Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Rossella Milone

Con questo racconto ha vinto il sesto premio del concorso Club Poeti 2001-2002, sezione narrativa

 

Parodia di un Lunedì Santo

 
Il lunedì Santo della Pasqua di tre anni fa tutto il mio mondo crollò. Una foto che impazzisce e trasforma i suoi colori in bianco e in nero.
Era il regalo di nozze. Un vaso di cristallo comprato a Praga ad un prezzo irrisorio, con uno dei primi stipendi di mio padre. Il regalo di un novello marito ad una novella sposa, che adora i vasi. Mia madre mi ha sempre detto che un vaso bisogna guardarlo con i giusti occhi. Quando se ne compra uno, vuol dire che vivi in una casa in cui credi di fermarti abbastanza a lungo, se non per tutta la vita. E soprattutto, vuol dire che sei felice o, quantomeno, che sei abbastanza contento da andare dal fioraio e comprare un mazzo di rose profumate che ti abbelliscono il salone. Ovviamente, dipende dai vasi. Non tutti sono dei buoni prodotti ben lavorati, spesso se ne trovano di orrendi solo perché in una casa un vaso o due è giusto che ci sia. Ma se in un posto se ne trovano diversi, qualcuno bellissimo, dai disegni fatti a mano, ad olio, le rifiniture cesellate perfettamente, il cristallo autentico e sottile come la patina del latte che si forma nella tazza, allora quella è gente a posto. Mia madre diceva che un vaso descrive una persona.
Inutile dire che a casa ne avevamo tantissimi. Quelli di creta comprati in Grecia, quelli di terracotta fatti da lei stessa, quelli di porcellana, di cristallo, quelli di vetro soffiato lavorati a Murano. Vasi lunghi e sottili, alti e grassi, bassi a forma di sfera, col collo lungo, con la bocca larga o a forma di collo di cigno, con i manici o senza, colorati o trasparenti. Mia madre, ne era fiera. Ovviamente, il suo preferito era quello che le aveva regalato papà. Quello Ceco, di cristallo di Boemia, sottile e delicato come le piume di un pulcino. Qualche piccolo fiore era sapientemente inciso su di esso, foglie eleganti, petali leggeri. E lei lo teneva nell'ingresso, sulla credenza che dava il benvenuto a chiunque entrasse. Poggiato su un merletto fatto a mano da mia nonna color panna di pizzo, sobrio, bello giusto quel poco da risaltare la fragranza del vaso ma da non metterne la bellezza in un secondo piano. Mia madre era diabolica quando si trattava di vasi.
Il lunedì Santo di ogni Pasqua il vaso veniva lustrato e lucidato più del solito. Riempito da margherite gialle, poi sostituite dalle rose, e poi nuovamente dalle margherite. Mamma diceva che suggerivano un'idea di equilibrio e serenità. Come ogni anno, da sempre, il pranzo del lunedì Santo era un rituale che sfiorava il sacro più della Pasqua stessa. Noi tutti eravamo costretti a prepararci seriamente prima dell'evento. Mamma studiava il menù due settimane prima, correggendolo costantemente tra un giorno e l'altro non appena sapeva che qualche sua amica o qualche parente invitato aveva escogitato una vivanda più arguta della sua. Era un gioco perfetto di spie e astuzia, di intrighi e progetti, che partivano dal semplice agnello con patate e/o piselli, per finire ad una complessa mistura di sapori che ci costringeva a gustare nelle sue architettoniche invenzioni. Quell'anno, mi ero ripromessa di arrivare a casa solo in tarda mattinata, così da vivere il meno possibile l'isteria e la frenesia di mia madre. Mio marito Luca viveva quel giorno in uno stato ipnotico. Si costringeva a sopportare le tediose ore di formali convenevoli familiari e le conversazioni pacate ma ipocrite che inevitabilmente finivano per animare gli spiriti, sorretti dal corposo Brunello di Montalcino della famiglia Banfi che ogni anno ci portava il gentile zio Ugo dai vigneti toscani. Durante il tragitto in macchina che ci portava a casa dei miei, lui si preparava mentalmente, e per tutto il giorno era come se mettesse il cervello in una stanzetta congelata per poi riabilitarlo non appena uscivamo dalla casa maledetta.
