Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Piergiorgio Manavella
Con questo racconto ha vinto il quinto ex aequo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2005, sezione narrativa

«La mia ultima spedizione»


Sono ansioso. Non riesco a dormire. Aspetto con ansia che sorga il sole. Non ho preso il sonnifero che i medici mi hanno consigliato. Stare nel letto è ormai per me solo una specie d'agonia. Mi alzo, esco dalla camera tre metri per due con i mobili in formica e vado nella cucina tre metri per quattro con i mobili ugualmente in formica. Metto a scaldare dell'acqua per fare una tisana e mi siedo ad aspettare. Sento il russare leggero e quieto del mio vicino d'appartamento, queste case popolari hanno le pareti così sottili che sembra di vivere con loro. Si sente tutto e io ormai da parecchi anni ho tempo da vendere per ascoltare e quasi vivere le storie, le liti, le malattie, i loro momenti intimi. Spesso mi sembra di non possedere più una vita mia. Per molti anni la televisione è stata compagna delle mie notti, ma i programmi di prima serata sono in genere banali o stupidi e i film scontati, il teatrino della politica poi mi ha veramente stufato, sono troppi anni che sento gli stessi discorsi, del resto sono parecchi decenni che non vado a votare. D'altronde i programmi d'informazione e d'approfondimento trasmessi in tarda serata, con le continue denunce d'ingiustizie e povertà in varie parti del mondo, mi lasciano un senso di frustrazione che si trasforma in un malessere fisico quasi tangibile e raramente ormai riesco a trovare dei film d'essai che mi comunichino qualcosa di nuovo o positivo. Anche i libri, miei compagni inseparabili per tanti anni, non riescono più a stimolare modi di vedere o iniziative nuove, solamente evocano ricordi ormai lontani.
Il mio sguardo, vagando per la stanza, si ferma su una vecchia foto di una cima senza nome dell'estremo oriente meta della mia prima spedizione. Ero giovane allora, ricordo che la notte prima di partire era stata una notte come questa: non riuscivo a dormire, prendevo sonno poi mi svegliavo poco dopo di soprassalto con il terrore che fosse già tardi, che la sveglia non avesse suonato o io non l'avessi sentita. Mi tornava sempre in mente la stessa domanda: mi chiedevo se fosse giusto intraprendere questa spedizione, era piuttosto dispendiosa per le mie possibilità economiche di giovane professionista, inoltre lasciare l'ufficio chiuso per alcuni mesi certo non giovava alla mia carriera e alla crescita della mia clientela. Avevo come un senso di colpa pronto ad esplodere, alimentato anche da molte persone che negli ultimi tempi mi avevano sconsigliato quest'impresa adducendo inoltre rischi per la mia salute. Tutto questo mi frullava per la testa, mille dubbi, mille aspettative si confondevano e rendevano inquieti anche il mio stomaco e la mia pancia, tanto che mi sembrava di avere un attacco di diarrea del viaggiatore prima ancora di partire. Adesso i miei malesseri fisici sono quasi gli stessi, ma la mia forza è diversa, la capacità, la volontà, l'energia per fingere che tutto vada bene non ci sono più.
Ricordo il momento in cui ci ritrovammo al solito bar, il primo che apriva tutte le mattine, il posto dove c'incontravamo quando partivamo per le nostre gite fuori porta.
Eravamo un piccolo manipolo d'amici, questa volta però al ritrovo c'erano anche parenti più o meno stretti e altri amici che ci avrebbero accompagnati all'aeroporto come una piccola delegazione d'onore. Raggiungemmo l'aeroporto con largo anticipo, qualcuno di noi addirittura tremava per l'emozione e la tensione del viaggio, per l'ansia della scoperta. L'unico di noi che era già stato in un aeroporto non per volare, ma perché aveva accompagnato un parente, si dava arie da sapientone e, in effetti, ci diede anche qualche buon consiglio. Ridevamo, scherzavamo tra noi per esorcizzare l'incognito. Quando l'aereo decollò finalmente il sonno arrivò a quietare il turbinio dei pensieri delle ultime ore.
