Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Raffaele Paudice
Con questo racconto ha vinto il quinto premio nella settima edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2003
Ancora un errore
 
Lorenzo è il mio maestro e non è che un ragazzino. Mi diverte tantissimo l'idea di imparare cosa da un ragazzino. Ancora di più, mi diverte il modo in cui si arrabbia di fronte ai miei errori. La sua rabbia è eccessiva, e quanto più aumenta tanto più cresce il mio divertimento. Cerco di trattenere le risate, le infilo in un sorriso appena accennato, spero che i baffi nascondano abbastanza la mia bocca.
Le nostre lezioni sono cominciate circa un anno fa, ma non siamo andati oltre l'apertura. Non ho fatto che commettere errori, ogni volta diversi.
Lorenzo non riesce a capire il motivo di questo fallimento e allora insiste, perché deve essersi convinto che il problema sia in lui.
Se gli dicessi che a casa non mi esercito neanche un po' il gioco finirebbe e si arrabbierebbe sul serio.
Io ho più di trent'anni e degli scacchi non me ne frega nulla.
Da bambino pensavo che fosse il gioco più affascinante del mondo e, reputandomi tutti una specie di genio, credevano che sarei stato uno di quei talenti da film.
Eravamo una famiglia povera e ci prendevamo pochi lussi. Ma mia madre un mattino di settembre seppe che un mio cugino più grande mi aveva insegnato a giocare a scacchi durante le vacanze. Così mi accompagnò in un negozio di giocattoli e me ne comprò una confezione. Ero contentissimo: camminavo fiero, stringendo tra le mani quella scatola marrone. Dentro c'era la scacchiera di cartone colorato e i pezzi di plastica che tintinnavano. Mi ripetevo: <Questa è la prima cosa mia>.
Continuo a sbagliare, e la cosa incredibile è che non lo faccio apposta. Stavolta ho sbagliato alle terza mossa. Lorenzo neanche parla. Credo stia cercando le parole per spingermi a capire. È bello pagare qualcuno per arrabbiarsi con te.
<Forse...>, riesce appena a dire e poi tace.
Sorrido, mi nascondo sotto i baffi.
<Forse non me ne frega nulla>, sto per dirgli, ma mi spiace essere così maleducato con lui. Allora lo assecondo, nascondo la mia ilarità dietro la maschera dell'imbarazzo: <No, stavolta è solo un errore di distrazione, credimi. Riproviamo e vedrai che non lo faccio più>.
Distende il volto e sorride paziente, perché sa di non avere colpe della mia distrazione. <Va bene, allora ricominciamo>.
Mi dirà mai che si è stancato? Si accorgerà mai che mi diverto solo a vederlo disperato? A volte credo che lo sappia benissimo, ma il bisogno di denaro e la devozione a questo gioco lo costringono a subirmi. Questo pensiero mi diverte ancora di più.
Vengo al circolo tre volte la settimana, la sera, dopo aver finito di lavorare. Oggi è venerdì, l'ultimo giorno della settimana, e questo m'intristisce perché fino al prossimo lunedì non avrò altro modo di distrarmi. Non frequento altre persone al di fuori del lavoro, non vedo mai nessuno. Venir qui mi rilassa.
Lorenzo si è offerto tante volte di venire a farmi lezione a casa, ma ho sempre preferito raggiungere il circolo. Amo profondamente la lunga passeggiata che devo fare per arrivare fin qui.
Faccio sempre la strada più lunga. La prima volta la feci per caso: era l'unica che conoscessi. Poi facendo quella più breve ho scoperto quanto fosse più bello fare l'altro percorso.
Arrivo nella grande piazza del Duomo, percorro la piazzetta retrostante tutta ornata di mattoncini rossi e getto uno sguardo al salone dell'Auditorium. È un teatro dallo stile avveniristico, costruito sotto il livello della piazza con il tetto che coincide con la strada. Quando ci sono dei concerti alcuni uomini hanno il compito di evitare che la gente cammini sul cupolotto della sala. Questi signori, dipendenti stessi del teatro, hanno la faccia dura e nervosa, costretti come sono a passare rigide sere di freddo, fermi nello stesso posto a richiamare i passanti distratti. Certe volte cammino radente solo per farmi richiamare: <Prego signore, di qua, c'è un concerto in corso>. Chissà se mi riconoscono e se pensano che sia un idiota a far sempre lo stesso errore. <Oh, certo. Non sapevo>, rispondo ipocrita. Loro, con espressione seccata, tornano al proprio posto.