Da parte mia, era come fare un bagno nell'acqua densa dell'umiliazione. Da piccola tutta quella preparazione, quell'agitazione genuina, l'euforia della festa con la casa piena di gente, di cuginetti urlanti, di zie dispotiche, dei nonni affettuosi, era una magia. Palpavo con le mie piccole mani il sapore concreto e rassicurante della famiglia. Era un rituale a cui tenevo particolarmente, quello di tagliare l'agnello e subito dopo servire a tavola i piatti ripieni di carne ben cotta, le patate fumanti. Come una donnina di casa adoravo aiutare mia madre, sentirmi protagonista di quella canzone di voci e risate. Dopodiché, le poesie snocciolate dalle bocche infantili di noi bambini condivano il tutto come una dolce, caramellata fragranza che durava fino alla sera. Stesa nel mio letto, riassaporavo nella mente il gusto di quella giornata, riconoscendo il sapore di una gioia infantile. Poi le cose si erano trasformate. Non so come, non so quando. Probabilmente, tutta la magia soffusa della famiglia riunita andò disgregandosi quando mio fratello si trasferì a Londra. Da allora, si è perso tutti i lunedì Santi della famiglia (beato lui, mi verrebbe da dire). Col passare del tempo i cuginetti sono cresciuti e ognuno è andato per la propria strada inseguendo sentieri che nemmeno più incrociano il mio. Io mi sono sposata e nonostante continui a venerare il vecchio rito sacro, è come se una parte di me lo facesse per un dovere tacito, un obbligo che sento di dover compiere per non distruggere del tutto un'allegoria di famiglia felice che incalza presuntuosa in quella parte della mia mente che è ancora bambina. In realtà, ho scoperto semplicemente che i rapporti si sfaldano. Scoloriscono come i dipinti, perdono di gusto, come il cibo conservato troppo a lungo. Alcuni di essi, marciscono addirittura. Ci rimane in bocca il sapore di quello che ricordiamo, che spesso ci fa credere di poter salvare almeno una fetta del nostro pezzo di vita. Piuttosto che gettare via tutto, si salva quel che si può.
Quel lunedì mio marito Luca era particolarmente esasperato. "Se solo tua madre non fosse così finta" disse "sarebbe tutto molto più accettabile. Non è poi così male stare con tutta quella gente. E lo sai che adoro tuo padre: è un uomo tanto intelligente, arguto. Ma tua madre..."
"È solo perché è cresciuta in un ambiente rigido, con regole precise. Per lei l'apparire è essenziale, lo sai. La casa limpida come l'acqua, un vestito che mette in mostra la sua figura ancora snella. Mostrare a tutti quanto sia ancora in grado di controllare la sua vita e soprattutto il suo matrimonio. Morirebbe piuttosto che accettare qualche sbaglio." Era proprio così. Avevo vissuto con quell'apoteosi di presunta perfezione da sempre, che più volte mi aveva spinto a ritirarmi in camera mia a piangere. Il giorno del trasloco nella mia nuova casa fu come tirare un sospiro di sollievo. Ora che avevo una vita mia, con i miei affetti e la mia indipendenza, guardare mia madre era come leggere un libro a cui si è affezionati. Lo comprendi, lo ami, lo odi, lo vivi in tutte le sue sfaccettature, ma poi, alla fine, lo chiudi e lo metti sul comodino. E più passa il tempo, più lo conosci meglio e più impari a guardarlo con diversi punti di vista.
