Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Remo Stanzani
 
Con questo racconto ha vinto il terzo premio del concorso Vittorio Tolasi 2000, sezione nerrativa
 
Il primo comandamento
 
Celestino era il suo nome, ma solo l'anziano prete che lo battezzò nella chiesa dell'antico borgo di Scaricalasino lo sapeva. Per la gente della Valle di Sàvena si chiamava Stiancòn, e basta.
Un soprannome che, tradotto dal colorito dialetto locale, significa "colui che spacca ogni cosa". Inverno quell'appellativo gli si addiceva alla perfezione, anche in virtù della sua possente struttura fisica: quasi due metri di altezza, oltre centotrenta centimetri di circonferenza toracica e un buon quintale di peso netto, il tutto servito da imponenti masse muscolari, tali da consentire il sollevamento e trasporto delle macine di pietra del vecchio mulino di cui Stiancòn era proprietario.
Una forza della natura, un colosso, una cariatide semovente; questo era Stiancòn.
Trasportare due sacchi di farina da mezzo quintale ciascuno, dopo averli ben bene abbrancati e sistemati sulle anche, era per lui il quotidiano esercizio del suo lavoro di mugnaio, sotto lo sguardo attento amorevole della signora Antenisca.
A quali argomenti avesse fatto ricorso, quel bestione di Stiancòn, per impalmare l'esile, delicata e quasi eterea Antenisca, stimata e riverita maestra nelle scuole elementari di Scaricalasino, fu e rimase un mistero.
Di certo non fu la gentilezza di portamento a far palpitare d'amore il cuore della dolce maestrina, dato che Stiancòn, abituato a manovrare sacchi di farina e macine di mulino con quelle manacce che parevano badili, aveva la grazia di un elefante in una cristalleria.
Nemmeno fu merito di fluida eloquenza, poiché il vocabolario del gigantesco mugnaio era assai limitato, e ristretto a pochi lemmi, espressi per giunta con manifesta difficoltà, gravati come erano di strampalati accenti e distorti da una pronuncia marcatamente dialettale. La consonante 'esse', per esempio, gli usciva di bocca con suoni così sibilanti che certe parole parevano emesse più da una locomotiva a vapore che da un uomo munito di regolare licenza di scuola elementare.
Il vocabolario di Stiancòn, inoltre, non era molto ricco, essendo ridotto all'essenziale. In compenso, però, le parole non erano normalmente pronunciate, ma urlate a gran voce, a causa dell'abitudine acquisita nel mulino per soverchiare il fracasso prodotto dalle macine. Perfino le parole d'amore, che di solito si sussurrano con toni il più possibile melodiosi all'orecchio dell'amato bene, risuonavano come il tuono nella Valle del Sàvena, talché si diceva in giro che fu più lo spavento che la passione a convincere la bella e aggraziata Antenisca a salire con il velo da sposa e gradini dell'altare.
Nonostante le apparenze, il matrimonio di Stiancòn con l'Antenisca durò nel tempo, malgrado l'assenza di prole. D'altronde Stiancòn non dava motivi di gelosia alla gentile sua consorte, impegnato com'era a tempo pieno nel suo mulino. Quanto alla Signora Antenisca, svolgeva la sua vita fra la casa annessa al mulino, la scuola e la chiesa, sempre puntuale alla messa della domenica, al fianco di suo marito, docilmente obbediente ai cenni che gli indicavano il momento di inginocchiarsi e quello di segnarsi.
Eppure Stiancòn aveva vissuto il suo momento di gloria quando, essendo atleta di riserva nella squadra nazionale di tiro alla fune, in occasione di un'importante competizione svoltasi in Giappone, dovette disputare la decisiva gara di finale, a causa di un improvviso malanno che capitò ad uno degli atleti titolari, contro la favorita squadra giapponese, composta di giganteschi lottatori di 'sumo', uno sport che vanta in Giappone un'antichissima tradizione.
