Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Stefano Bini
Con questo racconto ha vinto il nono premio al concorso Concorso Letterario Angela Starace 2000 sezione narrativa
 
Il vascello
 
Il vascello solcava maestoso le onde mentre il gelido vento del Nord gonfiava fino all'inverosimile le grandi vele, sottoponendo ad uno sforzo tremendo il sartiame degli alberi principali.
Il ponte era spazzato da ondate sempre più alte, mentre la furia degli elementi sembrava scatenarsi come in una diabolica alleanza contro l'inerme imbarcazione: le saette serpeggiavano vivide sullo sfondo plumbeo del cielo rischiarando a tratti l'oscurità vischiosa che circondava la nave.
Il rollio divenne fortissimo mentre il vascello iniziava a sbandare porgendo il fianco alla furia del mare, inclinandosi fino quasi a toccare la superficie dell'acqua con i bordi superiori delle murate. La tela della vela maestra iniziava a lacerasi mentre la bandiera, quasi a significare la fine ormai prossima, veniva strappata dal pennone più alto e si allontanava ormai in balia del vento.
Gli occhi indugiarono ancora per un attimo sulla tremenda scena, e solo a malincuore lo sguardo abbandonò il dipinto appeso alla parete della cabina per andare a posarsi sul libro di bordo aperto sulla scrivania: le ultime pagine erano bianche.
Fissò a lungo le pagine vuote fino a quando, dopo aver emesso un lungo sospiro, non si scosse dal profondo torpore in cui era caduto e si decise a sedersi sulla massiccia poltrona di legno rivestita di cuoio invecchiato.
L'odore acre e pungente che proveniva dalla tabaccheria aperta sul ripiano in noce della scrivania non gli dette l'abituale piacere che era solito provare, e lo sguardo non degnò della minima attenzione la tanto amata pipa in radica, compagna inseparabile di mille e mille viaggi attraverso i mari del mondo.
Appoggiò i gomiti sul tavolo ed iniziò a massaggiarsi le tempie con le mani mentre chiudeva gli occhi, ed una miriade di piccole rughe chiare sulla pelle dura ed abbronzata dal sole tradirono la profonda preoccupazione che gravava sulla sua coscienza.
Pensava, mentre strane luci e strani colori serpeggiavano attraverso l'oscurità che si era imposto, pensava... e ricordava.
Ricordava il giorno della partenza, avvenuta in una splendida giornata di sole, con le stive colme di ogni tipo di merce pregiata, mentre la gente salutava con grandi gesti la nave che si staccava dal molo: ricordava i giorni di navigazione che si susseguivano talmente monotoni da non avere niente da annotare sul libro di bordo, e ricordò anche quel giorno, all'apparenza uguale a tanti altri, quando i raggi del sole improvvisamente cessarono di distribuire il proprio calore sulla tolda della nave, ed una brezza fredda ed insolita si levò da sud sul far della sera. Vide con gli occhi del ricordo la superficie del mare farsi liscia come mai aveva visto, quasi che uno strato di olio l'avesse improvvisamente ricoperta, e risentì negli orecchi lo strano rumore che faceva la chiglia della nave mentre fendeva con fatica l'inusitato oceano. Per ultimo ricordò la nebbia, il banco di nebbia che sembrava avanzare compatto incontro al suo vascello: ne rivide gli orli, tinti di un colore rossastro per effetto del sole ormai prossimo al tramonto, ed i pennacchi che si protendevano avidi verso la propria preda, e sentì ancora una volta il silenzio totale che accompagnò l'ingresso della nave all'interno del banco...
Maledicendo il giorno in cui si era imbarcato su quella dannata nave il nostromo spuntò con aria di sfida fuori bordo, e rimase appoggiato alla murata ad osservare i cerchi concentrici che lentamente, troppo lentamente, si allontanavano l'uno dall'altro.
Già dal primo mattino l'imbarcazione stava navigando in quel mare fatto di melassa, ed a bordo si iniziava a respirare un'aria strana: paura.
La superstizione atavica del marinaio faceva la sua comparsa ogni volta che la ragione non riusciva a spiegare o a comprendere i fenomeni che accadevano intorno al suo mondo, la sua balia: la nave.
Lui no, non aveva paura. Era troppo vecchio e troppo smaliziato per non sapere che tutto aveva una spiegazione razionale, senza tirare in ballo le solite storie di navi fantasma o di mostri marini. Ad ogni buon conto spuntò ancora una volta in rapida successione per tre volte fuori bordo e fece un inequivocabile gesto verso la nebbia che lentamente stava calando: non si poteva mai sapere.
Il capitano sorrise divertito dal ponte di comando alla vista del nostromo che si era lasciato contagiare sulla superstizione: non lo si poteva nemmeno biasimare, dal momento che in quel preciso momento ogni uomo dell'equipaggio stava dando fondo a tutta la serie degli scongiuri universalmente conosciuti.