Il fischio del vapore che esce dalla valvola del bollitore mi riporta nel mio alloggio di casa popolare, mi alzo a fatica dalla sedia inciampando con tutti i miei ammennicoli regalo di chirurghi molto solleciti nel sostituire parti del corpo con sacchetti e tubi di plastica, purtroppo molto meno attenti alle conseguenze pratiche e psicologiche sulla persona che li porta.
Metto la mia solita bustina d'erbe calmanti nella mia solita tazza e ci verso l'acqua sopra poi, sempre a fatica, prendo la scatola di latta dove tengo le foto e cerco quelle della spedizione.
Era la fine degli anni sessanta, non c'erano ancora le scalate e i trekkings guidati come adesso, tutto era terreno d'avventura, le notizie erano poche e ci voleva un buono spirito da pionieri per intraprendere una spedizione extraeuropea, specialmente per noi che eravamo dei modesti alpinisti di periferia. Avevamo anche noi all'attivo delle salite di tutto rispetto: prime realizzate, prime ripetizioni, avevamo tutti un buon curriculum alpinistico, però restavamo alpinisti di periferia senza quel blasone dato dall'appartenenza a quei prestigiosi club di città, o quella conoscenza e capacità innata e comunque riconosciuta a priori degli alpinisti originari della montagna.
Io che ero considerato l'intellettuale del gruppo mi ero occupato di recuperare il maggior numero di cartine, relazioni, articoli sulla zona, così stabilimmo una meta, un percorso da seguire, scoprimmo dove avremmo trovato gli ultimi rifornimenti di viveri e i portatori.
Ho in mano la foto dell'aeroporto d'arrivo, avevamo facce stralunate, sconvolte con i nostri mostruosi sacchi da spedizione.
Le nostre millantate certezze erano sparite in un attimo appena toccato il suolo dell'oriente. Dall'androne, superata la dogana, si vedeva un marasma di gente, si sentivano lingue assolutamente sconosciute, ero l'unico del gruppo a conoscere qualche parola d'inglese, ma non riuscivo a tirarla fuori e anche le mie orecchie si rifiutavano di capire cosa volessero da noi queste persone che ci tiravano, ci spingevano, ci offrivano delle cose, c'invitavano usando parole inglesi ma con un tale accento che proprio non riuscivo a capire.
Tolgo la bustina dalla tazza, sorseggio la mia tisana calda al punto giusto. Ormai non ho più bisogno di guardare l'orologio per capire qual è il momento giusto per bere la tisana.
Riprendo a rovistare nella scatola delle foto: il mercato della città vecchia. Il primo giorno in oriente doveva servire per i preparativi, per trovare i mezzi che ci avrebbero portati verso la montagna. I miei amici lo passarono dormendo in albergo distrutti dal viaggio, dalla tensione e dal fuso orario, io invece lo passai vagando come un automa in mezzo al mercato della città vecchia e per i suoi vicoli, non riuscivo a credere ai miei occhi: un uomo seminudo trainava un carro con grandi ruote di legno piene, altri vestiti con tuniche di tela grezza nudi dal ginocchio in giù trainavano e spingevano un grande carro stracarico di sacchi di qualche cereale, probabilmente riso, ad un lato della piazza da un tempietto partiva il suono di una campanella che i fedeli suonavano dopo aver cosparso sulla statua del Dio e sulla propria testa una polvere rossa e dei petali di fiori, nelle bettole mangiavano tutti con le mani da grandi piatti d'alluminio lo stesso cibo composto da riso bianco e una spessa brodaglia verdastra o marrone. Nei vicoli allegre dentiere facevano bella mostra di se dalle vetrine dei dentisti, poi gli odori pungenti, intensi e persistenti di spezie e di cose a me sconosciute che quasi m'infastidivano.
