Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Raffaella Poletti
Ha pubblicato il libro
Raffaella Poletti - Colpisci le stelle


 

 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
14x20,5 - pp. 44 - Euro 5,60
ISBN 88-8356-849-4
 

Pubblicazione stampata con il contributo de
IL CLUB degli autori per il piazzamento ottenuto dall'autrice
nel concorso letterario «Città di Melegnano» 2003
Prefazione
Incipit

Prefazione
 
I racconti che compongono la raccolta "Colpisci le stelle" di Raffaella Poletti, con poche ma autentiche parole, riescono a racchiudere un mondo di emozioni e di sentimenti: un filo conduttore che lega le varie vicende rivelando continue e profonde riflessioni sull'umano esistere.
Nelle storie raccontate emerge sempre, chiaramente e distintamente, una tensione a cercar di scoprire ciò che rimane nascosto nelle pieghe dell'anima, a tentar di disvelare le percezioni dell'amore, e ci si imbatte in protagonisti che riescono ad "udire parole laddove v'è solo il silenzio", "a vedere un mondo dove gli altri non vedono nulla" come capita ad una bambina che incontra per caso un misterioso "uomo del quarto piano" con una casa stracolma di libri e di certo non abituato a ricevere ospiti tanto da avere in casa un solo piatto, un solo bicchiere, una sola tazzina e via dicendo. Eppure questo strano incontro sarà meraviglioso e affascinerà la bambina tanto da indurla a trascorrere con lui ogni momento libero delle sue vacanze; e quando l'uomo, d'incanto scomparirà, rimarrà di lui solo un piccolo pacchetto chiuso con lo spago, l'ultima offerta ad una povera bambina che vive in uno squallido bilocale in un quartiere malfamato ma che, grazie a quell'uomo misterioso, aveva scoperto un mondo nuovo e la speranza di un domani migliore: questo sarà il dono più bello.
Non v'è dubbio che nelle parole di Raffaella Poletti, a volte, traspare l'amara consapevolezza che non si deve lasciare scorrere la vita sulla propria pelle ma è fondamentale recuperare l'entusiasmo per fare ciò che piace, ciò che regala serenità e quiete all'anima: ecco allora che si potrà gustare il caffé al mattino come si faceva una volta, godersi una tranquilla camminata fino al negozio di fiori della nonna proprio come succede alla protagonista del racconto "La bottega sulla piazza" e, inaspettatamente, accorgersi di essere una "persona nuova" che guarda alla vita con rinnovato entusiasmo ora che tutto appare diverso e più bello. Magicamente anche l'aria frizzante della sera diventa una medicina e i profumi della vita sono fragranze di felicità.
Raffaella Poletti offre al lettore sei racconti che contengono, in varie forme e metafore, una serie di necessità vitali: dall'esigenza di dover sempre oltrepassare il muro che ci separa dall'essenza autentica delle cose, alla necessità di lottare per essere padroni di se stessi e tutto si intreccia con continue rivelazioni che indicano che la strada giusta è sempre quella più faticosa.
Le riflessioni e le ineludibili risposte agli interrogativi che si pone sono ancor più efficaci per quella immediatezza e spontaneità di una scrittura che spazza via le mistificazioni e riesce a riscattare le eventuali perdite, le precarie situazioni esistenziali, il frantumarsi dei sogni, fino allo scacco ultimo giocato dal destino che, a causa di qualcosa d'inafferrabile, può dividere due persone che si amano e lasciarle per sempre sospese ad un filo.
 

Massimiliano Del Duca

 

