Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Roberto Taroni
Con questo racconto ha vinto il PRIMO PREMIO del concorso Concorso Letterario Marguerite Yourcenar 2000 sezione narrativa
 
Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Club Poeti 1999, sezione narrativa
Con questo racconto ha vinto il settimo premio del concorso Concorso Letterario Fonopoli 1999 sezione narrativa
 
La follia di mio padre
 
È seduta proprio davanti a me e sembra quasi che quello sia il suo posto da sempre. Invece non so praticamente nulla di lei, delle sue fantasie, della sua imprevedibilità, dell'indifferenza totale che oppone ad ogni mia sollecitazione e di quel mondo curioso ed esclusivo in cui si ostina a trascinare il vecchio corpo di mio padre.
Nell'aria si percepisce facilmente la mia totale inadeguatezza alla situazione.
Provo a respirare.
Fra di noi c'è soltanto questo esplicito spazio di incomunicabilità, occupato ora per l'occasione dal vecchio tavolo in legno della cucina e da un paio di bicchieri vuoti che aspettano forse un poco di vino. I suoi gomiti sono piantati con forza sul tavolo e gli avambracci tesi servono da sostegno per la testa che è conservata con cura fra due mani rugose e concrete. Un po' di saliva scivola giù da un angolo della bocca e inumidisce una camicia azzurra.
La guardo negli occhi ed è davvero doloroso dover prendere atto ancora una volta che neppure per un istante riesco ad attirare su di me la sua attenzione. La follia di mio padre tende infatti ad eludermi dal suo campo visivo, preferendo piuttosto fluttuare nel vuoto lungo tutte le pareti disponibili, soffermandosi in particolare sui disegni impressi nella ceramica dei rivestimenti verticali, alla ricerca affannosa di una collocazione più consona a ricevere il suo prezioso sguardo.
E io resto qui accanto a lei, immobile ad osservare il suo eterno pellegrinaggio che sa di morte e di giorni perduti per sempre, con il cuore che si schianterebbe volentieri al suolo se solo gli permettessi di andare e una voglia irrefrenabile di urlare che come sempre soffoco per evitare di fare i conti con la mia stessa disperazione.
Di nuovo provo a respirare.
E non c'è nessun altro essere umano oltre me dentro questa casa. Nessuno. Mia moglie è uscita due ore fa e non tornerà prima che arrivi l'ora di cena. Le ho chiesto io di allontanarsi. Lei non avrebbe voluto lasciarmi in questa situazione, ma io le ho detto che andava tutto bene e che avevo bisogno di restare da solo.
La follia di mio padre ora s'ingegna in una nuova espressione. Sorride infatti davanti a questo mio sconforto, e lo fa nel modo in cui lo farebbe un padre davanti a un figlio che non riesce a svolgere un elementare compito di matematica, con la stessa compassione. Vuole forse tenere inchiodata la mia attenzione su di lei e usa senza remore le sue migliori armi di persuasione, quel sorriso che mille volte ho visto su quella stessa faccia e che mille volte mi ha aiutato a superare l'ostacolo.
Era un uomo intraprendente, mio padre. Dodici anni fa, nonostante il parere negativo di parenti e amici, aveva aperto una piccola attività di vendita di moto dando fondo a tutti i suoi risparmi e coprendosi di debiti fino al collo. Si trattava di un insignificante negozio di quaranta metri quadrati situato in un vicolo poco illuminato del centro di Roma, la nostra città, difficilmente raggiungibile per via della perpetuità di alcuni lavori in corso e assolutamente privo di luce solare. La stoffa marrone applicata sui muri e un pavimento in pessimo stato rendevano ancor più angosciante l'unica vetrina disponibile.
Così, sia pure dopo un lungo periodo di transizione in cui gli affari oscillavano fra alti e bassi senza soluzione di continuità e in cui l'unica filosofia ufficialmente accettata in casa nostra era il rispetto della sobrietà e il controllo totale dei consumi, ci fu finalmente una inaspettata svolta commerciale. Mio padre ottenne una sorta di esclusiva per la vendita dei motorini di una grande azienda giapponese che aveva appena deciso di sondare il mercato italiano, ma che fino a quel momento era pressoché sconosciuta nel vecchio continente. Quella di mio padre si rivelò subito come una scelta felice e il nostro piccolo esercizio ebbe un'improvvisa visibilità su tutto il territorio cittadino. Il danaro cominciò ad affluire copioso nelle nostre tasche, con il conseguente improvviso miglioramento del nostro tenore di vita.
