SCRITTORI ITALIANI
CONTEMPORANEI

affermati, emergenti ed esordienti
Stefano Bini
Opera 5° classificata al concorso Angela Starace 2001 sez. narrativa
Ricordi

Fa caldo oggi: la primavera quest'anno è in anticipo. La giornata è veramente bella: se non fosse per questa brezza fastidiosa, mi potrei togliere la giacca e stare in maniche di camicia.

Mi volto ed alzo il viso al sole. Anche con gli occhiali da sole non riesco a tenere gli occhi aperti: abbasso velocemente lo sguardo ed osservo la mia vecchia auto appena parcheggiata in strada, davanti a casa, sporca ed infangata come sempre. Appena posso devo portarla dal meccanico, c'è qualcosa che non va nel motore e per quel poco che ne capisco ho la spiacevole impressione che sia partito un cilindro: proprio oggi mi doveva succedere.

Mi frugo in tasca ed al tatto dei polpastrelli riconosco le chiavi dello studio, le chiavi della macchina, spiccioli vari, le chiavi di casa, sì, ecco, finalmente, queste mi servono.

Estraggo le chiavi dalla tasca sinistra, le rigiro fra la mano sinistra e le sgrano quasi si trattasse di un rosario: la chiave piccola del cancellino, la chiavina della cassetta della posta, la chiave della porta di casa, una chiave che non mi ricordo nemmeno cosa apra e, finalmente, la chiave lucida, quasi argentea, con la testa esagonale, del portone d'ingresso.

Infilo la chiave e giro, la serratura scatta con l'usuale rumore metallico: afferro il pomello concavo d'ottone, spalanco ed entro nell'ingresso. Lentamente mi richiudo il pesante portone di ferro e vetro alle spalle, con ricercata delicatezza. Il portone ricambia la cortesia e si chiude con dolcezza, quasi senza rumore.

Mi trovo nell'ingresso del piccolo condominio. Il tepore primaverile dell'aria esterna viene sostituito dal fresco dell'androne: i rumori esterni giungono ovattati, quasi irreali. Mi tolgo gli occhiali da sole e mentre mi avvio verso le scale, un brivido di freddo mi attraversa la schiena.

Abito in questa casa da quando avevo due o tre anni: oggi ne ho 31. Potrei fare le scale ad occhi chiusi e sempre ad occhi chiusi fermarmi esattamente di fronte alla porta del mio appartamento: infilare la chiave, quella color bronzo, nella serratura, tirare leggermente verso di me il pomello di ferro per far scattare la vecchia serratura difettosa, entrare in casa e, sempre ad occhi chiusi, buttare le chiavi di casa sul mobiletto di legno a sinistra della porta, dopodiché mi volterei, sempre verso sinistra, ed aprirei gli occhi per potermi sorridere allo specchio appeso sopra il mobiletto di legno.

Potrei ma non mi va.

Percorro i pochi metri che mi separano dalla prima rampa di scale, sguardo basso, come al solito. Il vecchio pavimento in graniglia scorre sotto i miei occhi: in diverse zone il cemento della graniglia non esiste più, logorato da decenni d'esposizione al calpestio degli occupanti la casa e dall'umidità presente al di sotto delle mattonelle. Nell'avvicinarmi alla rampa delle scale, il braccio sinistro inizia ad alzarsi e la mano, dopo una breve parabola, afferra il corrimano color rosso cupo della ringhiera, mentre il piede sinistro si appoggia sul primo gradino.

Lentamente, quasi svogliatamente, inizio a salire. La mano sinistra asseconda il movimento del corpo e quasi lo trascina nella salita: sono stanco, non so cosa darei per dormire un po', ma ci sono ancora tante cose da fare, e poi non riuscirei a prendere sonno.

