata sulla spalla. Ricordai di quando mi chiedeva di spazzolarle i capelli e allora potevo vedere da vicino il suo viso, che altrimenti teneva nascosto: gli zigomi alti e taglienti, la bocca dalle labbra carnose, le folte sopracciglia, ma soprattutto gli occhi, quegli occhi scuri come fossero solo pupilla, buchi neri che affascinavano e confondevano. Io credo che molto di quanto è successo sia accaduto per colpa di quegli occhi. Non fu lei a cominciare, certo. Dal primo giorno che entrai in carcere, io, volontaria con il compito di sostenere e incoraggiare una donna condannata a morte, lo capii subito che non avevo a che fare con una persona violenta o pazza. Ne avevo conosciute, di donne assassine, aggressive e brutali come belve furiose, sempre pronte ad attaccar briga e a dichiararsi innocenti e vittime del sistema. La volta in cui incontrai Medea fu diverso.
Quando entrai nella sua cella, lei non si mosse. Stava seduta su una sedia, con il viso rivolto verso l'alto, dove una piccola finestra trapuntata di sbarre lasciava intravedere un angolo di cielo. C'era il sole, ed entrava con raggi obliqui riverberando sul pavimento intorno a lei.
Aveva l'apparenza più di una madonna, che di un'infanticida.
«Salve.» mi disse dopo un minuto di silenzio
«La ringrazio di essere venuta a... come dire? Tenermi compagnia. Non ho bisogno della sua pietà, quindi la prego di tenersela per sé». Mi fu facile assecondarla perché tutto ispirava, lei, fuorché pietà. Si muoveva con fare regale, nell'umiltà povera e squallida del suo regno di tre metri per due, parlava con voce chiara e forte, s'imponeva, altera, e quasi superba induceva alla deferenza anche le guardie. Non mi era mai capitato di sentire un secondino dare del "lei" a un detenuto, fino a quel momento.
All'inizio fu difficile anche solo farle compagnia. Non sembrava gradire la mia presenza lì accanto e continuava imperturbabile a occuparsi delle sue cose. Quali cose, poi, lo sapeva solo lei, visto che di lì a poche settimane sarebbe morta. Ma sembrava sempre molto impegnata. A poco a poco, con la pazienza che mi avevano insegnato all'associazione di volontariato, riuscii a farmi accettare, come fossi un'abitudine, un appuntamento inevitabile. E cominciò a raccontarmi. Allora capii che le cose di cui si stava occupando erano i suoi ricordi, che doveva mettere in ordine e rendere comprensibili per poi lasciare a qualcuno l'eredità della sua storia. Altri eredi, non ne aveva. Mi stupì che non avesse nessuno, ma proprio nessuno, amico o parente o anche solo conoscente o vicino di casa, che la andasse a trovare. Lei ridendo spensierata specificava che non solo nessuno la andava a trovare, ma nessuno sentiva la sua mancanza né pregava per lei, nessuno si chiedeva come stesse né se fosse ancora viva o no. Ancora oggi mi chiedo come sia possibile, essere così soli. Esule, dalla casa del padre e quindi dalla sua gioventù, ma anche dalla casa del marito e quindi dalla terra dove avrebbe dovuto trovar sepoltura.
Né madre né padre, né fratelli né sorelle, volevano più saper nulla di lei, morta ai loro occhi nel momento in cui si era imbarcata con Giasone e gli Argonauti. Di amici non ne aveva mai avuti: scomparivano, dopo aver beneficiato delle sue cure e dei suoi consigli, perché lei era invisa ai potenti e nessuno voleva avere una reietta come amica.
E poi faceva paura, Medea. Un po' anche a me, lo ammetto. Forse perché si comportava sempre come se non ci fosse nessun altro al mondo oltre lei, forse per la risata profonda e forte, e minacciosa, forse per la logica ferrea e inespugnabile dei suoi ragionamenti. O forse perché era affascinante e seducente e a volte ti si annebbiava la mente se la guardavi troppo a lungo. Alcuni l'avevano accusata di essere una maga e di usare incantesimi e stregonerie per soggiogare gli animi e imporre la sua volontà. Io credo invece che fosse solo molto carismatica, intensa, attraente. Fosse stata veramente capace di magie, avrebbe trovato un modo per salvarsi, per fuggire. Invece era lì, rea confessa condannata.
