Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Roberto Farina
Con questo racconto ha vinto il secondo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2006, sezione narrativa

«L'ultima donna, l'ultimo amore»



L'angoscia mi sorprese in una tarda mattinata di Luglio, quando terminato il trasloco del mio appartamento al centro di Roma, fido rifugio per oltre vent'anni, mi apprestavo a chiudere per l'ultima volta la porta dietro le mie spalle.
L'intenzione di lasciare questo luogo che per tanto tempo mi aveva visto come fedele inquilino mi sovvenne quando, maturata l'età della pensione, decisi di confinarmi in campagna per trascorrere gli ultimi anni di questa vita immerso in una natura dimenticata, cullando la passione sempre accesa per la musica classica e soprattutto per quella vecchia compagna che è la poesia.
Dopo avere valutato numerose offerte, decisi di acquistare una piccola villa adagiata nel verde di una graziosa tenuta boscosa, estesa per alcuni ettari nella meravigliosa cornice dei colli fiorentini.
Appartenuta ad un maestro d'orchestra e ottimo pianista, tale Marcus Wengen, ultimo discendente di una famiglia borghese, fu abbandonata ad una triste agonia durante gli ultimi decenni del secolo scorso, causa le disastrose finanze del musicista; sommerso dai debiti di gioco ed incapace di provvedere con i suoi guadagni al mantenimento dei possedimenti di famiglia, morì in circostanze alquanto tragiche, togliendosi egli stesso la vita con una calibro 9mm seduto dinanzi al pianoforte.
Tutto ciò scosse notevolmente la moglie del defunto, la quale per scacciare in maniera radicale il ricordo della sua perdita decise di vendere la tenuta; svariate trattative andarono in fumo per le più futili motivazioni, tra le quali stupide leggende popolari che volevano lo spirito senza pace del musicista ancora vacante all'interno della villa; fu allora decisione della vedova Wengen quella di svendere letteralmente l'immobile, e fu così, che per una modica cifra ne entrai in possesso.
Curai personalmente il trasloco e fui particolarmente compiaciuto del fatto che la ditta incaricata eseguì le mie volontà alla lettera, riservando una notevole attenzione per gli effetti personali più preziosi come il tavolino in Art Nouveau, omaggio del direttore della galleria d'arte di Firenze, il vecchio cassettone in noce massiccia che mi costò una fortuna dall'antiquario di via Bellini, ma soprattutto per i quadri di Mary-Ann, aventi ai miei occhi un valore inestimabile.
Con il passare del tempo il suo ricordo era sbiadito: non ricordavo più così nitidamente gli aneddoti della nostra vita insieme come nei primi anni dopo la sua morte; sembrerebbe che la mente, in funzione di autodifesa, abbia smorzato il ricordo del mio grande amore prematuramente perduto, quasi a volere salvare il resto della mia esistenza dall'assiduo tormento del dolore. Ciò che rimaneva ora erano dei flashback di momenti passati assieme, l'immagine del suo viso che mi sorrideva e gli strascichi soffocati del nostro amore.
In quella mattina di Luglio, mentre per l'ultima volta calpestavo il pavimento della casa che era stata nostra, tornarono prepotentemente alla luce le scene gioiose di quando, novelli sposi giocavamo innocenti, bagnati dalla prospettiva di una felicità assoluta; il turbamento mi paralizzò appesantendomi il petto quando scorsi la camera da letto. Là Mary-Ann affrontò coraggiosa il suo calvario, alimentando con forza un'anima confinata in un corpo che era sempre più un relitto, afflitto dai dolori lancinanti che solo dosi massicce di calmanti placavano; una di quelle sere, in un raro momento di apparente lucidità voltò lo sguardo verso me, sbocciò in un candido sorriso e disse teneramente: «Però, sei carino!».
«Anche tu sei tanto carina!» risposi con un sorriso di circostanza che male mascherava la mia disperazione.
Nel rimembrare quei tragici istanti, il dolore risalì con forza dentro me dando un barbaro assalto al mio cuore e facendomi scoppiare in un pianto incontrollato; mi voltai repentinamente, percorsi il corridoio della zona notte ed il salone a passi lunghi e decisi, quindi senza mai voltarmi uscii da quella casa per l'ultima volta sbattendo con forza la porta d'ingresso, come a volere confinarci dentro tutti quei ricordi.