 
Colpisci le stelle

Ad Achim,
che per primo
ha acceso le
stelle


Giovanni balla con gli occhi
 
 
"Il bambino è un po' strano..."
"Ha uno sguardo strano..."
"Si racconta che compia delle stranezze..."
"Strano" era il termine ricorrente sulla bocca di chi viveva in paese.
Sguardi lanciati di nascosto e frasi sussurrate.
La casetta bianca pitturata di fresco si ergeva, intimidita dalla diffidenza altrui, su un piccolissimo ma curatissimo giardino. Un giardino con minuscole aiuole variopinte e roseti multicolore.
In quella casetta abitava Giovanni.
Giovanni dagli occhi sfuggenti.
Giovanni ballerino.
Giovanni non andava a scuola. Il pulmino giallo canarino non fermava mai davanti alla casetta bianca pitturata di fresco; nessuno mai sostava davanti al cancelletto a chiacchierare con Giovanni; nessuno mai sostava a chiacchierare con la sua mamma.
La gente si comportava come se al posto della casetta bianca pitturata di fresco vi fosse una montagna, che per pigrizia o per timore ci si rifiutava di scalare.
Nelle calde giornate estive, la mamma di Giovanni sedeva su una seggiola a dondolo all'ombra del piccolo porticato e lasciava Giovanni vagare per il giardinetto.
Lo osservava mentre raggiungeva gli angoli a lui conosciuti; lo osservava annusare e leccare prima la rosellina gialla, poi la rossa e infine quella rosa; lo osservava quando iniziava a girare su se stesso come una trottola, le braccia aperte a catturare il vento.
Affascinata.
Così appariva la mamma di Giovanni.
Affascinata dal mondo del figlio.
Quella che le altre persone definivano stranezza e pazzia, per lei si trasformava in magia.
Così sedeva con un lieve sorriso sulle labbra; guardava Giovanni, i suoi occhi sfuggenti, e mormorava:
"Bravo, Giovanni. Balla con gli occhi..."
"Giovanni balla con gli occhi" ripeteva il bambino.
La gente del paese si chiedeva perché un simile bambino non vivesse in istituto e non capiva la madre, non capiva perché non cercasse di condurre una vita "normale".
La gente non capiva.
Non capiva che non esiste vita senza magia, e Giovanni era magia.
La magia di Giovanni era talmente potente che quando il bambino si sedeva in giardino e cominciava a dondolarsi, gli uccellini volavano dagli alberi per andare a posarsi sulle sue spalle, sulle sue ginocchia e sul suo capo. Lì rimanevano, stregati dalla nenia che usciva dalle sue labbra e con lui dondolavano.
La mamma di Giovanni sorrideva alle facce sbalordite dei passanti e ammiccava con gli occhi. Nessuno però mai si fermava, nemmeno per salutare.
Nessuno. Almeno fino a quel giorno.
Quel giorno Giovanni sedeva in giardino, due uccellini sulle ginocchia e uno sul capo; gli occhi sfuggenti, dondolava il busto e cantava la solita nenia.
Con la pesante cartella sulle spalle, passò davanti al cancelletto una bimbetta dalle bionde trecce svolazzanti. Superò la casetta bianca pitturata di fresco; si fermò proprio in mezzo al marciapiede e tornò indietro. Guardò prima Giovanni poi la mamma di Giovanni e disse educata:
"Buongiorno"
"Buongiorno a te" rispose la mamma di Giovanni.
"Ma come fa il bambino a convincere gli uccellini a restare fermi lì?"
"Oh, in realtà non lo so. Credo si tratti di una magia... Lo fa da sempre. Lui comunica così con gli animali. È più difficile per lui comunicare con le persone... con coloro che non credono nelle magie..."