Mai una volta l'ho sentita proclamarsi innocente, nemmeno nell'intimità della cella che un'ora al giorno divideva con me. A dire il vero, non abbiamo mai parlato esplicitamente del suo delitto. O dei suoi delitti, a sentire alcuni. Ma lei sapeva che io sapevo, e questo bastava.
Non sentiva il bisogno di giustificarsi o di difendersi. Ma parlava tanto di Giasone.
Io non l'ho mai visto, questo marinaio dalle fortune alterne, ma attraverso la voce e gli occhi neri di una condannata a morte posso dire di averlo conosciuto meglio di chiunque altro. Giasone, il misterioso forestiero, possente e glorioso come un dio, che le rapì il cuore e la rubò, col vello, all'affetto del padre e della famiglia tutta e del paese natale.
Giasone che non con la forza delle armi, ma con un'arma ben più forte, l'amore, l'aveva spinta ad accettare a occhi chiusi una vita da esule in terra straniera. Niente avrebbe contato più, per lei, nessuna privazione, nessun sacrificio avrebbero pesato mai, con il suo Giasone accanto.
Povera, senza famiglia, senza amici, sarebbe comunque stata felice, con il suo Giasone accanto. Quando nacquero i loro due figli, guardandoli Medea era sicura che li avrebbe cresciuti sani e robusti, intelligenti e abili, con il suo Giasone accanto.
Io non mi sono mai sposata e non ho figli, quindi avrei dovuto far fatica a comprendere fino in fondo il peso delle sue parole, ma così non fu. Si sentiva ancora quell'amore, nelle parole per Giasone, ancora il vento caldo della passione che ovunque avesse spinto la nave degli argonauti, lì Medea sarebbe sbarcata felice e innamorata. Quando Giasone la tradì, quando non nascose neppure per pudore l'insolenza dell'adulterio, lei impazzì di dolore.
Posso immaginarla, questa regina che anche in cella sapeva incutere timore, piegata dal dolore di essere stata umiliata, oltraggiata, insultata dal più zotico e meschino degli uomini. Da dio a cane, Giasone divenne per lei il peggiore fra gli esseri umani. Dal giorno del tradimento in poi, Medea ebbe un solo pensiero, un solo obiettivo: come vendicarsi di quanto Giasone le stava facendo. Lei aveva rinunciato a tutto, per lui, e lui non poteva rinunciare a un letto di donna, foss'anche di donna giovane e ricca e potente, per lei e per i loro figli? Dove altro sarebbe potuta andare lei, Medea, che solo su di lui contava per condurre la vita che aveva sognato? Erano domande che lei rivolgeva al destino stesso, al caso, al fato, a qualunque fosse il macchinatore di tali inganni.
L'inganno che Giasone fosse un uomo onesto e sincero e affidabile, l'inganno che in una terra straniera lei sarebbe potuta essere felice come nella sua terra natale. E l'inganno che i figli sarebbero stati l'indelebile simbolo del loro amore. Sarebbero stati indelebile simbolo, sì, ma dell'infame che li aveva generati e poi abbandonati. Simbolo del traditore, dell'illusione, del dolore che annega i pensieri in un'angoscia infinita e insostenibile.
Metà del dolore Medea lo provava per la vergogna della propria stupidità. Così lei chiamava, in quei giorni, il sentimento innocente e ingenuo che l'aveva allora spinta a seguire Giasone e i suoi progetti campati in aria. Si accusava di essere stata sciocca, imprudente e impulsiva, una ragazzina capricciosa e ribelle che non pensava ad altro che al soddisfacimento dei suoi desideri immediati.
Se fare contro se stessa ciò che fece ai propri figli avesse generato la stessa disperazione per Giasone, allora non avrebbe esitato a infilare la spada nel proprio, di petto, invece che in quello dei bambini. Voleva punire se stessa, oltre che lui, perché avrebbe potuto, avrebbe dovuto, scegliere altrimenti, un tempo. Ormai, quanto doveva succedere era successo, e a lei non restava altra scelta per compiere la peggiore delle vendette contro il peggiore degli uomini. Contro se stessa, la vendetta arrivò lenta, con il senso di colpa, la frustrazione, la solitudine, l'emarginazione. Era giovane, bella, figlia di stirpe regale e divina, il futuro allora si stendeva dinanzi a lei come una pianura fertile e ricca di promesse. Se le promesse non furono mai mantenute, non fu forse anche per colpa sua?

 

Susanna Celotti


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Age Bassi - Castiraga Vidardo 2005

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