Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Rossella Milone
Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Marguerite Yourcenar 2002, sezione narrativa
Grembi
 
C'era solo una finestra. Era chiusa, nevicava. I fiocchi sbattevano contro i vetri e muti ricadevano sul davanzale sciogliendosi in gocce d'acqua.
C'era odore di muffa, scure macchie di umido dipingevano le pareti. Dal soffitto penzolava un filo verde con una lampadina spenta. L'intonaco era scrostato e cadeva a piccole gocce di cemento sul pavimento. Una brandina con un materasso dormiva in un angolo buio.
Marco non arrivava.
Ero stanca di cercare. Tutte le altre case le avevo scartate: erano troppo costose, e da quando avevo lasciato il lavoro in fabbrica non potevo permettermi granché, nonostante avessi messo da parte una somma discreta. Era stato il signor Braschi a consigliarmi quella casa. Il padrone era un suo intimo amico e sicuramente mi avrebbe aiutata.
Gli stivali lasciavano tracce scure sul pavimento, dove giaceva uno spesso strato di polvere bianca. Era tutta lì, quella casa. In quella stanza colorata di muffa, un piccolo bagno, una finestra chiusa. Eppure mi aveva già inghiottita: ero nel suo stomaco.
Non c'era più tempo per cercare, alla fine lei mi aveva scelta. Era così vicina al negozio, così poco costosa. Così necessaria nel suo essere scarna. E la pancia era già tonda. Accarezzai la sua pelle sottile e mi accorsi di quanto grande fosse già il mio bambino.
La schiena bruciava, le gambe non reggevano il pancione. Mi sedetti tra la polvere bianca, di fronte a quell'unica finestra. Nel grembo della nuova casa. Perché la neve continuava a cadere sui vetri? Sapevo che quel posto avrebbe visto crescere la mia piccola famiglia e mi aspettavo che in qualche modo il mondo decidesse di fermarsi in un sospiro sospeso di attesa mentre, meravigliato, guardava la mia vita cambiare.
Piansi. Il bambino prendeva a calci la pancia. La neve graffiava. Dondolavo avanti e indietro, i capelli oscillavano insieme al mio corpo. Succhiava il sale dalle mie lacrime, le dita si attorcigliavano come nodi in una rete. Come avrei eliminato le macchie di umido? E l'odore di muffa? Come avrei riempito tutto quel vuoto?
La stanza pulsava di un proprio respiro. Mi fissava con quella sua grande finestra, come un occhio che guarda all'interno piuttosto che fuori. Mi spaventava l'idea che lì dentro avrei visto nascere i nostri ricordi. I giorni mi precipitavano addosso: non potevo più vivere in pensione, non avevo soldi, il bambino sarebbe nato fra pochi mesi. Era quello il momento in cui la realtà inghiottisce i sogni. Lo sentivo sulla pelle, nel cervello.
Asciugai le lacrime con le mani sporche. La polvere bianca si appiccicò sulle guance e rimase lì, a tirarmi la pelle.
«Mamma». Dissi ad alta voce, immaginando la voce del mio bambino che pronunciava il mio nuovo nome. «M-a-m-m-a» ripetei.
La casa non produceva nessuna eco. E la melodia della "emme", così gonfia nel suo suono, da sembrare di rinchiudere già tutto un progetto di amore nella semplicità del suo essere lettera, sbatteva contro le pareti umidicce, per poi ricadere a terra, inutile.
Mi avvicinai alla finestra. La casa affacciava su una piccola strada, a pochi metri dalla piazza. Guardava quel paese di montagna a me estraneo accucciato nella sua valle sicura, come una perla nel grembo della sua ostrica. Quel paese che mi aveva adottata e protetta. Tra la neve che fioccava, a stento riuscii a scorgere la croce verde di una farmacia che lampeggiava ad intermittenza. Affianco c'era il negozio di fiori dove lavoravo. Il signor Braschi mi aveva assunta quando avevo lasciato il lavoro in fabbrica, non appena gli dissi che nella mia città non avevo più niente e nessuno.
Avevo solo voglia di scappare da quello che era successo. Gli avevo detto che aspettavo un bambino. Era un uomo massiccio, sempre avvolto nella sua giacca a vento arancione. La barba lunga, grigia. Aveva gli occhi caldi come una tazza di brodo. Ora stava addobbando la vetrina del suo negozio con vasi di bizzarri bonsai.
