Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Pier Giuseppe Cavalli

Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Città di Melegnano 1998 sezione narrativa

 
 
La peste di Londra
 
Una sera la peste entrò a Londra.
Non si sa come, ci sono molte versioni. Ci è piaciuta questa perché lascia capire che il morbo si fece strada in modo che potremmo definire ciclico. E siccome pensiamo che questo mondo sia retto da leggi geometriche (che danno come risultato il caos), ecco la nostra verità.
Dicevamo che una sera la peste entrò a Londra. Da tempo era giunta notizia che il morbo era scoppiato in Olanda, scoppiato proprio come un grosso uovo schifoso covato dal Diavolo in persona, che il suo tornaconto lo avrà avuto. Questo dicevano i più semplici, segnandosi la fronte. Ma siccome non basta segnarsi la fronte, chi ci governa pensò di troncare ogni rapporto con la terraferma: noi inglesi saremmo bastati a noi stessi.
Ma è possibile sorvegliare tutte le porte, tappare ogni buco, presidiare anche l'ultimo passaggio? E i commerci? E il vento con le nuvole, si può fermare anche quello? Dunque, il massimo che si poté fare fu istituire una sorveglianza strettissima, assoldando cittadini volenterosi perché proteggessero il loro bel regno. In breve furono mobilitati centinaia di uomini, armati e a cavallo, che resero ogni confine di città, paese e addirittura casa una dogana. Gli animali venivano frugati, le pulzelle palpate, nuvole e carogne galleggianti osservate scrupolosamente. Fino a quando non passò Leblanc.
Leblanc era la peste. E non in senso figurato, la malattia l'aveva sul serio, presa su nell'ultimo viaggio in cerca di spezie. Arrivato a Bristol proseguì senza intoppi, si svaporò nella nebbia ed entrò a Londra passando dalla strada maestra. Fu la rovina. Ma noi vediamo le cose da storici, conosciamo il seguito, eppure in quel momento il povero Leblanc era un semplice commerciante che veniva da un viaggio massacrante, senza cavallo, in cerca di una locanda, forse un po' inebetito dalla febbre, e con la gola secca; e le sentinelle che imprecavano contro la nebbia e l'umidità, che non si accorsero dell'abisso che si faceva strada alle loro spalle, non erano che dei poveracci, degli avventurieri, dei tagliagole offertisi per guadagnare qualche soldo facile.
In ogni caso Leblanc rimase poco allo scoperto, ad un certo punto vide una locanda e ci si infilò dentro.
C'erano pochi avventori, e probabilmente neanche s'accorsero del nuovo arrivato. Leblanc, tiratosi su il bavero della giacca e posata la borsa, disse all'oste: «Sono di passaggio, vorrei una camera».
Il viaggiatore tremava, ma l'oste, un ometto segaligno, affumicato dalle stufe, gli badò solo quel che bastava per consegnargli una chiave e fargli cenno di andar sopra. Leblanc prese la chiave e salì. In quel momento ci fu un'altra visita, più rumorosa questa volta. Entrò un uomo, seguito da il suo manipolo personale di soldati.
«Salve oste, - disse, - versaci da bere qualcosa che ci scaldi, la nebbia è maledettamente fredda questa sera» e si portò al banco mostrando una gran confidenza. «Sapete, - continuò in modo spavaldo, posando schiena e gomiti al bancone, - vi dicevo di quella scommessa, la sera scorsa mi pare, sì, di quella scommessa con mio cugino - lo odio quel bastardo - che sarei bastato io coi miei uomini a presidiare questa parte del fiume. Insomma siamo andati da un nostro amico, un amico che conosce, sì, ecco, cha ha fatto certi favori al Lord Mayor, e il Lord Mayor ci ha fatti ufficiali, Ispettori. Proprio Ispettori! Dobbiamo andare a caccia di appestati, lui a Clerkenvwell, io qui. Ma che sia dannato se ne ho visto uno, di appestato intendo...». In quel momento Leblanc, che aveva appena finito la rampa di scale, tossì in modo convulso.