Quando arrivammo non c'era ancora nessuno. Ad accoglierci, nel salone che profumava di margherite, il vaso di cristallo tirato a lucido. Papà mi strinse in un abbraccio feroce. La trasmissione di parole di amore attraverso il caldo del corpo. Ci mostrò subito le ultime novità della sua collezione di piante grasse, appartenenti alla famiglia delle aloe: l'Aloe variegata e l'Aloe humilis. Ci raccontò come aveva vissuto quelle terrorizzanti quarantotto ore con la mamma che si preparava al pranzo di oggi. Disse che fu esasperante e grottesco vederla aggirarsi furtiva tra fornelli e pentole, fiorai e vasi, nell'intento di rendere sublime ciò che per lui e per me era già perfetto. Lo disse con una fragorosa, ironica risata di rassegnazione. Mio padre aveva messo su qualche chilo di troppo, e se ne andava camminando per i corridoi profumati e puliti con quel pancione in avanti e il sorriso bonario sulla faccia rosea. In quel momento, nel salone lindo, lussureggiante con la tavola apparecchiata, mi disse: "Sono contento che siate qui anche quest'anno. È importante. Sto diventando vecchio, e voi siete le persone su cui posso contare. Prima o poi, nella vita bisogna fare il punto della situazione." E mi fissò, un'espressione profonda. Come se volesse dirmi anche dell'altro.
Raggiungemmo mia madre in cucina e lì ci accolse una nuvola densa di odori e sapori, che impregnarono vestiti e capelli come l'incenso in una chiesa. L'olio canticchiava nella padella bollente, la cipolla soffritta emanava aloni stuzzicanti che andavano ad unirsi all'odore leggero di verdure colorate e carne fresca ordinatamente adagiata sul tavolo.
Mamma ci salutò con calore e tutto sembrò improvvisamente molto più accettabile e molto meno tedioso di quanto Luca ed io avessimo pensato. Mia madre raccolse con un cucchiaino una salsina densa e cremosa da una padella e lo avvicinò alle labbra di papà. Ed egli la assaporò con la lingua e tutta la bocca. Con affetto e gli occhi tondi di amore le disse che era deliziosa.
Poco dopo mio padre portò Luca nello studio per mostrargli il modellino del galeone che gli aveva regalato per Natale, mentre mia madre ed io rimanemmo in cucina.
Lei saettava ancora tra i fornelli e i tavoli come una bimba felice. Indossava un vestito nero a collo alto e un bianchissimo grembiulino legato in vita. Nonostante avesse oltrepassato la sessantina, era bella come una fragola matura. Portava i capelli grigi, di un grigio brillante, raccolti in un largo chignon sorretto da uno spillone perlato; Mi abbracciò in una stretta calorosa. Poi immerse il dito nella salsina che stava fumando sui fornelli, la stessa che aveva dato a papà, e me la fece assaggiare dalle sue dita. Era buona. Delicata, con uno stuzzicante retrogusto di prugne e albicocche. Mi lasciò sulle labbra una densa goccia di crema che si sciolse in bocca come il sapore lieve di una favola.
"È squisita, mamma. Cos'è?"
"È la mia crema di albicocche, prugne e pinoli da mettere sul tacchino. È deliziosa, vero?"
"Sul tacchino? Niente agnello?"
"Si, certo che c'è l'agnello! Come potrebbe mancare? Che sciocchina. Il tacchino è per zio Ugo: lo sai che non mangia l'agnello. E comunque ho deciso di servire due secondi, è molto più alla moda. Il primo piatto è così scontato!"
Feci un rapido giro panoramico tra i fornelli. Per antipasto, avrebbe servito uova ripiene con tonno sott'olio, acciughe, capperi, insalata e maionese. Scoprii che quell'anno era tutto puntato sul tacchino, prugne, albicocche e pinoli. La mamma avrebbe sbalordito tutti quanti, lasciandoli a bocca aperta per lo stupore e per il piacere. Ovviamente ci sarebbe stato il cosciotto d'agnello insaporito con pancetta, prosciutto crudo e vino bianco. C'erano anche fettine di agnello con carciofi, piselli al prosciutto, patate al forno con burro e pancetta. E per dolce coppe pasquali alla panna con pesche sciroppate e zuppa inglese.