Mentre salgo i primi gradini, lo sguardo, ancora rivolto verso il basso, incrocia una macchia scura sul pavimento in graniglia dell'androne di fianco alla scala: lì ci tenevo il motorino. La macchia era comparsa sin dal primo giorno che avevo lasciato il motorino nell'androne. Non{\rtf1\ansi\ansicpg1252\uc1 \deff0\deflang1033\deflangfe1040{\fonttbl{\f0\froman\fcharset0\fprq2{\*\panose 02020603050405020304}Times New Roman;}}{\colortbl;\red0\green0\blue0;\red0\green0\blue255;\red0\green255\blue255;\red0\green255\blue0;

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\red192\green192\bbel foglio di cartone da pacchi, ripiegato due volte con il duplice scopo di non far entrare altro olio in contatto con il pavimento e di non far vedere il pavimento macchiato a mio padre.

Uomo di poche parole mio padre. Non ho mai saputo, o non mi ricordo, o non ho mai capito (o forse non ho mai voluto capire), se fosse favorevole a quel motorino o meno.

Arrivo con fatica al pianerottolo che divide le due rampe di scale e getto un'occhiata distratta al di fuori della finestra socchiusa: i rami del grande abete si muovo lentamente sotto la spinta della brezza primaverile. è diventato più alto della casa e sembra che non abbia la minima intenzione di rallentare la sua rigogliosa crescita. I miei mi hanno sempre detto che quello era un albero di natale del primo o del secondo anno in cui ci trasferimmo in quella casa, piantato in giardino subito dopo le feste natalizie: non riesco proprio ad immaginarmelo piccolo, quest'albero, oggi alto più di sei o sette metri che riesce, nelle giornate di sole, a dare ombra a tutto il caseggiato.

Distolgo lo sguardo dall'esterno ed attacco la seconda ed ultima rampa di scale, con poca convinzione per la verità. Mi ritrovo in cima alle scale che guardo, senza vederla, la parete di fronte a me: non ricordo nemmeno di essere salito gli ultimi gradini. Mi scuoto ed infilo la chiave color bronzo nella serratura della porta d'ingresso.

Tiro il pomello di ferro verso di me con destrezza mentre sforzo leggermente la chiave all'interno della serratura e la porta, docile, mi riconosce e si apre.

Entro e mi accoglie la penombra dell'ingresso: mi chiudo la porta alle spalle, dolcemente, piano, senza rumore. Non ho voglia di fare rumore: non ho voglia di sentire rumori.

Appoggio le chiavi sul mobiletto di legno e guardo la mia immagine allo specchio sopra il mobiletto.

Dopo un attimo mi rendo conto che guardo ma che non mi vedo: lo sguardo abbandona lo specchio e le gambe iniziano a muoversi portando il resto del corpo verso la cucina. Strano, si direbbe che qualcun altro stia comandando al mio corpo cosa fare: mi sento come se la mente fosse completamente dissociata dal corpo, quasi che io fossi solo un osservatore esterno.

Mi ritrovo in cucina: non ricordo gli ultimi metri che ho percorso. So solamente di essere al centro della stanza, immobile. è successo qualcosa.

Il tavolo è apparecchiato, ma non completamente: mancano i bicchieri ed alcune posate. Nell'aria aleggia l'odore del pranzo preparato, anzi, in preparazione. Sui fornelli alcune pentole abbandonate denunciano l'anomalia della situazione: un brivido di freddo mi prende di nuovo, mentre la mia attenzione viene attirata dalla pentola della pasta.

Cilindrica, argentea, quasi altera, troneggia imponente sulle altre stoviglie, come un re sui propri sudditi.

La parte superiore esterna dell'oggetto è sporca, macchiata. Una schiuma biancastra, rappresa ed indurita, ricopre completamente la parte anteriore, dal bordo superiore sino a circa metà della sua altezza, verso il basso.

Per il resto della parte inferiore la schiuma non è riuscita a colare, il fuoco è stato spento prima.