Wilcox - era il nome dello spaccone - dapprima non sentì, troppo preso ad ascoltarsi, poi, visto che la tosse continuava, si interruppe e guardò verso il francese. Questi continuò a tossire, fino a quando non si ritirò nella propria stanza.
«Come dicevo, - continuò Wilcox alzando il secondo bicchiere, - per me è un'invenzione degli olandesi. Gente furba quella, degli imbroglioni! io non me ne intendo di commercio, questo è vero, oste, ma prendiamo quelli che stanno là fuori, li vedi? - disse Wilcox avvicinandosi all'oste e indicando la finestra. - Quelli venderebbero anche te, se potessero. Per ora si limitano a croci, amuleti, candele, essenze che a sentire loro dovrebbero preservarci dalla peste. La peste, puah! Non mi sorprenderebbe che fossero stati loro a mettere in giro questa frottola» sbottò Wilcox sputando per terra.
«A me interessa solo levare la pelle al caro cugino. La scommessa non porterà a niente, tutta questa ronda non serve. Volesse il demonio che s'infermasse davvero quel bastardo, lo brucerei vivo con queste mani» sibilò Wilcox afferrando l'oste, ma questi non fece una piega, aspettando che l'altro sbollisse.
«Lo sai? Sono il re delle scommesse io. Se ti raccontassi di quella volta coi pirati...» e continuò borbottando per conto suo, mentre andava a sedersi coi suoi uomini, i quali già da un pezzo si erano sistemati e bevevano.
Passando a fianco delle scale Wilcox gettò un'occhiata furtiva verso l'alto.
Venne la notte. Ci fu qualche ricambio tra gli avventori, soprattutto marinai che aspettavano un imbarco. La nebbia diventava via via più fitta, al pari del sonno ormai profondo, tanto che a quell'ora molti avevano toccato il fondo di quell'abisso in cui ogni notte ci adagiamo.
Gli studiosi del sonno dicono che in questi momenti una distanza enorme ci separa dalla realtà, e che solo dopo un certo periodo - diverso per tutti - cominciamo lentamente a riemergere, come dalle profondità marine. Ma se è così Wilcox non doveva essere di quelli che si depositano tanto in fondo, nel sonno, poiché gli bastarono delle voci appena bisbigliate per svegliarlo.
Si trattava dell'oste che, uscito dal bancone, parlava con un ragazzetto. Dapprima Wilcox vide solo una scena sfocata, due ombre, una più grande dell'altra, davanti a una fiamma; poi individuò chi fossero e vide che il ragazzo aveva un'aria spaventatissima, mentre l'oste faticava a calmarlo. Wilcox, come Ispettore, capì di dover intervenire. Si alzò e andò verso i due. Vide bene che l'oste, accortosi che arrivava, aveva afferrato il ragazzo per un braccio tentando di zittirlo.
«Cosa succede qui?» disse l'ufficiale, guardando solo il ragazzo e con occhi indagatori.
«Niente, - rispose l'oste. - Non è niente».
«Taci tu, non m'interessa la tua risposta» disse Wilcox, sempre fissando il ragazzo, in modo tale che alla violenza delle parole si sommasse a quella dello sguardo.
Questi allora cominciò a tremare. Wilcox sopra di lui era come una zampata di tigre contro un topolino. Alla fine il ragazzo scoppiò in lacrime, dicendo: «Il signor Leblanc, il signor Leblanc ha la peste!».
«Taci, idiota!» fece l'oste minaccioso, ma era troppo tardi. Alla parola peste l'espressione di Wilcox si era completamente trasformata: lo sguardo accigliato si era allargato in due pozzi scuri e acquosi, la bocca si era aperta, o meglio la mascella non aveva più tenuto la presa, e le gambe sembrarono non riuscire più a reggerlo.
«La peste...» disse soprappensiero, ma subito dopo ebbe una reazione violenta, colpì con uno schiaffo il ragazzo e gridò: «Cosa può saperne uno come te della peste? Come fai a dirlo?» finendo col piantarsi sopra di lui come un avvoltoio.
«L'ho visto, ha la febbre, non sa quello che dice, e... ha delle macchie nere!» gridò il ragazzo terrorizzato.