"Io ci credo" disse la bambina convinta.
La mamma di Giovanni sorrise e disse:
"Entra pure, se vuoi"
La bimbetta dalle bionde trecce svolazzanti entrò dal cancelletto, posò la pesante cartella e si avvicinò curiosa a Giovanni.
"Forse la magia la fa con la bocca, eh?" e guardò la mamma di Giovanni con aria interrogativa.
"Può darsi... o forse viene dall'anima..."
"Gli uccellini forse possono vedere dentro alle anime delle persone"
"O percepirne l'intensità e la purezza"
"Già" convenne la piccola, pensierosa.
Se ne stava ancora diritta davanti a Giovanni e lo osservava attentamente.
"In paese si dice che siete tutti e due pazzi e che questo bambino starebbe molto meglio in un istituto"
"Um, um..." La mamma di Giovanni versava in enormi bicchieri grandi quantità di tè freddo.
"Non le interessa, vero?"
"No"
"Ma lei non parla mai con nessuno ? Non le mancano degli amici ?"
"No"
"Perché?"
"Non ne ho bisogno"
"Tutti hanno bisogno di amici. Io sono arrivata in questo paese da poco ed ero triste perché non avevo amici, poi però è cominciata la scuola ed ho conosciuto altri bambini. Ora sono felice"
"Um, um..."
"Sarò io vostra amica!" affermò con decisione la bimbetta dalle bionde trecce svolazzanti.
"Certo. Sarai nostra amica" sussurrò mesta la mamma di Giovanni.
La bambina tornò ancora due volte alla casetta bianca pitturata di fresco e osservò Giovanni ballerino annusare e leccare i boccioli di roselline. Chiacchierava educatamente con la mamma di Giovanni per poi zittirsi improvvisamente quando Giovanni diventava mago e stregava gli uccelli.
Dopo quelle due volte la bimbetta dalle bionde trecce svolazzanti non fece più ritorno alla casetta bianca pitturata di fresco.
Venne l'autunno e poi l'inverno.
Sopraggiunse la primavera e la bimbetta dalle bionde trecce svolazzanti arrivò correndo lungo il marciapiede. Si fermò trafelata e spinse il cancelletto per entrare nel giardino della casetta bianca pitturata di fresco.
Si immobilizzò. Silenzio tutt'intorno.
La pittura della casetta bianca si era scrostata. Il giardino, invaso di erbacce, assisteva sterile al rinsecchimento delle aiuole variopinte e dei roseti multicolore.
"...era da immaginarselo..."
"...grave com'era..."
"...e strano, soprattutto strano..."
Udì delle voci provenire dal marciapiede e vide due signore di mezz'età ferme ad osservare la casetta che era stata bianca e pitturata di fresco.
"Scusate, signore..."
"Che cosa vuoi bambina?"
"Ma dove sono andate le persone che vivevano qui?"
"Non lo sai, bambina?" disse la più grassoccia, guardando con aria complice l'amica "la madre se ne è andata subito dopo la morte del figlio. Ha lasciato il paese. Certo che era da credere...strano com'era..."
"Già, dicevano che facesse cose strane..." e, continuando a conversare, le due donne si incamminarono nuovamente.
"Non faceva cose strane!! Giovanni era un magoooo!!" urlò la bimbetta dalle bionde trecce svolazzanti, le lacrime agli occhi e i pugni stretti lungo i fianchi.
"Certo, certo, bambina..." dissero le due signore e continuarono a camminare e conversare.
La piccola sedette nel giardinetto dove sempre sedeva Giovanni.
Prese a dondolarsi tra le lacrime. Una nenia usciva dalle sue labbra.
Un uccellino dondolava con lei.