Erano passati ormai dieci anni da quando la mia Mary-Ann mi aveva lasciato; da allora trascinavo la mia anima in questo mondo come un essere al di fuori del tempo, senza pensiero alcuno che percepisse la speranza o la necessità di un nuovo amore; l'unica passione che ancora mi scaldava il cuore era la poesia.
Il suono perfetto dei versi di Lorca, la leggera genuinità di Montale e le tormentate strofe di Rimbaud mi accompagnavano durante il giorno come amici fedeli, lasciando alla notte i bagliori di ispirazione che illuminavano l'anima incatenando armoniosamente parole sinuose su di un foglio bianco; era allora che nell'aria si liberava quella magia inspiegabile che solo la poesia crea, uscendo dal sogno tracciato in un foglio macchiato di inchiostro, e rendendo lo stesso reale in una serenità assoluta.
Erano quelli gli attimi in cui il mio tempo non mi appariva soltanto come una cornice scabra in cui mi trovavo confinato dal pennello maldestro di chissà quale pittore, in quegli istanti, capienti come l'infinito, trovavo il silenzio disumano della pace, solcato solo dal suono del mio cruento respiro e dai versi melodiosi che aleggiavano accanto in quell'atmosfera leggera.
Consumai alcuni giorni ad ordinare lo studio secondo i canoni a me consueti, lo scrittoio dinanzi l'ampia finestra che dal primo piano si affacciava nell'ingresso principale della tenuta, la libreria dietro le mie spalle ed il vecchio giradischi accanto al cassettone in noce intarsiata, dove usavo ordinare i dischi e qualche altro oggetto di personale valore. Mi impegnavo ad inquadrare la governante, assunta sotto la accurata raccomandazione della vedova Wengen durante il nostro primo incontro; Martina, questo il suo nome, era una graziosa ed elegante signora bavarese, che smentiva sorprendentemente la diceria che vuole il precoce deterioramento fisico delle donne germaniche; la pelle elastica mascherava bene qualche ruga fascinosa accanto agli occhi verde ghiaccio, il naso sottile e le labbra rosse dal morbido aspetto non sembravano appartenere alla quarantacinquenne che mi trovavo davanti. Si offriva ai miei occhi come una donna dalla felicità nascosta sotto una corazza professionale che forse faticava a mantenere, sia quando apprendeva da me le direttive settimanali, e sia quando organizzava il lavoro dei due domestici, mostrandosi decisa ma dolce allo stesso tempo.
Durante il primo periodo seguito al trasferimento, sovente mi alzavo la notte, il sonno non mi accoglieva come al solito tra le sue braccia, portandomi a rintanarmi nello studio dove al cospetto di una finestra di luna piena stendevo qualche verso che mi portava fino all'alba.
Il fine settimana successivo ricevetti la visita della vedova Wengen, la quale accettando il mio invito per un tè, si presentò con puntualità alle cinque del pomeriggio; la governante fece servire un delizioso tè verde accompagnato da dei biscotti al cioccolato svizzeri per i quali avevo un debole; fu allora che scoprii che Lodovica Wengen non era affatto la persona che mi aspettavo. La donna turbata e arroccata su se stessa a causa dei fallimentari tentativi di vendere la villa che conobbi qualche mese prima, era svanita dietro il volto sereno ed i modi cordiali di questa cinquantenne che ora avevo dinanzi. Al contrario del sottoscritto, durante gli oltre dieci anni di solitudine seguiti alla morte del marito, Lodovica aveva imparato a convivere con il suo dolore, inserendolo come un elemento costante della vita e ponendolo in armonia con il resto del suo mondo, seguitando così ad interpretare l'opera della sua esistenza come principale protagonista. I capelli neri e raccolti liberavano ai miei occhi il viso chiaro, radioso come una rosa che sboccia alla luce di un sole di Maggio, mentre il sorriso placido e gioioso cantava della semplicità di quella donna dalle movenze eleganti. Incrociai la folgore dei suoi occhi scuri quando sedemmo nella veranda del salone dei ricevimenti, dove per la prima volta dopo la morte di Mary-Ann, fui colto dallo stupore nel constatare il mio imbarazzo dinanzi a tanta grazia. Consumammo il tè con una lentezza epica, discutendo di musica, poesia e pittura, evitando qualsiasi riferimento alla villa ed a Marcus Wengen; le sue parole prendevano corpo nell'aria circostante come fossero là da tempo, sopite in attesa di rivivere nel suono leggero della sua voce.