I giornali sportivi dell'epoca riferirono che le cose si erano messe male per la squadra italiana, ma per la caparbia ostinazione di Stiancòn fu possibile aver ragione della resistenza avversaria. Si raccontò che nel momento topico della gara Stiancòn trovò la forza di trascinare per dieci metri, da solo, una mezza tonnellata di giapponesi molto arrabbiati e disperatamente attaccati ad una fune che pareva agganciata ad un rimorchiatore d'altura.
Pianse lacrime di strizza, il buon Stiancòn, quando - passata l'euforia per la vittoria - apprese che non erano previste medaglie d'oro per gli atleti di riserva. Dovette accontentarsi di un acròlito di giada raffigurante un panciuto Budda solennemente assiso in atteggiamento estatico e bonariamente protettivo. Pur essendo un buon cristiano, per lui quell'idolo divenne il simbolo di un momento di gloria, l'unico nella sua vita di oscuro mugnaio della Valle di Sàvena.
Lo sistemò con cura in una nicchia ricavata in una trave portante del mulino, perché gli sembrava di riceverne conforto allorché, bianco di farina, alzava gli occhi per distogliersi dalla mediocrità delle sue crebre giornate.
Mentre attendeva, in un afoso pomeriggio estivo, che un po' d'acqua arrivasse per muovere la grande ruota del mulino, inattivo a causa della persistente magra del torrente, vide accanto al Budda sereno e pacioso un Crocefisso di maiolica che nel viso sofferente di Gesù esprimeva tutto il dolore del mondo.
Si adontò fieramente, Stiancòn, per quella che gli parve un'indebita intromissione nell'intimità dei suoi sentimenti, e fu tentato di contestare aspramente alla rea consorte la violenza ideologica contro un simbolo per lui evocatore di gloriosi ricordi; ma si trattenne perché "Alla fine fine - pensò - non è male avere due protettori, uno giocando e uno triste. Bene rappresentano la vita umana fatta di giorni belli e brutti".
Decise perciò di far finta di niente e di attendere la spiegazione che di certo la Signora Antenisca si sarebbe premurata di fornire. Passarono i giorni, poi i mesi, e anche qualche anno. Stiancòn lavorava sempre meno, perché i vecchi mulini ad acqua erano emarginati dai moderni impianti molitori che, indifferenti ai capricci di un corso d'acqua soggetto a repentine e prolungate magre, meglio potevano servire la clientela.
Un brutto giorno di un bruttissimo novembre, dopo molte ore di pioggia intensa e persistente, il Sàvena schiumò di collera e assunse un aspetto terrificante, avventando verso la pianura un'imponente valanga liquida, tutto travolgendo e devastando, mentre decine di rii e centinaia di botri scaricavano nel furibondo flutto le loro acque piene di fango, di sterpi e di arbusti divelti. Rami spezzati e anche qualche grosso tronco ballonzolavano nei gorghi, qua e là rimbalzando a colpire, a guisa di arieti, le intrise prode; lunghi tratti di riva erano ingoiati nella schifosa bòzzima; ogni opera umana eretta lungo il corso del torrente fu schiantata: capanne, baracche, passerelle, steccati, pollai, conigliere, arnie, tutto fu spazzato via in un attimo; polli, conigli e anche qualche pecora orrendamente gonfia testimoniavano che il Sàvena incanaglito aveva preteso un sacrificale tributo di vite.
Neppure il vecchio mulino di Stiancòn poté resistere al liquido assalto: sotto la spinta della turbinosa corrente la sua grande ruota cedette; le sue pale furono divelte e trascinate via come fuscelli; le macine si fermarono. Con il coraggio della disperazione Stiancòn tentò di salvare almeno il perno della ruota: con tutta la sua possanza lo puntellò contro il lurido fiotto; ma il Sàvena fu più forte di lui. Il perno si spezzò e fu ingoiato nella liquida bolgia, mentre Stiancòn veniva scaraventato contro un grosso macigno, alla base del quale giacque esanime.
Con tre costole rotte, una vasta ferita sulla fronte e semi sommerso nel furibondo gorgo melmoso che lo premeva contro il provvidenziale macigno, Stiancòn era allo stremo.
Chiunque sarebbe stato sopraffatto in quella spaventosa situazione. Ma Stiancòn non era uno chiunque, sebbene un campione mondiale di tiro alla fune.