Fuori al negozio una vecchietta avvolta in uno scialle grigio camminava lungo il marciapiede. Portava una grossa borsa per la spesa. Camminava spedita, vedevo i piedi affondare nella neve. Attraversò la strada, si avvicinò ad un portone di ferro battuto. Aprì il cancello e scomparì nella sua casa. Spesa fresca e pranzo caldo per il suo marito nonnino. Chissà cosa prova il cuore quando invecchia con un altro cuore.
Spostai lo sguardo. La neve sembrava nebbia. Catturava le strade e agguantava i contorni delle case, facendo precipitare il mondo in una realtà che sembrava vera solo in apparenza.
Mi sembrò di vedere Marco camminare sul marciapiede sotto casa. Aveva il suo berretto nero scolorito e socchiudeva gli occhi per proteggerli dalla neve. Spingeva un passeggino blu a stelle bianche che slittava sulla strada e le sue ruote lasciavano profonde strisce bagnate. Dove aveva preso quel passeggino? Lo vidi attraversare la strada e dirigersi verso la casa. In quella trasparenza ovattata, Marco, col suo passeggino blu, pareva l'unico essere umano che camminava sulla Terra.
Sarebbe stato qui tra pochi secondi. Fra un quarto d'ora sarebbe arrivato il proprietario della casa per discutere dell'affitto e per firmare il contratto. La neve continuava a cadere ed io non sapevo che fare.
Forse dovevo scappare. Avrei potuto allontanarmi dalla finestra e raggiungere la porta. Aprirla, scendere le scale, uscire dal portone. E farmi congelare dal freddo. Lasciare che il mio corpo si addormentasse sotto la neve. Ma Marco entrò proprio in quel momento. La faccia rossa di freddo, le ciglia bianche di neve ed il suo cappellino nero tutto inzuppato. Ci guardammo, lui sorrise, io lo fissai negli occhi.
«Hai pianto», affermò. Con la mano ripulì la mia guancia dalla polvere bianca appiccicata. «Guarda, ho recuperato un passeggino, me lo ha dato un mio collega: il suo bambino è cresciuto». Spinse il passeggino nella casa, e le ruote lasciarono strisce bianche tra la polvere del pavimento. Notai che all'interno c'era un pacchettino marrone.
«Ho portato qualcosa da mangiare e da bere», mi disse. Come al solito, Marco era affamato. Dal sacchetto marrone prese un panino che ancora fumava. Addentò il pane, riconobbi il rosso del pomodoro ed il verde dell'insalata. Qualche briciola scura e una macchia di maionese gli rimase appiccicata sulle labbra. Con la lingua la raccolse e continuò a mangiare.
Ritornai alla finestra a guardare fuori. La neve sembrava stesse cadendo con più violenza. Come se precipitasse da un cielo molto più alto.
Era tutto quel bianco ad imbrogliare i pensieri. A renderli deboli e facile preda dell'immaginazione...
Mi parve di sentire il rumore frizzante di una lattina che si stappa, e vidi Marco sorseggiare della birra scadente con le labbra appiccicate sulla latta. Si asciugò la bocca con un fazzoletto di carta. Tolse il berretto e si spettinò i capelli con la mano.
La sua faccia era quella di sempre. La pelle chiara, le lentiggini sul naso sottile, le prime, timide rughe agli angoli della bocca. Cercai sulla sua pelle i motivi per cui mi ero innamorata di lui.
Mi venne vicino e guardò anche lui dalla finestra. I nostri respiri si posavano sul vetro trasformandosi in macchie di vapore bianco. La neve aveva cancellato ogni cosa. Il mondo intrappolato in quella finestra, era bianco e piatto. Non riuscivo a scorgere nemmeno le persone, nemmeno le macchine. Né l'insegna della farmacia, né il fioraio. Come una ladra aveva rubato tutto.
Marco si inginocchiò. Mi abbracciò e appoggiò la guancia sul mio pancione. Sentii che borbottava qualche stupida parola a suo figlio, che se ne stava beato nel suo nido di acqua a prendere a calci la madre. Marco gli aveva parlato già altre volte. Era convinto che in questo modo il bambino si sentisse meno solo. Continuò a sussurrare, aveva gli occhi chiusi, sentivo il respiro caldo soffiarmi sulla pancia, avvertivo le sue labbra muoversi sulla mia salopette. Mi strinse più forte. Sentii il suo viso affondare nella carne. «Dimmi, perché hai pianto?»