Mentre si portava agli occhi il binocolo il sorriso scomparve e la piega delle labbra tradì la preoccupazione dell'uomo: la nave si trovava ad incrociare in una zona di mare che lui non conosceva, estremamente infida a causa delle mutevoli condizioni atmosferiche, ed in più il timone non rispondeva bene alle manovre, complice uno scontro avuto giorni prima con chissà quale animale marino, forse uno di quei delfini che abitualmente seguivano le navi a quella latitudine.
Per un attimo si chiese le ragioni dell'improvvisa scomparsa del festoso corteo che accompagnava la nave, ma subito la gravità della situazione riassorbì tutta la sua attenzione: già da due giorni l'ago della bussola girava come una trottola impazzita intorno al suo asse, ed il cielo quasi sempre coperto non gli aveva ancora consentito di fare il punto nave: erano praticamente fuori rotta, anche se non si sentiva di dire che si erano persi.
Guardò ancora una volta con espressione pensosa la bussola: in vent'anni di mare non aveva mai visto un fenomeno così strano.
Dopo l'ora quinta scese a riposarsi nella sua cabina sottocoperta, e dopo aver lanciato la solita occhiata amichevole al suo vecchio quadro si buttò sulla branda e si addormentò ancora prima che le palpebre si chiudessero completamente.
Fu svegliato di soprassalto da qualcosa verso l'ora settima e mentre si sedeva sulla sponda del letto tutti i sensi principali esplorarono con circospezione l'oscurità che lo circondava alla ricerca della causa del brusco risveglio.
Quando l'udito cercò i suoni familiari della nave non trovò nulla: non un frusciare di sartiame, non una sciabordare d'acqua né un sussurro d'uomo. Fu allora che sentì il silenzio, ed ebbe paura...
Mentre spalancava la porta della cabina e si precipitava sul ponte di comando capì che la nave era ferma, perfettamente immobile, e quando dal cassero gettò un'occhiata in alto fu gelato dalla visione delle vele gonfiate dal vento: la bandiera era completamente spiegata per tutta la sua lunghezza, ma era immobile, quasi che una mano invisibile la tenesse ben tirata per l'estremità. Giunto sul ponte di comando lo trovò completamente abbandonato e quando guardò fuori dal quadrato per un lungo momento non capì ciò che stava osservando: l'intero equipaggio si era raccolto sul ponte principale ed ogni uomo era come pietrificato dalla visione di ciò che si stava avvicinando alla nave: in un agghiacciante silenzio la nave fu inghiottita dal banco di nebbia.
Uno strano alone rossastro si impadronì dell'imbarcazione mentre i contorni degli oggetti e delle persone iniziarono a farsi sempre più sfumati: non era nebbia normale.
Percepiva sempre più nettamente il pulsare regolare della "cosa" che aveva catturato la nave: strane luci dai colori vividi iniziarono a saettare fra le pareti bianche che li stavano imprigionando, strani suoni iniziarono a farsi strada fra i meandri lattiginosi della nebbia, strane sensazioni si impadronirono del suo corpo.
Non esisteva più niente: niente nave, niente equipaggio, né mare né vento o freddo, solo lui, lui e la nebbia, la nebbia e lui.
Le mani erano ancora serrate nell'atto di stringere il corrimano metallico, ma sapeva benissimo che stavano stringendo solo un pugno di nebbia; i piedi erano saldamente piantati sul ponte di comando, ma sapeva benissimo che non esisteva più un ponte di comando, che non esisteva più il sotto o il sopra: nebbia, solo nebbia, bianca, densa e calda come il latte appena munto.
Fluttuava con gli occhi chiusi lasciandosi trasportare, quasi cullare, da quelle sensazioni meravigliose, sapori di un mondo lontano e forse mai estinto, impressioni fuggevoli di un qualcosa che non riusciva ad afferrare ma di cui si beava ugualmente, incantesimo negli incantesimi creato appositamente affinché ne potesse godere.
Lentamente le percezioni iniziarono a cambiare: la calma interiore di quell'universo fu lacerata da un'esplosione incontrollata di suoni e di luce, mentre il suo essere cercava di sfuggire al nuovo pericolo rifugiandosi nel più profondo di se stesso: inutile.
Il piacevole oblio che lo aveva protetto se ne stava andando, risucchiato via con una forza spaventosa da un qualcosa che senza nessun rispetto entrava con prepotenza nel suo universo, nella sua... vita?
Stava precipitando, con una progressione spaventosa, stava precipitando verso il suo destino: lo sapeva, lo sapeva e non voleva che accadesse. Il cuore accelerava i suoi battiti mentre si avvicinava alla meta non agognata ed i polmoni si riempirono di aria: una luce fortissima ferì il suo orgoglio ancora prima dei suoi occhi mentre capiva che aveva perso.
La bocca si spalancò lasciando uscire il suo urlo di protesta e di disperazione...
 