Quando Lodovica prese congedo mi ritrovai occluso in un turbinio di sensi, eccitazione per la modalità di quell'incontro inaspettato, malinconia per la dipartita della donna ed un ineffabile senso di colpa per aver lasciato che tali sensazioni prendessero il sopravvento; pensavo a Mary-Ann, vergognandomi come un criminale consapevole del suo reato, nascondendo la mia anima alla vista dei suoi occhi e tentando con la convinzione di un bambino di allontanare da me il pensiero di Lodovica Wengen.
Così non fu, e quando la settimana seguente Lodovica mi chiese di accompagnarla in città per la visita alla mostra itinerante sul Modigliani, che si teneva alla Galleria d'arte moderna a Palazzo Pitti, accettai con uno slancio che credevo perso da tempo, pervaso da fremiti adolescenziali da primo amore. Dinanzi alla "Elena Pavlowski" lo sguardo della dama che scortavo si faceva tenue; aveva un'innata sensibilità per tutto ciò che era arte, ed il suo viso acquisiva un tono da bambina quando estasiata da un'opera, cercava di coglierne i misteri.
La seguivo nella visita standole di fianco e parlando poco, ascoltando compiaciuto il suono della sua voce liberarsi dalle labbra rosse; la cadenza lenta e quasi affaticata del suo parlare infondeva in me una pace assoluta, era come se l'incalzare solito del tempo, in sua presenza mutasse la propria corsa, quasi ammansito dalle sue parole. «Adoro l'arte come la vita» disse dinanzi ad una teca in vetro dove erano esposte alcune lettere dell'artista, stendendo su di me uno sguardo d'attesa. «L'arte è quella parte di noi stessi che tutti vorrebbero vedere specchiando immagine della propria anima».
«Credi che tutti possiedano un nocciolo artistico racchiuso nel proprio animo? », esclamò sorpresa dandomi finalmente del tu come le avevo chiesto.
«Già, lo credo» dissi, sicuro del mio pensiero e felice di enunciarlo: «L'arte è ovunque, con i suoi rami copre qualunque cosa palpabile ai nostri sensi, quindi considerato che non esiste essere che disprezzi il mondo nella sua totalità, credo che un barlume d'arte viva in ogni creatura».
«Non credi possa trattarsi di semplice istinto?».
«Non credo! Ma soprattutto non voglio crederlo».
«Non posso pensare che la spiegazione a questo tema sia racchiusa nel semplice istinto animale, cadrebbe l'idea del mondo che fin ora ho coltivato».
«Voglio bensì credere, che l'istinto di cui tu parli sia solo uno dei tanti mezzi usati dallo spirito artistico, arroccato nel subconscio, per emergere dai meandri dell'anima».
A quest'ultima battuta sorrise teneramente, e riprendendo la nostra visita disse:
«Sei un sognatore, un affascinante sognatore».
In quel fazzoletto di mondo la natura volgeva ormai all'alba di un autunno agognato da tanti, le foglie palmate dei castagni cominciavano a cadere, creando un tappeto giallo scuro nel sottobosco, privilegiato nascondiglio per tartufi e porcini reali, principi di stagione; le brezze della sera intanto rinfrescavano sempre più il loro alito, mentre nuvole solitarie facevano la loro comparsa, come soldati in avanscoperta a precedere la grande armata. Seduto al mio scrittoio volgevo lo sguardo a quelle giornate sempre più corte, ricordando quando da ragazzo ciò era causa di una tristezza malinconica; con il passare degli anni imparai ad apprezzare molto quel periodo, giornate uggiose, il calore del focolare e le lunghe passeggiate nel parco erano elementi che favorivano la mia ispirazione ed i miei versi.