Una fune! Non credeva ai suoi occhi impiastricciati di fanghiglia quando proprio una fune, penzolante davanti al suo naso, intravide fra violenti spruzzi. La impugnò con la stessa rabbia disperata che gli permise di trionfare nella memorabile gara di tanti anni addietro, come se un grappolo di lardosi atleti giapponesi fosse all'altro capo. C'era invece la Signora Antenisca che gli faceva cenno di non mollare.
Stiancòn obbedì, come sempre. Con le manacce simili a badili, raccogliendo ogni residua energia, senza far caso al costato che gli dava fitte dolorose, né al sangue che gli rigava le guance, Stiancòn aveva artigliato quella fune, che per lui era la vita.
Con suo grande stupore si sentì svellere dalla stretta mortale della corrente e sollevare di quel tanto che bastava per trarsi fuori dal gorgo e guadagnare un punto della riva ove poter svenire in santa pace.
Quando riprese i sensi nel suo letto, qualche ora dopo, vide su di sé due volti noti: quello dell'Antenisca che gli sorrideva, e quello di Gesù Crocefisso, che pareva guardarlo con severo cipiglio. Preferì concentrarsi sul volto di sua moglie, alla quale domandò dove aveva trovato la forza per strapparlo al torrente, lei, così minuta e delicata.
"Nella preghiera, mio caro Celestino, solo nella preghiera che una moglie cristiana come me ha rivolto con fede a Gesù Crocefisso, che pareva osservarmi dalla sua nicchia.
È stato Gesù che con il suo sguardo sofferente mi ha indicato una delle funi in dotazione all'argano per il sollevamento dei sacchi di farina. Non ho fatto altro che mettere la fune alla tua portata e azionare l'argano, senza troppa fatica. Puoi ben dire, mio caro Celestino, che devi la tua vita al Crocefisso della nicchia."
Non ritenne opportuno fare altre domande, il mugnaio Celestino detto Stiancòn, né sollevò obiezioni per essere stato trattato alla stregua di un sacco di farina. Solo dopo qualche giorno, quando fu completamente ristabilito, si azzardò a chiedere notizie del suo Budda di giada.
"L'ha portato via la piena" - rispose con gelida calma la Signora Antenisca - "nello stesso momento che tu fosti travolto e scaraventato in acqua." Una breve pausa di riflessione, poi: "Forse il Sàvena ha pensato che stavate bene assieme, tu e quel Budda, e che meritavate il paradiso orientale, dove pare che si stia allegri e felici in buona compagnia."
Accennò ad un condiscendente sorriso, Stiancòn, per significare che considerava chiuso l'argomento, ma la Signora Antenisca aveva ancora qualcosa da dire: "Devi sapere, mio caro Celestino, che Gesù, al quale io mi ero fiduciosamente rivolta, mi ispirò il pensiero che dovevo scegliere chi salvare: o Budda o te, mio caro Celestino."
Fece una pausa per volgere gli occhi al Crocefisso, ben sistemato al centro della nicchia, poi riattaccò: "Io sono cristiana, cattolica e scrupolosa osservante del Decalogo che, per me, è la pietra d'angolo su cui si deve fondare la nostra vita terrena.
Sono tenuta quindi a rispettare il Primo Comandamento, che tu certamente ricordi."
Sospirò profondamente, prima di proseguire: "Potevo scegliere di salvare il Budda, e di lasciarti morire nel torrente. Ma l'idea di trascorrere la vedovanza sotto lo sguardo bovino di quell'idolo con la pancia debordante non mi andava a genio."
Piantò due occhi sfolgoranti in faccia a suo marito, prima di dichiarare, con ferma inflessione di voce: "Ho quindi affidato il Budda alle acque del Sàvena per salvare te, che sei mio sposo nel bene e nel male, che sei carne della mia carne, come ci disse un giorno un sacerdote nella casa di Dio".
Assunse un atteggiamento ispirato prima di concludere: "Spero di aver fatto la scelta giusta, sacrificando quel povero Budda."
Fu così che il mugnaio Celestino, detto Stiancòn, campione di tiro alla fune, imparò che il Signore Iddio non ama né la confusione delle idee, né la concorrenza.
 

 

Classifica Concorso Vittorio Tolasi 2000 sez. narrativa
 
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inserito il 19 dicembre 2000