Tornando verso la città nuova, uomini e donne lerci e deformi, forse a causa della lebbra, sostavano e dormivano sotto a palazzi moderni di grandi catene alberghiere e banche internazionali tranquillamente ignorati dai passanti chiaramente vestiti in modo più ricco. Non riuscivo a credere di essere proprio lì: mi ero informato, avevo letto degli articoli, avevo visto delle foto, ma non ero pronto a vivere questa sensazione, mi sembrava di essere capitato nel mezzo di un set cinematografico, uno di quei film sulle civiltà post guerra nucleare o di Indiana Jones, ero assalito da un misto di stupore, gioia, curiosità e voglia di fuggire e tornare a qualcosa di conosciuto e sicuro. Sono ormai le quattro di mattina, l'ora in cui di solito mi alzavo per andare in montagna. Mi preparo la colazione come facevo di solito e decido di bermi un bel caffellatte con il pane e i grissini come ai bei tempi, un lusso che non mi permettevo più da molti anni.
Prendo la giacca, metto le scarpe. Guardo il mio appartamento per l'ultima volta, ricordo che anche quando partii per la spedizione guardai la mia casa come ci fossero buone probabilità di non rivederla mai più, ma era un'incertezza carica di attese, stavolta invece è una certezza.
Comincio la discesa delle scale, nelle mie condizioni anche questa è un'impresa. Arrivo alla macchina, mi siedo al volante. Sono parecchi mesi ormai da quando sono stato operato che non guido, quando devo andare da qualche parte, di solito qualche visita di controllo, mi faccio portare da un amico. Non mi sento sicuro, non sono certo di poter muovere le gambe e agire sui pedali abbastanza rapidamente in caso di bisogno, poi muovere i piedi in quel modo mi dà dei dolori al basso ventre, inoltre non voglio correre il rischio che succeda qualcosa ai miei sacchetti: non sopporto neanche l'idea di sentire su di me certi odori, trovo già abbastanza umiliante dovermene andare in giro conciato in quel modo.
Metto in moto la vecchia utilitaria color grigio topo sbiadito e punto verso le montagne vicine.
Mi viene in mente la foto che ci ritraeva al cosiddetto "bus station": un'enorme piazza piena di autobus vecchissimi che facevano un rumore infernale, l'aria della città già calda e pesante di per sé era irrespirabile per la gran quantità di gas tossici emessi da quei giganteschi tubi di scappamento. I cartelli con le varie destinazioni dei bus erano rigorosamente scritti in sanscrito.
Vagammo a lungo da una persona all'altra cercando di ottenere qualche informazione affidabile: scoprire dove si compravano i biglietti, quali erano gli orari, ma tutto era inutile, non riuscimmo neanche a scoprire chi si occupava di quella stazione, c'erano una quantità di persone che parevano indaffarate vicino ai mezzi, ma non riuscivamo a capire se fossero solo passeggeri che caricavano i propri bagagli o addetti ai lavori. Alla fine trovammo un autobus in procinto di partire che andava nella nostra direzione, la destinazione finale era un'altra, ma che importava avremmo poi cambiato in seguito. Salimmo e finalmente con grandi accelerate, fumate e strombazzate di clacson uscimmo dalla stazione e dalla città alla volta delle montagne.
E intanto furiosi colpi di clacson li sento anche adesso, accompagnati da gestacci, sto viaggiando a velocità bassissima e gli altri automobilisti manifestano così il loro fastidio, ma a questo sono abituato, viaggio sempre lentamente e guardo le cose che ho intorno, mentre pare che ormai nessuno alzi più il piede dall'acceleratore e gli occhi dall'asfalto per guardare la sagoma di una torre sulla collina che si staglia di fianco al Monviso contro il cielo rosso fuoco di un crepuscolo autunnale.