L'uomo del quarto piano
 
 
Da bambina vivevo con la mia famiglia in città. Non in centro però.
I miei genitori erano povera gente, altro non potevano permettersi che uno squallido bilocale in un quartieraccio malfamato.
Il condominio in cui abitavo era praticamente irriconoscibile dagli altri che lo circondavano: enormi alveari grigi di cemento. Ai balconi timidi gerani scoloriti e rinsecchiti.
Ma i miei genitori mai cedettero allo squallore. Si impegnavano con tutte le loro forze a mantenere in vita una microoasi di felicità e fertilità.
Mia madre trattava la cucina come un tempio e tutte le sere strofinava le piastrelle opache sprigionanti vapori di fritti e sughi. Teneva sempre sulla credenza un bastoncino di vaniglia e spruzzava di goccioline le piantine di erbette aromatiche.
Purtroppo, nemmeno le mani fatate di mia madre poterono nulla per salvare i gerani.
Dormivo con i miei fratelli in una stanzetta minuscola. La finestrella dal vetro opaco non lasciava filtrare nessuna luce.
I miei genitori dormivano invece su un divano letto dalle molle ormai consunte. Ogni sera mia madre apriva ed attrezzava il divano per la notte, ogni mattina lo richiudeva con la massima cura per non usurare ulteriormente le molle arrugginite.
Le giornate trascorrevano sempre uguali: i miei genitori partivano il mattino presto per il lavoro, i miei fratelli ed io per la scuola.
La mamma coltivava appassionatamente il suo dovere di educatrice e mai ci mandò a scuola con i compiti non perfettamente svolti. Usavamo le matite fino a che non si riducevano a mozziconi inutilizzabili e ci passavamo i libri dal più grande alla più piccola, cioè io.
Ognuno di noi aveva le proprie responsabilità e i propri compiti per contribuire al "benessere" famigliare: essendo la più piccola spettavano a me sempre le incombenze più spiacevoli. Dopo pranzo, prima di fare i compiti, toccava a me buttare l'immondizia. Mia madre si rifiutava categoricamente di tenere la spazzatura in cucina per più di una giornata, diceva che puzzava e vanificava "l'effetto vaniglia".
E fu proprio in una giornata qualunque che, mentre scendevo le scale per buttare l'immondizia, lo incontrai.
Un uomo, carico di libri enormi, tentava invano di infilare la chiave nella serratura di uno dei tanti appartamenti del quarto piano; senza molto successo in realtà, dato che non poteva vedere dove fosse la toppa, sommerso come era dai volumi.
Tentava a vuoto.
Immobile, lo osservavo incuriosita, la sportina dei rifiuti stretta nella mano sinistra, la destra appoggiata alla ringhiera delle scale.
Ero talmente affascinata dalla scena che l'ultima cosa a cui pensavo era di posare i rifiuti e di dargli una mano.
Lui mi vide. La sua bocca si allargò in un gran sorriso e disse:
"Buon pomeriggio! Bella giornata, vero ?"
Sulla sua fronte imperlata di sudore per la fatica, si formarono tante rughette, così come agli angoli degli occhi e della bocca.
Fui ancora più travolta dall'immagine. Non credevo che un unico viso potesse contenere una tale miriade di rughe.
Parlò di nuovo, costringendomi ad uscire dallo stato di trance in cui mi trovavo.
"Spiacente di distoglierti dallo spettacolo... ma mi chiedevo se potessi aiutarmi..."
Finalmente consapevole della realtà e conscia della mia natura fondamentalmente gentile, lasciai sul pianerottolo delle scale i rifiuti e corsi ad aiutarlo.
Infilai la chiave ed aprii la porta. L'uomo si fiondò all'interno e riversò sul tavolo una montagna di carta stampata rilegata in pesante cuoio.
"Grazie" disse e subito parve dimenticarsi di me. Prese ad accarezzare assorto libro per libro.
Felice che in fondo lo spettacolo non fosse terminato con l'apertura della porta, mi assestai meglio sulla soglia e rimasi a guardare.
Quando ormai pareva essere trascorsa un'eternità, l'uomo parlò senza voltarsi:
"Vorresti per caso un tè alla menta ?"
Senza rispondere entrai e chiusi la porta alle mie spalle.
Sembrava che l'uomo si fosse appena trasferito. Nessun oggetto sui mobili. Il letto consisteva in un materasso spoglio e macchiato.
"Anche lui non deve essere poi tanto ricco" pensai.
L'unico arredo dell'appartamento erano i libri. Enormi quantità di libri sparsi ovunque, grandi, piccoli, rilegati in pelle o cartoncino colorato e impolverato.
Solo libri.