La cucina profumava di buono. Le tende erano bianche e candide come il vestito della mia prima comunione. Mamma accarezzava le bucce di limone e sfogliava l'insalata come quando io l'osservavo da occhi bassi, da una statura che rendeva tutto magico e bellissimo, mentre mio fratello raccoglieva patate e piselli vagabondi e li ficcava in bocca come un piccolo ladruncolo. Quello che c'era tra ieri e oggi era una pentola calda di ricordi che col passare del tempo avevano perso la fragranza, ma acquisito sapore.
Gli altri invitati arrivarono poco dopo. C'erano proprio tutti, come ogni anno. Il riproponimento di un evento qualunque che permetteva a vite diverse di rincontrarsi alla stessa tavola. Mio zio Ugo con la moglie. Mia cugina Sara, il marito e la loro figlia undicenne con gli occhi spenti e un broncio da far paura. Mia zia Lorena e il suo barboncino Freddy, e i due vicini di casa con i quali i miei avevano intrecciato un'amicizia tutta sigari e teatro.
La casa si riempì di sorrisi. Un cicaleccio costante straripò tra le pareti e inondò la casa con risate, parole e respiri come se componessero una canzone. La tavola, come al solito, era regale. Tra il servizio di piatti di porcellana, i calici brillanti, la tovaglia di pizzo e l'argenteria migliore, spiccava al centro un vaso bellissimo comprato a Parigi, di porcellana retrò che ritraeva una fenice sinuosa dipinta a mano.
L'antipasto di uova pasquali sciolse gli spiriti. Ci rilassammo un po' tutti, anche Luca ed io, nonostante rimanesse qualche piccola briciola di invidia verso i nostri amici che, probabilmente, stavano festeggiando con un divertente pic nic in Abruzzo. Intanto mi chiesi quando papà avrebbe deciso di fare il suo solito discorso. Erano anni che aveva introdotto quella nuova tradizione. In genere avveniva a metà pranzo, quando eravamo tutti già abbastanza stanchi da riuscire ad ascoltare qualunque cosa egli dicesse. In genere, ci propinava le solite parole sugli affetti, sugli anni che passano, sulla sua amata famiglia. Ogni anno, mi commuovevo nel vedere spilli di piccole lacrime che gli pungevano gli occhi.
La portata delle fettine e del cosciotto di agnello saporito, insieme ai piselli col prosciutto, arrivò nel momento in cui papà si cimentava in un cabarettistico racconto riguardo un viaggio che facemmo a Vienna. Tutti scoppiarono a ridere quando fu descritto il mio pietoso, disperato, terrorizzato pianto sull'altissima ruota del Prater, mentre gli altri erano estasiati e felicissimi di essere sulla ruota panoramica più alta d'Europa.
In quell'istante il viso di mio padre cambiò espressione. Non so precisamente cosa fu, ma tra il cosciotto e il tacchino l'atmosfera si trasformò precipitosamente. Come quando il sole scompare ed erutta un tuono. Ci guardò tutti quanti con una faccia misera, spenta. L'espressione triste, tra il rassegnato e l'arrabbiato.
Mia madre portò in tavola il suo pezzo forte. Quello che avrebbe dovuto far rimanere a bocca aperta tutti, tutti quanti. Il tacchino con la crema di prugne, albicocche e pinoli fu pomposamente presentato agli invitati in un vassoio di porcellana turchese, addobbato con larghe foglie di insalata verde e fiorellini di carote.
In quel momento papà tossì. Accompagnato dallo scricchiolio della sedia, si alzò e abbracciò tutta la tavola e i suoi invitati con uno sguardo profondo. Il silenzio piombò nel salotto come caduto dal cielo.