Comunque anche la parte inferiore della pentola risente dell'accaduto: molteplici piccole scie si dipartono dalla massa rappresa in alto e cadono verso il basso. Alcune non sono mai riuscite a raggiungere il fondo e muoiono dopo pochi centimetri, evaporate a causa del calore emesso dalle pareti della pentola: altre, più consistenti, sono invece riuscite a giungere in fondo. Di queste, solo due o tre hanno proseguito il loro viaggio verso il basso: dopo aver creato un piccolo rigonfiamento bruciacchiato dalla vicinanza con il fuoco del fornello, hanno gocciolato poco a poco sul ripiano del piano di cottura, formando delle piccole concrezioni, quasi come delle stalattiti e stalagmiti in miniatura.

All'interno della pentola, l'acqua è ormai fredda: la pasta è completamente scotta.

Sì, mentre rivedo la mia immagine riflessa nello specchio, la mia mente realizza, finalmente, che è successo qualcosa, qualcosa di brutto: babbo non c'è più.

Tre ore prima ho percorso quelle stesse scale con ben altro piglio, al ritorno del lavoro. Sul portone incontro babbo, scambio due parole veloci, quasi distratte: lui ha finito di mangiare e sta andando al bar vicino a casa, per il consueto caffè con relativa partita a carte. Salgo i gradini velocemente ed entro in casa: saluto veloce alla moglie e due chiacchiere veloci anche con lei, per stabilire cosa preparare per pranzo. Mi tolgo la cravatta ed entro in bagno a lavarmi la facciaÖ squilla il telefono. è il barÖ è la fine.

Strano, non mi ricordo chi era al telefono: non mi ricordo nemmeno la conversazione. Di quella giornata, e di quelle che seguirono, non ho nessun ricordo preciso, solo alcuni momenti in flashback, sfumati e lontani nel tempo, quasi permeati da un velo di tristezza e di silenzio.

Solo una cosa è chiara, netta e limpida: il rientro a casa, qualche ora dopo l'inutile corsa all'ospedale e la pentola, quella pentola con il suo contenuto sversato.

 

Mi scuoto e guardo la mia immagine riflessa allo specchio: lo specchio è lo stesso, la casa no.

Sono passati dieci anni esatti dal quel giorno: dieci anni in cui la vita, per tutti noi, è continuata.

Per me, per tutti questi anni, quella pentola è sempre stata lì. Fissa, immobile, silenziosa ma rumorosamente presente: mai, in nessun'occasione che abbia pensato a mio padre, sono riuscito a scindere il suo ricordo da quella maledetta pentola.

Solo adesso, solo oggi, che nello specchio riesco finalmente a vedermi, oltre che guardarmi, comprendo: l'acqua mancante della pentola non è persa, non se n'è andata per sempre.

Semplicemente ha cambiato status, ha mutato forma: divenendo vapore acqueo si è fusa con l'atmosfera circostante, rientrando semplicemente nel ciclo primordiale della vita. La mancanza dell'acqua all'interno della pentola è quindi solo un inganno dei miei sensi imperfetti; la pentola è ancora piena di acqua, e continuerà ad esserlo per sempre.

Nello stesso modo, mio padre non se n'è andato per sempre: è semplice.

Continuerà ad esserci, sempre e per sempre sarà con me ed intorno a me, nei miei ricordi, nei miei modi di fare, nei miei difetti e nei miei pregi. Come ha fatto parte della mia vita durante la sua vita, continuerà a far parte di me anche dopo la sua morte: questo nessuno può cambiarlo od impedirlo.

Questo fa semplicemente parte dello stato delle cose.

E mi ci sono voluti dieci anni per capire.

Patrizia non è ancora tornata: oggi farà tardi al lavoro. Tocca a me preparare il pranzo.

Prendo la pentola (è ancora la stessa) e la riempio d'acqua., quasi fino all'orlo, come sempre: mentre la metto sul fuoco penso che oggi preparerò spaghetti, aglio, olio e peperoncino (sai che novità).

Mi avvio verso la camera per cambiarmi e getto un'occhiata al telefono: oggi non suonerà, lo so.

So anche che un giorno suonerà di nuovo, ma so anche che quel giorno, quei giorni, l'acqua della vita contribuirà a spegnere, spero per sempre, le mie paure.

 

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ins. 11 gennaio 2002