Alle parole macchie nere Wilcox gridò tirandosi via, come se si fosse scottato. Poi guardò uno dei suoi uomini, che gli fece cenno di lasciar stare il ragazzo. L'interpellato era un cerusico, veniva dal Sussex e aveva fatto esperienza di ogni sorta di malattie al tempo del suo imbarco verso le Indie. Avvicinandosi a Wilcox gli sussurrò che sarebbe stato meglio controllare.
Salirono le scale. L'oste aveva tentato di dire qualcosa al loro passaggio, ma l'ispettore lo aveva spinto da parte. Dietro a loro si formò subito un codazzo, da cui mancavano solo l'oste stesso - che aveva preso per le orecchie il ragazzo - e gli ubriachi, i quali probabilmente nemmeno si erano accorti di quanto succedeva.
Vedendo il corteo lungo le scale, sembrava che gli avventori volessero rimanere uniti, e che avessero una tale paura di restare giù, da soli, che paradossalmente preferivano il pericolo più immediato.
Quando però giunsero nei pressi della porta, quella della camera di Leblanc, si fermarono atterriti. Uno s'inginocchiò per terra, altri presero a mormorare «La peste, la peste, la peste» assiepandosi lontano dalla porta come un accampamento di barbari.
Wilcox, che ancora non aveva riordinato le idee, fece per aprire senza precauzioni, ma il cerusico lo fermò.
«Aspettate, - disse, - non è prudente entrare così» e mentre parlava tirò fuori qualcosa dalla borsa, qualcosa che si legò dietro la nuca come una maschera.
Sembrava un naso posticcio, o meglio, un becco adunco che lo rendeva simile a un grosso uccello.
«Contiene delle essenze, - disse, - nessuno sa di preciso come si trasmetta la peste, ma sono convinto che non sia bene respirare quell'aria, - e puntò l'indice verso la stanza, - senza protezione».
Detto ciò fornì a Wilcox un becco identico al suo. Questi borbottò che sicuramente era roba olandese, ma se lo mise.
Nell'ombra del corridoio, e poi dentro la stanza, parevano due creature dei boschi, due fauni entrati nel covo di un drago per rubarne il tesoro. Ma Leblanc era un ben misero drago, stava disteso tutto coperto e non sentì che i due erano entrati. In quanto al tesoro il cerusico, che stava davanti, fece luce con la lampada, alzando lentamente la coperta. Capì subito che si trattava di un contagio: Leblanc aveva gli occhi sbarrati, la bava alla bocca. Ma non guardava nessuno di loro, le pupille erano in direzione del tessuto, ed egli sembrava vedere un altro mondo: forse era affacciato dentro il suo stesso corpo e lo vedeva marcire.
Wilcox disse qualcosa, ma il cerusico lo zittì: «Silenzio, - disse, - mi sembra che parli».
In effetti il poveretto, artigliando il lembo della coperta, biascicava qualcosa.
«Aaah... con il diavolo sono venuto... presto verrà a riprendermi, dopo... dopo che avrò seminato... - poi i due dovettero avvicinare ancora di più i becchi per sentirlo, - ...un uovo, un uovo mi ha dato perché lo covassi, come... un serpente, giallo, fradicio, che è subito marcito... era pieno di ver...mi, un putridume, Dio! Lo schifo! Un uovo... un uovo!».
Allora il moribondo si mise a urlare, e il cerusico fece una scoperta tremenda, vide, con la pupilla vicinissima al corpo dell'appestato, una macchia nerastra, e sopra di essa un verme che strisciava. Allora, tremando e atterrito dalle parole che il francese continuava a proferire, lo prese per una spalla e lo rovesciò su un lato, poi alzò subito l'ascella, puntò l'indice e disse: «Guardate!».
Wilcox guardò: era un bubbone enorme, nero sulla pelle biancastra, e pulsava covando i suoi orrori.
Immediatamente, come mossi dal medesimo meccanismo, i due si ritirarono, e nella foga Wilcox perse il naso. Uscirono dalla stanza e chiusero a chiave. Gli avventori appena li videro si dispersero per le scale come topi: avevano capito. L'Ispettore e il cerusico rimasero qualche istante fermi, attoniti, guardandosi le mani e poi negli occhi.