Aprì gli occhi: in fondo al corridoio buio vide una vecchia porta di legno scuro oltre la quale si intuiva un'attività frenetica e vitale. Lentamente la porta iniziò a schiudersi lasciando intravedere l'interno della stanza: riconobbe immediatamente il pavimento in mattoni rossi tagliati dalle lunghe fughe di cemento annerito dal tempo e dal passaggio di intere generazioni, riconobbe il grande letto dalle spalliere in ottone lucidato che tanto aveva colpito la sua fantasia di fanciullo.
Sentì ancora prima di udirlo lo schiaffo della donna sulle sue carni, e mentre si precipitava ai piedi del letto i suoi polmoni iniziarono ad aprirsi. Mani pietose avevano già coperto il volto della donna, solo una lunga chioma nera si stagliava contro il candore delle lenzuola: non era giusto, non era giusto, non l'aveva mai vista, non sapeva com'era, la voleva vedere, voleva vedere sua madre.
La levatrice sorrise quando il neonato iniziò a strillare e a piangere.
 
Silenzio... L'oscurità era calata nella stanza: solo un fioco alone di luce lunare entrava dalle imposte aperte lasciando appena intravedere i contorni delle cose. Avvertì i passi leggeri avvicinarsi alla porta ed intuì che la maniglia si stava abbassando con lentezza, affinché non facesse rumore.
Uno spicchio di luce irruppe dalla spiraglio e si allargò fino a formare un ampio ventaglio sul pavimento; il ventaglio fu immediatamente richiuso, velocemente e silenziosamente: nessuno aveva sentito...
la stanza ricadde nell'oscurità.
Anche se non riusciva a scorgerlo sapeva che era lì, rannicchiato nella paura che qualcuno avesse udito, con il cuore in gola e gli occhi spalancati per abituarsi all'oscurità.
Improvvisamente si mosse nella sua direzione ed entrò nel cono di luce proveniente dalla finestra: le gracili gambine ballavano dentro i calzoncini smessi di suo fratello e le due braccine stringevano al petto un fagotto la cui importanza sembrava vitale.
Giunto al letto si arrampicò faticosamente sulle coperte ed appoggiò il quadro ai due guanciali di raso bianco: lui si portò indietro appoggiandosi con la schiena alla sponda del letto senza mai smettere di osservare il dipinto.
L'invisibile osservatore iniziò a spostarsi nella stanza e si portò alle spalle del fanciullo per vedere e pensare ciò che aveva già visto e pensato una notte di molti anni prima, nella camera in cui era morta sua madre: il vascello solcava maestoso le onde e sul ponte di comando lui, il capitano coraggioso, reggeva il timone con sicurezza sprezzante delle onde e dei pericoli mentre vagava per i sette mari alla ricerca della sua mamma...
 