E tè. Mi resi conto col tempo che possedeva una riserva inesauribile di tè alla menta. Pareva che quell'uomo vivesse di tè e letture.
Sedetti al tavolo ed attesi educata che mi servisse il tè alla menta in un tipico bicchierino marocchino, il vetro ormai opaco dall'uso.
Lui si servì il tè in una normale tazzina.
"Sai, non è mia abitudine ricevere ospiti. Possiedo un solo bicchiere, un solo piatto, una sola tazzina..."
"E tanti libri, a quel che vedo!"
"Finalmente posso udire la tua voce. Cominciavo a pensare che fossi senz'anima!!" Rise.
Lo guardai sbalordita e lui dovette accorgersene perché specificò:
"C'è chi sostiene che con la voce vibri l'anima, ma io non sono poi tanto d'accordo: se ciò fosse vero milioni di esseri viventi sarebbero senz'anima...non posso credere che sia così...". Rise di nuovo. Una risatina sottile e sommessa, quasi fra sé e sé.
Lui mi fissò, gli occhi ridenti. Poi disse:
"Bene. Immagino che tu debba andare ora. Si è fatto tardi"
Mi alzai e sistemai educatamente la sedia, senza far rumore. Uscii.
Salii le scale fino al sesto piano.
Per il resto del pomeriggio pensai spesso all'uomo del quarto piano.
Quella sera papà tornò tardi dal lavoro, fuori era buio da tempo. Una volta entrato, esclamò risentito:
"Certo che la gente non ha più riguardo per niente e per nessuno! Adesso nemmeno fanno la fatica di buttarla l'immondizia, la lasciano per le scale!"
Io scattai sulla sedia, ricordandomi improvvisamente di non aver adempiuto al mio incarico.
L'indomani si ripresentò la stessa situazione del giorno precedente: io che scendevo per buttare i rifiuti, lui alle prese con la porta.
"Senta, ma quanti libri possiede lei?!" esclamai mentre accorrevo ad aiutarlo.
"Grazie, cara. Ti andrebbe un tè alla menta?"
Stavo per accettare prontamente l'invito quando mi sovvenni dei rifiuti e dissi:
"Però vado prima a buttare la spazzatura. Sa, ieri l'ho scordata per le scale..."
"Intanto scaldo l'acqua"
Scesi le scale di corsa, saltando gli ultimi due gradini di ogni rampa. Lanciai il sacchetto sul cumulo di rifiuti che in origine avrebbe dovuto essere un cassonetto e ripresi sempre di corsa le scale.
Arrivai ansimante al quarto piano e spinsi la porta lasciata socchiusa.
Entrai, scostai "la mia sedia" e sedetti al "mio posto" con naturalezza.
L'uomo mi guardò incuriosito e disse:
"Noto con piacere che ti trovi a tuo agio qui"
Versò l'acqua bollente nel pentolino dove già attendevano le foglioline di tè alla menta.
"Come ha detto che si chiama lei?" chiesi.
"Non l'ho detto" rispose lui tranquillo.
A me il bicchiere, a lui la tazzina.
"Ti andrebbe quando cominceranno le vacanze estive di aiutarmi a sistemare tutti questi volumi? Potresti venire un po' da me il pomeriggio"
"Va bene" risposi.
Attesi con ansia che trascorresse l'ultimo mese di scuola.
Il primo giorno di vacanza scesi al quarto piano e mi apprestai a bussare alla sua porta, la trovai socchiusa. Notai che non aveva ancora messo il nome sul campanello.
L'uomo dall'aria sorridente disse entusiasta:
"Sapevo che saresti venuta. Ho già preparato il tè"
Mi guardai attorno e vidi che aveva attrezzato le pareti con enormi scaffali in legno.
"Bevi il tè, su. Poi sistemeremo i libri" disse, tutto contento.
In realtà, non avevo tanta voglia di sistemare quella montagna di libri, ma ero così affascinata dalla sua persona che non mi sognai nemmeno di rifiutare il mio aiuto. Anche se mi sarei accontentata di rimanere ad osservare...
Mi riscossi alle sue parole:
"Vediamo un po'.... Sezione prima: storia antica..." e cominciò a raccogliere da ogni angolo della casa enormi volumi.
"Eccolo! Non lo trovavo... Questo è uno dei miei preferiti: Storia dell'antico Egitto!" Aprì il pesante volume sul tavolo.
"Guarda, la più grande civiltà dell'antichità si presenta a te per farsi conoscere..."
Mi avvicinai ulteriormente e osservai il manuale. Le pagine gialline odoravano di chiuso. In fondo ad ogni pagina vi era un disegno, che in seguito conobbi come scrittura geroglifica.
Mi appassionai. Affascinata sfogliai con estrema lentezza le prime pagine del volume, rapita da quei disegni, da quell'odore, dallo strano calore che emanava ogni singolo foglio.
Lui mi lasciò fare e continuò a riordinare gli altri tomi. Ogni tanto lo sentivo esclamare:
"Oh, eccoti qua... La storia degli eserciti dell'antichità! Che strateghi! Ammirevoli, davvero ammirevoli..."
Oppure:
"Questo sì che è importante! La Storia dell'antica Grecia! Importantissimo! Qui stanno le basi..."
E poi:
"Eccolo qui! Non lo trovavo... Erodoto!" e ancora "Mai sentito parlare di Aristarco di Samotracia?"
Io ascoltavo mentre sfogliavo le pagine del librone sull'antico Egitto, non consapevole che quell'uomo mi stesse iniziando al sapere, alla conoscenza, alla ricerca dell'essere e dell'essenza.
A partire da quel giorno, trascorsi con lui ogni momento libero delle mie vacanze estive. Passai ore ed ore con il mio nuovo amico, di cui non conoscevo nemmeno il nome. Più volte gli chiesi quale fosse e la risposta era sempre la stessa:
"È così importante per te conoscere il mio nome?"
"Beh... sì. Lo è. Lei saprà il mio, no?"
"Io non te l'ho mai chiesto"
"Ma lo conosce, no ?"
Lui mi sorrideva silenzioso ed enigmatico. Io, intimidita, lasciavo sempre cadere il discorso.
Nemmeno sul campanello aveva indicato il nome... Del resto nessuno mai suonava o bussava a quella porta. Non riceveva mai visite, a parte me, ed io trovavo sempre la porta socchiusa, come se lui sapesse esattamente quando sarei arrivata. E il tè alla menta era sempre bollente, pronto da filtrare.
Durante i nostri incontri imparavo cose sempre più interessanti ed affascinanti: mi parlò dei grandi che fecero la storia, ma anche della gente comune, dei "piccoli", come diceva lui, che fecero la storia.
Ogni volta mi esponeva la sua teoria, secondo la quale gli avvenimenti tendono a percorrere i tempi in maniera circolare ed epoche apparentemente lontane diventano sorelle. Diceva che ogni epoca segue un corso per cui, inevitabilmente, arriva all'apice per poi precipitare e tutto ha nuovamente inizio. Diceva che la vera conoscenza stava nell'identificare i momenti di ogni epoca.
Io ascoltavo rapita e mi sforzavo di ricordare tutto ciò che usciva dalle sue labbra, per poi discuterne con lui.
Era sempre disponibile a discutere e trattava con rispetto i miei goffi tentativi di contraddirlo e stuzzicarlo per "mero gusto dialettico".
Così trascorreva il tempo.
Non saprei riconoscere con chiarezza il momento in cui divenni superba e saccente.
I primi segnali del mio cambiamento furono avvertiti dai miei genitori e dai miei fratelli.
L'atmosfera in casa non era più la stessa: non lasciavo sfuggire nessuna occasione per ricercare lo scontro dialettico; provocavo impietosamente le conoscenze dei miei genitori, riversando davanti ai loro occhi stupiti il mio arrogante sapere.
"Ma si può sapere di che parli tutto il santo giorno? Dove hai imparato tutte le cose che vai dicendo da mattina a sera?" chiese un giorno il maggiore dei miei fratelli, sospettoso ed irritato.
"E dove vuoi che le abbia imparate?! A scuola!! E se studiassi di più, le sapresti pure tu!"
"Senti un po', bimbetta da strapazzo: ne abbiamo tutti pieni le scatole di te e delle tue stupide teorie da quattro soldi. Mamma e papà lavorano ogni giorno fino allo sfinimento ed ora che siamo in vacanza lavoriamo pure noi fratelli: tu sei l'unica a starsene tutto il giorno a casa a non far nulla... E dopo tutto vieni pure a fare la presuntuosa?" rosso dalla rabbia mio fratello continuò:
"La mamma non ha mai permesso ad uno dei suoi figli di trascurare gli studi, ma certo non immaginava che la sua stessa figlia arrivasse a darle costantemente della ignorante e della pezzente..." gli occhi fuori dalla testa, sputava le terribili parole sul mio viso.
Con le lacrime agli occhi, uscii di casa e scesi di corsa le scale fino al quarto piano. Mi fiondai verso l'appartamento del mio amico ed andai letteralmente a sbattere contro una porta irrimediabilmente chiusa.
Non era mai accaduto prima e fissai indecisa il campanello. Vi lessi un nome:
"Rossi". Sempre più allibita, mi decisi a suonare.
Venne ad aprire la porta una donna qualunque dall'aria trascurata. Mi guardò prima interrogativa poi impaziente, infine sbottò:
"Allora ?! Chi cerchi?"
"Cerco il signor... non so il suo nome... però abita qui, sono sicura! È molto magro... ha gli occhi azzurri... ah, sì: è quel signore pieno di rughe quando sorride..."
"Qui non abita nessuno del genere. Hai sbagliato appartamento"
"Forse se ne è andato stamattina. L'ho incontrato ieri..."
"Questo non è possibile. La mia famiglia abita qui da parecchio tempo ormai"
"E i libri? E il tè alla menta?"