"Come vedete" esordì "quest'anno mia moglie non si è smentita. Ci ha stupito, ci ha deliziato con il suo ottimo pranzo. Ha permesso che oggi, a questa tavola, regnasse una felice armonia e che fosse, come sempre, tutto perfetto. Ovviamente, questa è diventata una tradizione della nostra famiglia che ci permette di passare del tempo assieme, di non perdere i legami che ci hanno sempre unito. Mio fratello Ugo, la sua famiglia, Lorena, mia figlia, Luca, tutti quanti... siete qui con questi due vecchi sentimentali che adorano ancora oggi attribuire un significato particolare a questa riunione." Bevve un sorso di vino. "È per questo che siamo qui. Non è vero? Per celebrare un evento religioso, per rispettarne il significato, ma più che altro è per far vivere quello che crediamo essere il fulcro, la colonna che regge le nostre esistenze. Le nostre famiglie, i nostri legami. Io, almeno, ho sempre dato a questi incontri, tale, importante significato. Sono rammaricato che mio figlio non sia qui e che ormai Londra si sia sostituita a noi. Ma non ne sono, poi, così tanto dispiaciuto. Lui non sopporta le ipocrisie, vive alla giornata. Non fa niente che sembra dovuto."
Sospirò profondamente. "Vorrei essere stato come lui. Vorrei averlo capito prima e aver potuto dare un altro aspetto alla mia vita. Non ho fatto niente che non rifarei. Adoro la mia famiglia, sono fiero dei miei figli e delle loro esistenze. E sono fiero di aver amato mia moglie. Ma ad un certo punto bisogna tirare le somme. E l'ho fatto. Ho tirato le somme e ho capito che questa farsa mi ha davvero stufato."
Lo disse così, con calma, con tranquillità. Noi tutti a fissarla a bocca aperta. "Onestamente, mi piacerebbe passare qualche lunedì Santo in compagnia dei miei amici, a volte. A fumare sigari, a giocare a carte. Piuttosto che rimanere qui con gente che rispetto ma che francamente tutto il resto dell'anno esce completamente dai miei pensieri. So bene che la moglie di mio fratello nutre un sano disprezzo verso il mio lavoro e verso tutta la mia persona. Perché non dirlo? Le sono antipatico, che male c'è? E invece di essere con qualcuno a cui tiene davvero, eccola qui costretta a dire 'sì' e 'no', a sorridere quando invece vorrebbe urlare e schiaffeggiarmi. E, francamente, l'antipatia è ricambiata. Così come mi è estremamente antipatico Freddy che puntualmente, ogni anno, si accoppia con i cuscini del mio divano. E poi perché i tuoi figli, Ugo, sono qui a mangiare il cosciotto di agnello, contenti e tranquilli, e ci raccontano della loro vita felice, della loro esistenza perfetta, quando sappiamo, almeno io lo so, che tuo genero è in una serie crisi economica e sta sul crollo del fallimento per i suoi sporchi affari che ha intrecciato con gente che non è del tutto raccomandabile?"
Eravamo tutti così allibiti che nessuno osava parlare. Mia cugina guardava stupefatta il marito, come se le avessero tolto un braccio. La loro figlia aveva finalmente sgranato gli occhi e mostrato un briciolo di interesse verso qualcosa. Mia madre era diventata bianca e pallida, e lottava ardentemente contro una crisi di nervi. Mio padre continuava a guardarci. Non sapevo cosa diavolo gli fosse preso. Ma non riuscivo a biasimarlo del tutto. Effettivamente anche io avrei voluto essere altrove. Dovevo rimanere seduta accanto all'odiosa zia Lorena dalle guance imbellate, per che cosa? Per dimostrare che eravamo tutti buoni, e bravi, e affettuosi, e capaci di rimanere ancorati alle vecchie tradizioni? Io vivevo quella tradizione come una bugia. Un'allegra frottola sul significato presunto di una famiglia unita. Una pessima parodia dello spettacolo 'siamo tutti felici e contenti'.