Fu proprio in un momento di slancio poetico che fui interrotto da Martina, che scusandosi garbatamente per l'avermi distolto dai miei versi, mi porse una lettera appena recapitatagli dall'autista di Lodovica, con su scritto: "URGENTE". Sorpresa e preoccupazione mi assalirono e la frenesia tra le dita ridusse a brandelli la busta contenente il messaggio; improvvisamente incupito, elencavo nella mia mente una serie infinita di motivazioni per le quali Lodovica avrebbe potuto farmi recapitare un messaggio con quella parola folgorante espressa a caratteri cubitali; pensai con orrore alle più fatali disgrazie, alla scoperta di una malattia incurabile, alla morte di una persona cara, ad uno stato di depressione improvviso, tutto avvenne in un lasso di tempo infinitamente piccolo che non sembrava finire mai. Quando aprii il foglio bianco contenuto nella busta rimasi felicemente impietrito nel leggere: «Mi è stato consegnato un nuovo pianoforte, vorrei fossi con me quando dirà le sue prime parole! Ti aspetto stasera, alle 9. Non farmi aspettare troppo. Lodovica».
Trascorsi qualche istante in assoluto silenzio, il mio corpo non ebbe il benché minimo sussulto ed il tempo cessò il suo moto perpetuo; quell'atmosfera assente fu rotta quando percepii la presenza di Martina, immobile poco distante dallo scrittoio e avvolta da una espressione perplessa per la scena cui aveva assistito; la fissai come a volere difendere la mia privacy ma mi accorsi di averla già perduta, allora mi schiarii la voce con un lieve colpo di tosse ed indispettito dissi: «stasera vorrei mangiare prima del solito».
Giunsi con la massima puntualità e ad accogliere il suono del campanello del palazzo settecentesco che si erigeva sulla riva nord dell'Arno, fu il filippino: «Benvenuto Signore» esordì il domestico facendomi segno di seguirlo su per la rampa di scale e fino all'ingresso del salone al primo piano, quindi spalancatomi il portone in noce massiccio, mi lascio al mio destino ed al viso sorridente della padrona di casa. Lodovica era come una notte di luna piena ammirata in una spiaggia deserta, la luce del suo viso illuminava la sala ed i suoi occhi vividi irrompevano come un terremoto nei meandri del mio cuore, squassando i tremolanti sensi da tempo sopiti. In verità non avrei mai creduto di potere provare ancora una volta tali sensazione per una donna, ma colei che avevo dinanzi metteva in dubbio anche la mia più nitida delle certezze. «Sei puntualissimo!» disse con soddisfazione, mentre mi veniva incontro con quel suo portamento naturalmente regale.
«Avrei mai potuto non soddisfare la richiesta di una così bella donna?».
«Certo che no!» esclamò, rivelando piacere e gratitudine per la mia galanteria. Mi invitò ad accomodarmi sulla poltrona in pelle chiara e si allontanò per versare da bere per entrambi, quindi dopo avermi offerto il ballon ospitante un delizioso Bordeaux, disse: «È tanto tempo che non suono per qualcuno che non sia io, stasera suonerò per te»; quelle parole mi caddero addosso pesanti ed inaspettate, mi sentii come immobilizzato da una forza esterna che in quell'istante paralizzò il mio corpo; fu allora che iniziai a credere che l'impossibile stesse verificandosi, l'amore si presentava alla mia porta a sessantenni suonati, non reclamato, non atteso; si presentava sotto le dolci sembianze di quella donna, che d'amore sembrava fatta. Seduta al Bosendorfer carezzava i tasti d'avorio e le note del "Clair de lune" di Debussy invasero sinuose l'aria del salone; mi destai dalla poltrona per accostarmi al piano, il profumo di violette selvatiche mescolava la sua anima con i suoni leggiadri di Madame Wengen, creando una atmosfera irreale, assente. Lo sguardo di Lodovica mi seguì fino quando mi trovai dinanzi a lei, la musica si interruppe e in un istante infinito entrai senza fiato nei suoi occhi, colmi di parole gracili e leggere, chinai il mio volto verso il suo e le baciai le labbra entrando in un sogno dal quale ancor oggi non desto.


Roberto Farina


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