Con un movimento goffo mi sedetti per terra. Appoggiai la schiena contro la parete, e rimanemmo tutti e due così, seduti sotto l'enorme finestra. La casa, da quella prospettiva, aveva un altro aspetto. Sembrava più timida senza quell'occhio di vetro, ma anche più povera, come se avesse vergogna di se stessa.
In tutto quel vuoto, l'odore di Marco galleggiava, sembrava anche più forte, come non l'avevo mai sentito. Appoggiai la testa alle sue gambe, stendendomi sulla schiena, e da lì riuscii a vedere tutto il soffitto della casa. La pittura scrostata e le macchie di umido sembravano nuvole nere che disegnavano ombre fantasiose come nei giochi dei bambini.
Chiusi gli occhi. Polpastrelli soffici toccarono la mia pelle, premendo sulla carne tra le pieghe del collo. Le sue dita divennero scintille che incenerivano i pensieri. Quando lui mi toccava era come una fusione. Ne sentivo il calore, anche in quel momento...
... forse stavo impazzendo.
Marco mi fissava. Chinò la testa da un lato, con i denti si morse le labbra, come faceva sempre. Mi guardò con gli occhi attenti, con quel suo atteggiamento di pacata comprensione. Ecco perché amavo Marco. Lo avevo assorbito, così come lui aveva assorbito me: ogni suo gesto mi era così famigliare da diventare necessario. Lo capivo adesso, quando la familiarità del suo amore respirava solo attraverso i ricordi. «Non devi piangere», mi disse.
Aprii bruscamente gli occhi quando qualcuno bussò alla porta. Un uomo sulla cinquantina, con un cappello di lana ricoperto di neve, entrò a grandi passi nella casa. Mi alzai lentamente, e lasciai che l'uomo mi stringesse la mano.
Era il padrone di casa. Mi salutò sorridendo e cominciò a parlarmi delle clausole del contratto, a farmi leggere fogli su fogli. Mentre parlava aveva il vizio di gesticolare animatamente, sembrò quasi che quel suo tanto dimenarsi potesse riempire tutto quel vuoto.
Notai che con sé aveva portato un piccolo tavolo, delle scatole di cartone ed un fornello da campeggio.
«Che cos'è quella roba?», chiesi.
«Ah! Io non ne ho più bisogno. Ho pensato che a lei potrebbe essere utile. Almeno per il momento. Nelle scatole ci sono delle lenzuola e delle coperte», lo disse così, con un sorriso semplice, senza aspettarsi niente in cambio. Mi commossi.
L'uomo sfregò le mani tra loro: «A casa dovrei avere anche una stufa elettrica. È bella grande e anche abbastanza nuova. La porterò qui stasera».
Sorrisi, e chinai la testa prima di scoppiare in lacrime.
«Mia moglie l'ha invitata a cena questa sera. Mi farebbe piacere se venisse».
«Lei è molto gentile».
L'uomo si strinse nella giacca e mi fissò con uno sguardo timido: «Se ha bisogno di qualcosa, noi siamo a sua disposizione».
Non riuscii a sussurrare nemmeno un grazie. Mi avvicinai alla finestra, piangevo.
«Mi dispiace per l'incidente... per suo marito», la sua voce si spense, imbarazzata.
Avrei potuto dirgli che Marco non aveva avuto il tempo di diventare mio marito. Ma non cambiava nulla. Invece gli dissi: «La ringrazio molto, per il suo aiuto». Tirai su con il naso, mentre le lacrime cascavano. «Mio figlio sta per nascere. Devo darmi da fare».
La neve adesso cadeva leggera, fiocchi piccoli come chicchi di sabbia. Il mondo aveva riacquistato i suoi colori. Riuscivo a vedere chiaramente l'insegna verde della farmacia, i clienti che compravano i bouquet di fiori nel negozio del signor Braschi.
La gente passeggiava sottobraccio sorridendo, il paese respirava aldilà di quella finestra chiusa. La aprii e inghiottii l'aria gelida. Oltre le montagne, i raggi di sole cominciarono a rischiarare la valle.
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 Ins. 10-10-2002