"Mamma, mamma, ho paura, non voglio stare qui, fammi dormire con te, non voglio stare da sola", continuava a ripetere la bimba mentre grosse lacrime le scendevano lungo il viso.
Cristo, sua figlia, la sua bambina: ma quanto tempo era passato?? Com'era diventata grande, quasi non la riconosceva... e quella donna che entrava nella stanza era... si, era lei, nel viso segnato dalla fatica e dagli stenti riconobbe lo sguardo fiero e deciso della donna che amava: ma quanto tempo era passato, cosa era successo, perché...
La donna si avvicinò con passo deciso al letto della bimba e la cinse a se come solo una mamma può fare, e fra le braccia della madre la bimba smise di piangere: "Adesso basta piangere, asciughiamoci questi brutti lacrimosi e facciamo un bel sorriso alla mamma", disse la donna mentre asciugava amorevolmente le guance rosse della bambina.
La bimba sorrise e subito dopo assunse un'espressione molto seria, come quella di una persona che sta per dire una cosa molto seria, importante: "Mamma, quando torna papà?". La madre distolse di scatto lo sguardo dagli occhi della bimba e si girò casualmente verso il muto testimone della scena, il quale non poté fare a meno di osservare la disperazione che si irradiava dai suoi occhi.
"Presto, molto presto", mormorò la donna mentre si avviava verso la sua camera con la bimba in braccio.
Non capiva, mentre ripensava alla scena non capiva...
 
Bandito a ore tre, urlò il servente mentre cercava disperatamente di modificare l'inclinazione della mitragliera senza mai staccare il dito dal grilletto: un proiettile si incastrò nell'otturatore ed il pezzo si ammutolì improvvisamente, mentre l'uomo si bruciava le mani contro le canne fumanti nel disperato tentativo di rimettere in funzione l'arma. L'aereo si avventò sulla preda inerme come un enorme falco assassino, e l'uomo al pezzo sembrò danzare un macabro ballo mentre il suo corpo veniva martoriato dai proiettili nemici: ricadde bocconi sull'arma mentre il vento portava via l'acre odore della carne bruciata. Toccava a lui: era il più vicino alla postazione e l'unico che sapesse come usare l'arma. Abbandonò l'idrante con cui stava tentando di arginare le fiamme che avanzavano sul ponte e si precipitò verso la postazione incurante dei proiettili che gli sibilavano intorno.
Balzò dentro la postazione e mentre con una mano spostava il cadavere del compagno con l'altra liberò l'otturatore dal suo impedimento: si mise in posizione di fuoco e collimò nel reticolo del mirino la sua prima preda. Il dito si abbassò sul grilletto e l'aereo nemico esplose in un turbine di fiamme e fumo mentre lui gridava la sua gioia bestiale al mondo: imprecò contro il nastro che non scorreva bene nelle guide e stava ancora imprecando quando vide le scie nell'acqua.
Erano due, perfette, nitide e parallele, bianche e silenziose si avvicinavano alla nave con la velocità e la sicurezza del cacciatore, divorando la distanza fra loro e la preda con una precisione meccanica, perfetta.
Si era sempre chiesto cosa si pensasse subito prima di morire, ma si accorse che non c'era tempo per pensare...
 
l'ultimo granello di sabbia passò attraverso la strozzatura della clessidra della vita...
 
Volteggiò nelle melliflue spire di un limbo totale, asettico ed indolore, ignaro dello spazio e del tempo, intento unicamente alla ricerca del significato di tutto ciò, provato dall'incombenza che gli era stata concessa (Imposta?), fino a quando un lontano barlume di consapevolezza iniziò a farsi strada fra i meandri della mente confusa, e fu allora che mani invisibili girarono ancora, per l'ultima volta, la clessidra, ed un sottile filo di sabbia color dell'oro iniziò a segnare la porzione del tempo concessagli per conoscere l'unica, la vera, l'ultima verità.
 