Papà continuò. "Non voglio creare problemi o immischiarmi in fatti che, alla fin fine, non mi riguardano. Parlerò quindi della mia famiglia. Delle persone che amo e per le quali darei la vita. Noi viviamo i nostri giorni immersi nell'affetto e nei sorrisi. Abbiamo i problemi di tutti quanti. Soffriamo, piangiamo come tutti. E ci sono anche i momenti sereni, quelli che ti convincono che la vita è davvero bella. Ma poi, dimentichiamo. Dimentichiamo che ci mentiamo e che ci raccontiamo un mucchio di bugie. Forse non tutti i nostri gentili invitati sanno che mio figlio è andato a Londra perché ci odia. Perché ci disprezza profondamente. Non abbiamo mai capito bene i suoi bisogni come un genitore dovrebbe fare. Piuttosto lo abbiamo messo nella condizione di scegliere tra noi e i suoi desideri. Aveva fatto i suoi sbagli, aveva tradito la nostra fiducia, certo. Ma gli abbiamo detto: 'o noi o le tue stupide idee libertine!'. E lui è andato via. Semplicemente. Si è visto sbattere la porta in faccia, si è sentito tradito. Come biasimarlo?"
Papà si sedette. Si passò le mani nei capelli, come se avesse appena una tremenda verità. Era ferito e sofferente come non lo avevo mai visto. "A volte anche dietro a ciò che sembra pulito e perfetto c'è qualcosa da vedere. Alla fine bisogna decidere di scegliere in quali valori credere davvero. È stato difficile vedere anche per me. E ora che ho visto, mi sembra ridicolo far finta di niente." La voce tremava come quella di un bambino che ha freddo.
"Ah! Dimenticavo. Non posso concludere non dicendovi che mia moglie ha un altro uomo. Da sette anni." La fissò. Gli occhi, anche quell'anno, erano gonfi di lacrime. "Ma non preoccuparti, cara, dimenticheremo anche questo."
Scoppiò una bomba. Non una che causa sangue o ferite. Semplicemente una bomba che ti sbatte la verità in faccia e la fa bruciare come il legno in un incendio. Tra borbottii, occhi sbarrati, singhiozzi di pianti che non si trattengono, io rimasi immobile a fissare il mio nuovo mondo. Come in trance. Come se mi avessero svelato un segreto, quello che la vita a volte ti prende in giro solo perché non è in grado di essere all'altezza delle tue aspettative.
Mi risvegliò dal mio stato di catalessi un pianto agghiacciante. Quello di mia madre che aveva visto sgretolarsi il suo mondo perfetto, come una casa fatta di carta. Era ironico che mio padre le dicesse di star calma e tranquilla. Mentre il resto degli invitati era in preda ad una crisi di identità. Qualcuno andò via. Altri rimasero seduti a guardare il tacchino con la crema di prugne, albicocche e pinoli ancora intatto.
Si sentì un frantumarsi di vetri. Uno sgretolarsi di pensieri. Mia madre aveva distrutto il vaso. Quello di cristallo di Boemia. Chicchi luccicanti vibrarono per l'aria come se danzassero. Schegge di purissimo cristallo si accoccolarono sul pavimento, come fiocchi di neve trasparenti.
Pensai che niente avrebbe più riportato quel vaso sulla credenza. E anche se fosse stato riparato, incollato per una magia divina, non sarebbe mai stato lucente e perfetto come prima. Sarebbe stata solo l'incollatura sbagliata di un vaso rotto.

 Classifica Concorso Club poeti 2001-2002 sezione narrativa

PER COMUNICARE CON L'AUTORE mandare msg a clubaut@club.it . Se ha una casella Email gliela inoltreremo.
Se non ha casella email te lo diremo e se vuoi potrai spedirgli una lettera presso «Il Club degli autori, cas.post. 68, 20077 MELEGNANO (Mi)». Allegate Lit. 3.000 in francobolli per contributo spese postali e di segreteria provvederemo a inoltrargliela.
Non chiederci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2002 Il club degli autori, Rossella Milone
Per comunicare con il Club degli autori:
info@club.it
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit
 

IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |

ins.3 maggio 2002