A quella scelta felice seguirono altre scelte felici e a un certo punto le cose andavano così bene che numerosi negozi con il suo marchio, ormai diventato garanzia di qualità, cominciarono ad apparire ovunque in città e tutti i parenti e gli amici un tempo detrattori finirono per entrare a far parte dell'organigramma aziendale con buona pace delle loro perplessità iniziali. Noi intanto potevamo addirittura permetterci una nuova casa con annesso giardino e un ufficio di due piani in un quartiere signorile, con tanto di segretarie minigonnate e straripanti all'occorrenza di sorrisi non richiesti e gentilezze plastificate all'interno di frasi ammiccanti e logore di consuetudine.
Ciò che più invidiavo a mio padre era il fatto che tutti i suoi dipendenti lo amassero smisuratamente. Infatti non passava una sola settimana senza che qualcuno di loro entrasse nel mio ufficio per ricordarmi il cognome che indossavo, abbracciandomi e sussurrandomi all'orecchio che comunque anch'io un giorno, nel momento in cui avessi preso in mano la gestione dell'azienda, mi sarei dimostrato degno del talento del mio genitore. Ma in realtà quegli incontri reiterati avevano su di me l'unico effetto di rinnovare quel senso di frustrazione e quel desiderio di trovarmi altrove che mi avrebbero poi perseguitato per anni prima di trovare il coraggio di fuggire via.
Quel giorno in cui una delle nostre segretarie entrò nella mia stanza e con fare languido e suadente mi consegnò alcune carte da firmare, facendo bene attenzione nello sfiorare con la giusta dose di intenzioni il mio braccio destro con le sue cosce seminude, capii definitivamente che quello non era il mio posto.
I ricordi si sciolgono nell'aria colpiti dall'incedere dei miei passi nervosi. Come un pugno di polvere in un fascio di luce.
La follia di mio padre continua intanto nel suo viaggio ricognitivo all'interno della cucina e mi fa sempre più rabbia rappresentare l'unico spazio omesso dal suo raggio d'azione, l'unico microcosmo inesplorato dalla sua febbrile ricerca. Vorrei tanto farle capire di esistere, spiegarle che anch'io come lei ho il diritto di essere considerato per come sono, ma purtroppo non riesco a pronunciare un sola sillaba e tutto ciò che ho dentro resta ancora una volta confinato nell'angusta prigione del mio malessere. Come quando cercavo di parlare a mio padre e lui pretendeva di sentirsi dire soltanto ciò che corrispondeva all'immagine che lui si era fatto di me, e il mio tentativo di approccio senza filtro doveva quindi necessariamente essere rimandato a data da destinarsi.
Nell'aria si avverte ancora la mia inadeguatezza e allora mi faccio coraggio e le prendo una mano trattenendola fra le mie che intanto cominciano a sudare. La follia di mio padre non reagisce almeno apparentemente al contatto e mi lascia da solo a rianimare quel pezzo di carne grinzosa ormai priva di vita e destinata a perenne inutilità. Allora la stringo forte fino a farle male, ma neppure questo tentativo riesce ad ottenere l'effetto voluto e l'unica replica concessami è soltanto una smorfia di dolore appena percettibile sul suo viso.
Dalla finestra aperta sul cortile arrivano lontani echi di bambini in gioco e quasi mi sembra di tornare indietro al tempo in cui padre mi insegnava ad andare in bicicletta. Lievi fragranze di caffè provenienti forse dall'appartamento accanto distraggono i miei sensi dall'immobilità diffusa che mio malgrado sono costretto a infilare nei polmoni. La sua gamba destra prende a tentennare nervosamente e mai come adesso mi accorgo che di mio padre non è rimasto più nulla in questo corpo che non vuole arrendersi al tempo.
Quando andai via fu per lui un colpo mortale. Era un giorno di primavera splendido come pochi altri e la mia lettera di dimissioni aspettava impaziente il suo arrivo sopra una scrivania grigia piena di carte. Avrei voluto dirgliele le parole che gli avevo scritto, avrei voluto essere presente nel momento del mio commiato, ma come al solito il coraggio di affrontare la situazione non mi sosteneva adeguatamente e allora optai per la scrittura, genere che del resto mi è sempre stato più congeniale. Quando entrò in azienda infatti, io mi trovavo già su un Intercity diretto a Firenze con una sola valigia riposta sul portapacchi e tanta paura di conoscere il mio domani.
Non vidi perciò la delusione scendere come un velo sul suo volto per oscurare il suo aspetto di imprenditore in carriera e anche più tardi, nonostante i miei ripetuti sforzi, non riuscii mai ad immaginare la reazione che ebbe quel giorno. A dire il vero adoperai ogni giorno successivo alla mia fuga per tentare di rimuovere ogni legame mentale che potesse ricondurmi al passato e per sfilarmi di dosso quel personaggio scomodo che mi era stato cucito sulla pelle senza il mio consenso.
E non seppi più nulla di lui.
E mai lo cercai.
E mai mi cercò.