Gli occhi cercarono ancora una volta gli arredi ormai noti, ma trovarono solo la fredda nudità dei muri mentre lo sguardo si soffermava sull'omai familiare macchia scura di umidità che l'aveva accompagnato attraverso tutte le fasi della sua vita: dall'infanzia fino alla maturità, inseparabile testimone di una condizione di vita arida ed inutile, specchi di una realtà fissa ed immutabile attraverso gli anni.
Con l'animo gradivo di tristi presagi si mosse dal centro della stanza verso l'inusuale amica, e dopo alcuni passi si accorse dell'impalpabile nuvola di polvere che sollevava ogni qual volta che il piede ricadeva sul pavimento, e solo allora sembrò vedere il triste tappeto grigio che copriva il pavimento, lacerato da vivide ferite color rosso scuro solo nei punti in cui erano evidenti le sue orme.
Sentì il peso tremendo della consapevolezza scendere sulle sue spalle mentre si chiedeva quanto tempo era trascorso, quanta polvere si era ormai depositata sulla sua tomba: la luce soffusa del tramonto entrava con dolcezza dai vetri della finestra, mentre strani suoni e strani rumori giungevano dall'interno.
Sapeva senza vederlo che fuori il panorama era cambiato: l'immaginazione ricamò con la velocità di un fioretto durante la stoccata le scene più fantastiche che mente umana potesse immaginare, mentre le gambe si rifiutavano di portare il corpo alla finestra, bloccate dall'irrazionale paura della mente di conoscere ciò che il progresso aveva potuto in quegli anni.
Lentamente iniziò l'avvicinamento alla finestra sulla conoscenza, e con gli occhi di un fanciullo impaurito si affacciò al davanzale.
Non gli fu dato di vedere: una luce improvvisa, cangiante ed insopportabile agli occhi lo fece indietreggiare mentre si portava le mani al volto nel tentativo inutile di proteggersi dal bagliore.
La stanza fu illuminata a giorno da una luminosità fredda e glaciale, mentre esso cercava scampo dalla tortura rannicchiandosi contro la parete lontana dalla finestra: lentamente il bagliore iniziò a spengersi, e la luce tornò a livelli quasi normali mentre con il cuore in gola si alzava precipitandosi alla finestra.
Dapprima percepì un lieve brontolio, ed appoggiando le dita ai vetri sentì che stavano tremando, mentre il rumore crebbe fino ad esplodere in un boato forte e sordo, quasi attutito, come quando da piccolo fece cadere dalla credenza il grosso sacco della farina.
Finalmente guardò fuori dalla finestra e la propria mente non riuscì a comprendere ciò che gli occhi vedevano: il grande fungo stava nascendo dalla terra.
 
Mentre il filo di sabbia color dell'oro aumentava la sua velocità gli fu dato finalmente di capire, gli fu concesso di vedere la medesima scena una, dieci, mille volte in mille posti diversi del mondo: vide lo sfacelo, la morte e la disperazione, conobbe la solitudine di un mondo ormai senza vita. Quando il suo tempo finì, esso finalmente sapeva.
 