"Senti. Ti dico che qui non vive nessuno altro all'infuori della mia famiglia. Vai a giocare da un'altra parte" e mi sbatté l'uscio sul muso.
Restai interdetta a fissare la porta chiusa, poi controllai il piano con una vaga speranza nel cuore.
Era il quarto piano.
Impotente, tornai a casa.
Le vacanze scolastiche volgevano ormai al termine. Tutto mi appariva banale e poco interessante.
A casa tuttavia il clima migliorò: cercai con tutte le mie forze di evitare discorsi "eruditi" che avrebbero irritato i miei genitori e i miei fratelli.
La mia malinconia non sfuggiva però all'occhio attento di mio fratello maggiore, che un giorno si decise a parlarmi.
Ormai la scuola era ricominciata. L'autunno aveva, come sempre, ceduto il passo all'inverno.
Papà aveva cercato di sostituire la vecchia stufa a gas con una più sicura, ma non era riuscito a trovarne "a un buon prezzo". Così il pomeriggio, i miei fratelli ed io eravamo costretti a starcene al freddo. L'utilizzo della stufetta era vietato in assenza di mamma o papà. Credevano che fosse meglio tornare dal lavoro e trovare i figli congelati piuttosto che "gassati"...
Vestiti di due o tre maglioni di lana ruvida, stavamo tutti e tre sotto le coperte del divano letto. Io tentavo inutilmente di leggere un capitolo di storia mentre mio fratello maggiore tentava di inculcare nella zucca di mio fratello minore il famoso teorema di Pitagora.
"Ma che cosa pensava poi 'sto qui per tirar fuori 'sta roba incomprensibile ?!" si lamentò il più piccolo dei miei fratelli.
Senza nemmeno rendermene conto, sussurrai:
"Pitagora fu un grandissimo filosofo greco. Viaggiò moltissimo e vide luoghi magici come l'Egitto e Babilonia. Credeva che la scienza portasse alla purificazione... In teoria, se Pitagora fosse qui oggi suddividerebbe noi discepoli in acusmatici, cioè in ascoltatori, e mathematici, che invece potevano anche porre domande, sollevare questioni. Il mio amico diceva sempre che Pitagora mi avrebbe inserita tra i mathematici..."
Non alzai nemmeno gli occhi dal libro di Storia mentre pronunciai mesta queste parole.
Come ovattata, udii la voce di mio fratello maggiore dire al minore:
"Fai bollire un po' di acqua che ci beviamo qualcosa di caldo..." e poi rivolto a me:
"Parla con me, sorellina. Raccontami che cosa ti è successo. Chi è l'amico a cui hai accennato?"
Non potei più trattenermi e riversai su mio fratello un fiume di lacrime e di parole, gli raccontai tutto: dei libri, delle rughe, del tè alla menta, della porta sempre socchiusa e poi improvvisamente chiusa...
Dalla cucina emerse incuriosito il viso di mio fratello minore, che si affrettò a preparare una camomilla a sedette con noi ad ascoltare, la tazza fumante tra le mani pallide.
"Ma erano tutte bugie! Lui non era nessuno e se non ricordassi così bene tutto ciò che ho letto e che lui mi ha raccontato, crederei di avere sognato..."
"Così era da lui che sparivi durante le vacanze?"
"Già"
"Ascolta... Io credo che tu abbia mal interpretato il suo insegnamento" fu il maggiore dei miei fratelli a pronunciare le illuminanti parole.
"In che senso?" chiesi un po' offesa.
"Dico, forse il suo compito mica era quello di condurti per mano tutta la vita... Penso che lui ti abbia aperto la strada...al resto dovrai pensare tu, no?!"
"Ma dov'è ora? Perché se ne è andato? E come diavolo si chiama?" Strillai isterica.
"È importante?" fu la laconica risposta di mio fratello maggiore.
Fissai stupita il suo volto e dopo alcuni istanti risposi:
"No, non lo è"
Riflettei a lungo sulle parole di mio fratello, colpita dalla sua saggezza, a me fino a quel momento sconosciuta.
In fondo sapevo che il mio amico era reale, sentivo ancora il profumo di tè alla menta e di carta ingiallita chiaro nel mio cuore.
Sfogarmi con i miei fratelli mi fece bene e, ormai consapevole della loro comprensione, affrontai l'inesorabile alternarsi delle stagioni con nuovo spirito.
Un giorno mio fratello minore entrò in casa con un piccolo pacchetto chiuso con lo spago e una busta; me li porse dicendo:
"Credo che siano indirizzati a te..."
Afferrai il pacchetto e con mani tremanti aprii la busta ingiallita:
 
"All'amica del sesto piano,
che ha visto laddove non v'era nulla da vedere,
che ha udito laddove v'era solo silenzio"
 
Nel pacchetto un bicchierino marocchino dal vetro ormai opaco dall'uso.

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