Io nel frattempo avevo provveduto a costruire una vita che potesse definirsi finalmente mia a Firenze. Avevo conosciuto Monica e l'avevo sposata nonostante il parere contrario dei suoi genitori che la ritenevano ancora troppo giovane per compiere un passo così importante. Avevo trovato lavoro nell'amministrazione di una piccola casa editrice che si occupava di arte e mi accingevo alla ricomposizione graduale della mia identità, sperando che la mia nuova sfera affettiva si sovrapponesse in qualche modo a quel grande senso di colpa che intanto si stava dilatando dentro di me come una macchia d'olio su un foglio di carta.
E con quel grande senso di colpa, appena stemperato dal mio amore per Monica, sono sopravvissuto fino a una settimana fa, ovvero fino a quando una lettera di un conoscente mi avvertiva che mio padre si era gravemente ammalato ed aveva tentato più volte il suicidio con tutti i mezzi possibili, per cui era stato ricoverato in una clinica e sottoposto ad una terapia che però lo avrebbe ucciso comunque. Lo stesso conoscente mi informava inoltre che l'azienda era andata in rovina per via dei debiti che da tempo gravavano sul bilancio dell'inettitudine conclamata dei nuovi proprietari del marchio, una famiglia veneta di scarse vedute commerciali. Quanto a mio padre, già da qualche anno aveva abbandonato la sua stessa creatura e si era ritirato a vita privata, lasciando alle ore e ai giorni della sua oziosa vecchiaia il compito ingrato di condurlo all'altare della follia.
Non appena ricevuta la notizia mi precipitai a Roma nella clinica in cui era stato ricoverato e, con grande sollievo dei dottori, lasciai ad intendere che da quel momento in poi mi sarei occupato io di ciò che restava di mio padre.
Fu un colpo scoprire che non mi riconosceva più. Stava lì, avvolto nella sua tristezza dentro un lettino sudicio di incuria, pallido e magro come un uomo appena raccolto dalla strada, già perso nei suoi incubi irraggiungibili. Lo osservai mentre muoveva la bocca rapidamente, ma senza mai aprirla più di un millimetro. Cercava invano di raccogliere le forze per allungarsi a prendere un bicchiere d'acqua. Allora presi il bicchiere e lo accostai alle sue labbra lasciando che il liquido colasse giù nella gola a placare il suo bisogno impellente. Quasi mi sembrava di sognare. L'uomo che avevo davanti era dunque lo stesso uomo che non ero mai riuscito a conquistare. Com'era potuto finire così. Dove aveva smarrito la sua strada. Quando era successo tutto ciò. Perché lo avevo abbandonato.
La follia di mio padre intanto si è alzata in piedi e con l'ausilio di un bastone si avvicina sempre più alla finestra trascinando con sé due gambe sottili e insicure. Mi avvicino a lei sbarrandole il passo. Mi accosto al suo volto ormai scavato dagli anni. Non l'ho mai visto così vecchio e stanco come in questo momento. Ora i nostri occhi sono quasi a contatto e la punta del mio naso ha già toccato la sua. Le cingo la vita in un abbraccio che si trova esattamente a metà tra l'amore eterno e il desiderio di uccidere. La follia di mio padre cerca invano di divincolarsi dilatando le pupille per cercare un angolo dove non trovarmi e sfuggire di nuovo al mio sguardo. La mia bocca è a un solo centimetro dalla sua. Lascio finalmente partire quell'urlo fortissimo che da sempre mi stazione nell'anima, ed è semplicemente terribile ascoltare l'eco di tutto quel dolore mai raccontato che si libera in un'unica fragorosa esplosione.
Poi, in quel particolare e disumano silenzio che segue ogni esplosione, non riesco a trattenere un pianto che sa di cose non dette e occasioni perdute. Il mio viso si adagia sulla sua spalla ossuta. Ogni distanza si è frantumata. Ogni barriera è stata abbattuta. Dietro di me, sopra la mia spalla sinistra, altre lacrime si sciolgono ancora, le sue, una per ogni giorno di lontananza, una per ogni incomprensione, una per ogni frammento di vita bruciato per sempre.
Chiudo gli occhi.
La follia di mio padre per un attimo mi ha concesso la sua assenza. Fra poco tornerà di nuovo ad occupare quel corpo e, anche se continuerò a maledire il giorno in cui è entrata in questa casa, non la ringrazierò mai abbastanza per avermi regalato l'ultimo soffio di vita dell'uomo che la vita mi ha dato.
 

 

Concorso Marguerite Yourcenar 2000 a sez. narrativa
 
PER COMUNICARE CON L'AUTORE speditegli una lettera presso «Il Club degli autori, cas.post. 68, 20077 MELEGNANO (Mi)». Allegate Lit. 3.000 in francobolli per contributo spese postali e di segreteria provvederemo a inoltrargliela.
Non chiedeteci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2000 Il club degli autori, Roberto Taroni
Per comunicare con il Club degli autori: info@club.it
 
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit
 

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agg. 3 novembre 2000