I ricordi abbandonarono l'oscurità per lasciare spazio alla realtà, ed il capitano riaprì gli occhi sulle candide pagine del libro di bordo, l'animo dibattuto fra le necessità di scaricare la sua coscienza da tanta responsabilità e la consapevolezza dell'enormità di ciò a cui aveva assistito: con decisione improvvisa afferrò la penna dallo scrittoio ed intinse con fare incerto il pennino nell'inchiostro.
Portò la penna sopra le pagine bianche ed iniziò a scalfire la bianca superficie con tratti brevi e decisi: sulla parte destra della pagina apparve la scritta "9 ottobre 1902".
Ristette così, con la penna pronta ad esporre tutta la verità serrata nella mano, ad osservare, senza vederla, quella scritta che aveva appena tracciato, mentre dentro di lui cresceva la consapevolezza di ciò che doveva fare, unica sola scelta possibile, unica e sola alternativa possibile al suo destino.
Un nodo improvviso salì alla gola, e si portò ancora una volta le mani agli occhi, questa volta per cercare di frenare l'impeto irruente delle lacrime che iniziarono a scendere sulle guance.
Alcune gocce riuscirono a sfuggire alla barriera imposta dalle mani e caddero sull'inchiostro ancora fresco: lentamente i neri caratteri incisi sulla carta iniziarono a perdere le loro caratteristiche ed a farsi confusi mentre si mischiavano alle lacrime, fino a quando della data redatta con bello stile non rimase che una macchia confusa ed illeggibile.
Adesso finalmente sapeva come comportarsi, e con mano ferma e decisa strappò la pagina appena iniziata, bene attento affinché non ne rimanesse traccia visibile sul diario, e dopo averla piegata più volte la ripose con cura nella tasca interna della sua giacca.
Con un sospiro si alzò dalla poltrona e si pose dinnanzi allo specchio controllando il suo aspetto prima di presentarsi all'ultimo appuntamento, e senza degnare di uno sguardo quella che era stata la sua casa per tanti anni, si diresse con fare deciso verso la porta della cabina.
La mano afferrò la maniglia e con decisione tirò a se la porta, mentre una strana atmosfera rossastra dall'esterno invase con rapidità la cabina. Si bloccò nell'atto di richiudersi dietro l'uscio, e con decisione che parve improvvisa di voltò per dare un ultimo sguardo alle cose care che non avrebbe mai più rivisto: abbracciò con lo sguardo i mille oggetti ed i mille ricordi che essi racchiudevano dentro di loro, fino a quando gli occhi non focalizzarono ciò che in realtà stava cercando, ed il suo cuore si aprì alla felicità, conscio che non avrebbe compiuto il viaggio verso il suo nuovo destino da solo.
Quando il capitano aprì per la seconda volta la porta sapeva che questa volta non sarebbe tornato indietro: le braccia stringevano al petto un fagotto la cui importanza sembrava vitale, mentre si incamminava nel rosso pulsare dell'atmosfera verso la sua, verso la loro nuova vita...
 
La vedetta costiera si avvicinò al brigantino alla deriva, cercando un punto per un agevole abbordo, e mentre accostava gli occupanti lessero il nome in rilievo dipinto di vernice color oro del vascello; "FREYA". Era un brigantino tedesco.
La prima cosa che notarono dopo essere saliti a bordo fu il perfetto ordine e la pulizia dell'imbarcazione, come se l'equipaggio fosse semplicemente sceso a terra per una licenza. Nella cabina del comandante tutto era al suo posto, ed il diario di bordo era aperto al centro della scrivania: le pagine erano bianche.
Il comandante della vedetta si avvicinò ed iniziò a sfogliare il libro all'indietro, fino a quando non comparvero gli ultimi scritti: non capì ciò che era scritto in quanto non conosceva il tedesco, ma comprese bene la data; "4 ottobre 1902".
Mentre uscivano dalla cabina l'uomo gettò una rapida occhiata dietro di se, e quando notò la zona della parete più scura si chiese per un attimo che tipo di quadro era stato appeso tempo addietro a quella parete. L'oscurità invase l'interno della cabina mentre l'uomo richiudeva dietro di se la porta.
 
Il Brigantino tedesco "FREYA" fu scoperto nell'ottobre del 1902 poco dopo la sua partenza da Cuba, malamente inclinato ed alla deriva con l'ancora alzata, in una zona all'interno del "Triangolo delle Bermude". Dell'equipaggio non vi era nessuna traccia. Nella cabina del capitano sul diario di bordo l'ultima data riportata era quella del 4 ottobre 1902, il giorno dopo la partenza.

 

Concorso Letterario Angela Starace 2000 sez. narrativa
 
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inserito il 3 novembre 2001