Giù, l'oste domandò con prudenza di cosa si trattasse. «È peste» disse severo il cerusico.
Vedendo che Wilcox parlava con gli altri suoi uomini, l'oste gli corse vicino.
«Aspettate, cosa avete intenzione di fare?» disse.
«È peste» fece Wilcox, ma non come una risposta.
«Non potete farmi chiudere, non potete!» scongiurò l'ometto. ma uno dei guardiani era già uscito a segnare l'ingresso con una croce, e l'altro - rapidissimi tutti e due - avevano preso a tappare porte e finestre.
«Vi prego, - supplicò l'oste, - posso risolvere tutto io, posso prendere quel maledetto e buttarlo giù dalla finestra, ci penseranno i cani. Anzi lo seppelliremo, e sarà come se non avesse mai messo piede qui a Londra!».
E così dicendo si avvinghiò a Wilcox come un ragno. Ma l'ufficiale non faceva che ripetere la parola peste, peste, peste, con tono assente.
«Vuoi rovinarmi!» gli gridò l'oste, e gli sputò in faccia.
Per Wilcox fu il risveglio.
«Tu! È colpa tua» disse, e lo trapassò con la spada.
Poi girò sui se stesso più volte, in guardia, come se dovesse affrontare una banda di predoni. Ma c'erano solo relitti, ubriaconi spauriti con in bocca una sola parola: peste!
«Sì, peste, e anche voi siete sospettati! verrò premiato per essere stato il primo in Inghilterra a scoprire il focolaio!».
Un urlo agghiacciante lo interruppe: Leblanc che si era destato.
Wilcox si portò le mani alle orecchie, andò verso i presenti e disse con tono supplichevole: «Sembra un maiale sgozzato!».
Ma cambiò subito tono, con gli occhi che brillavano chiamò a sé il cerusico.
«Ci vuole il fuoco, vero? Il fuoco!».
Il cerusico lo guardò senza rispondere. Wilcox non aveva bisogno del suo benestare, «Avanti, avanti! - gridò ai suoi - Diamo fuoco a questo nido di serpi! All'inferno, all'inferno tutti!».
Gli ordini ancora una volta vennero eseguiti fulmineamente. I due guardiani salirono e ridiscesero le scale che avevano già le fiamme dietro di loro. Wilcox ricacciò gli avventori nei loro buchi e diede fuoco al bancone, sotto il quale c'era una gran quantità d'alcool. Poi i quattro uscirono di corsa. Inchiodarono la porta mentre i muri erano già roventi. Dentro bruciarono vivi.
«Forse oggi abbiamo salvato l'Inghilterra» disse Wilcox in un impeto di retorica, e con un senso di grandezza che si tramutò subito in tremito.
Si sincerarono che non uscisse nessuno, e infine, con la locanda ridotta in cenere, se ne andarono.
Proseguirono per parecchie ore. A mezzogiorno giunsero a una locanda. Erano sfiniti. Wilcox entrò seguito dai due guardiani. Nel locale c'era poca gente, gli avventori nemmeno si accorsero di loro.
«Guardami bene, oste - disse Wilcox tirandosi su il bavero della giacca, - sono stanco, sapessi da dove veniamo... Dacci da dormire!».
L'oste, senza tralasciare le sue faccende, gli diede una chiave, facendogli segno di salire le scale. Così fecero. Wilcox si sentiva debolissimo, aveva la vista così annebbiata che gli pareva che le scale si moltiplicassero sopra di lui. Entrò in camera e si coricò vestito. Prese subito sonno, e sognò.
Era in un posto buio, qualcuno urlava, sopra passavano nuvole e carogne. Lui era coricato come quando si era addormentato, ma non era solo. In lontananza due uomini, uno alzando la lanterna l'altro con la spada in mano, lo osservavano. Avevano due nasi adunchi e tremendamente familiari, la loro vista fece sobbalzare Wilcox, sveglio e lucidissimo. Non era solo nella stanza, vicino alla porta c'era il cerusico e accanto l'odiato cugino. Wilcox istintivamente si portò al mano in faccia, «Ho perso il naso!» gridò.
Il cerusico assentì gravemente, alzò la mano e una fiamma enorme si levò fino in cielo.

 

Classifica Concorso Città di Melegnano 1998 sezione narrativa
 
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inserito il 24novembre 1998