Oltrepasso la piazzetta e arrivo al grande Ponte degli Imperatori. La visione larga del fiume mi apre il cuore. Vederlo al crepuscolo mi emoziona, e vorrei qualcuno al mio fianco per dirgli che i fiumi non sono tutti uguali.
Questo è straordinario: dolce, come ammaestrato da tutte le chiatte che lo solcano, denso di odori, di legna bruciata, di sabbia umida e di un qualcos'altro che non voglio neanche capire cosa sia. Quel "qualcos'altro" forse è solo il suo odore e basta. Il suo color grigio e verde è l'immagine stessa del suo silenzio.
Mi perdo in tutte le sue sfumature quando attraverso il ponte ed è ancor più bello tremare quando il treno mi passa di lato o quando qualcuno correndo ne fa vibrare la superficie di asfalto.
Arrivo alle soglie del parco e lo percorro tutto per gustare il più a lungo possibile il fiume. Tutte le sere incontro un signore con il suo cane: è un uomo anziano e indossa sempre una tuta e delle scarpe da ginnastica, il suo cane gioca come un bambino nel fiume. Non conosco il loro nome ma li saluto entrambi. L'uomo ricambia il saluto con simpatia, il cane drizza appena le orecchie.
A volte il tragitto mi stanca e mi pento di non aver fatto l'altro percorso, soprattutto quando costeggio il grande centro congressi della città, a quell'ora vuoto. È un palazzone di pietre rosse circondato da un parcheggio: la sua visione di sera mi intristisce sempre un po'. Passo sotto al ponticello della metropolitana e arrivo nella piazzetta della stazione, a quell'ora piena di studenti. Lì finisce l'incanto e mi avvio ad un'altra serata di errori. Quando entro nel circolo sono già pago della lunga passeggiata serale e se non ci fosse Lorenzo che si arrabbia tornerei presto a casa, il tempo di bere un tè. Ma poi mi dico, a casa non c'è nessuno. Non c'è niente. Rimango lì.
<Mi raccomando però, cerca di stare concentrato!> mi dice Lorenzo con espressione paterna, mentre riordina con cura i pezzi sulla scacchiera.
Stavolta voglio sorprenderlo e allora tento veramente di far bene. Riprendo con la solita apertura di Re.
Lorenzo si fa serio come se dovesse sfidarmi: <Osserva bene lo schema della difesa Siciliana>.
Annuisco ben intenzionato, ma quando dice Siciliana, non riesco in alcun modo a pensare a qualcosa di tattico: la mia mente mi tradisce ancora e fugge al ricordo della pasta alla siciliana che mia madre cucinava nei giorni di festa. Così mi confondo di nuovo, riuscendo a ricordare appena che devo muovere il cavallo, ma non so che altro fare. La mia apertura si arena per l'ennesima volta alla seconda mossa.
Lorenzo fa la solita smorfia, ma non dice nulla. Temo si sia un po' stancato della mia incapacità. <Non ci siamo proprio> mi fa sorridendo.
Non mi piace che non si arrabbi, mi lascia spiazzato.
<Riproviamo ancora una volta, starò più attento>, insisto ingenuo.
Mi guarda, ma poi il suo sguardo va oltre e lo vedo sorridere. Mi volto e vedo la sua ragazza. È davvero brutta, ha un volto che vive unicamente in funzione del suo orribile naso. E poi per me è ancora più brutta perché so che quando arriva lei, Lorenzo deve andare via e che la nostra lezione è finita. Lui mi sorride un po' impacciato. Deve dirmi qualcosa. <Non va proprio e credo che dovresti lasciar stare>, dice veloce, per non darmi il tempo di interrompere. <Ci sono sicuramente cose che puoi far meglio>, ora il ragazzino mi sento io. <Comunque mi fa piacere averti conosciuto. Scusami se sono brusco ma ora devo proprio andare>.
Mi offre la mano per salutarmi da uomo, da avversario leale.
Vorrei sbattere i piedi come un bambino e dirgli che finché pago deve continuare, ma quella sua mano tesa mi costringe ad arrendermi.
Credo che abbia ragione: dovrò rassegnarmi a fare qualcos'altro. Questo gioco è finito.

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Premio Il Club dei Poeti 2003
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Ins. 13-05-2003