Ricordo l'ultimo paesino della valle dove finiva la strada, un torrente impetuoso lo attraversava, il suo grande letto con le pietre levigate era testimone di periodi di notevoli piene. Attraversammo con i nostri bagagli l'unico ponte che univa la fermata del bus fatta di pochi baracchini di legno al paesino vero e proprio, un odore misto di fumo che usciva dai tetti senza comignoli, di cibo semplice avanzato, di cose e pentole sempre riutilizzate, di animali domestici, di erbe selvatiche, di rocce e pini, mi ricordavano certe zone di montagna di casa nostra, certe malghe abitate dai pastori solo nei periodi estivi.
Dopo aver dormito con i nostri sacchi a pelo sopra a degli assi in legno dentro una specie di fienile vuoto, prendemmo contatto con la gente locale per organizzare la carovana di portatori e ci scontrammo con la calma asiatica, tutto richiedeva tempi lunghissimi e per noi occidentali frenetici l'attesa in certi momenti si faceva insostenibile. Passato il primo momento però imparammo a prendere le cose per il verso giusto e ci rendemmo conto che dovevamo accettare i ritmi delle popolazioni locali e anzi imparammo a godere di questa tranquillità ritrovata.
Adesso però tutto è diverso. Qui, in questo nostro mondo, tutto è troppo veloce per me, sembra che ogni giorno qualcosa mi sia tolto, che un vecchio come me non abbia più nulla da dire d'interessante per gli altri, nulla per cui valga la pena di fermarsi un momento ad ascoltare.
Poi c'è l'ansia per gli esami che devono stabilire di che natura sia il mio male, dopo alcune diagnosi incerte o approssimative. Non riesco più a sopportare l'attesa, avrei dovuto ritirare gli esami domani, ma ormai ho deciso. Intanto supero un tornante e arrivo all'imbocco dell'alta valle dove il terreno diventa pianeggiante e il panorama si allarga, al fondo si vedono le montagne più alte ancora coperte di neve.
Come quell'altopiano a 4800 m. d'altitudine, un pianoro che a noi abituati alle Alpi pareva infinito, l'avevamo raggiunto dopo alcuni giorni di marcia, avevamo superato una parte molto stretta e ripida della valle dove il sentiero in alcuni punti era crollato e si poteva passare solo con grande attenzione per evitare di scivolare nel fiume centinaia di metri più in basso, era una zona frequentata dai pellegrini, perciò non avevamo dovuto utilizzare le nostre tende, ma c'eravamo appoggiati agli ospizi religiosi presenti sul percorso, luoghi dove ci ospitavano in cambio di un'offerta libera, il menù era sempre il solito: un piatto di riso bollito con una brodaglia verde o marrone, ma lì in quota, forse per la fame, sembrava notevolmente più buono che in valle, alla fine del pasto poi ognuno si lavava il piatto. In particolare mi ricordo di uno di questi ospizi ricavato sotto una grande caverna, avevano solamente costruito il muro di riparo davanti, ci eravamo rintanati lì dentro appena calato il sole, quando la temperatura era bruscamente scesa da quasi venti gradi a sotto lo zero. Nella caverna si stava bene, passammo una piacevole serata a fare progetti per la salita e a comunicare in modo difficoltoso ma piacevole con gli altri ospiti.
Il giorno dopo raggiungemmo il luogo dove il fiume sacro usciva già impetuoso e spumeggiante dal ghiacciaio, i pellegrini che a prezzo di grandi fatiche erano arrivati fin lì prendevano delle ampolle d'acqua ancora più sacra perché pura, appena nata e facevano anche il bagno in quelle gelide acque.
Nei pressi numerose piccole caverne ospitavano sadhu, asceti indù, seminudi o coperti solamente di cenere, sembravano incuranti delle temperature polari di quelle altitudini, la maggior parte di loro c'ignorava, ma qualcuno c'invitava a fermarci offrendoci del the. Nessuno ci chiedeva niente, al massimo qualche medicina per una piaga che non voleva guarire.
Superammo anche la morena e i fianchi tormentati del ghiacciaio e raggiungemmo l'altipiano sommitale quello che ci avrebbe portati al campo base, la visione era splendida: imponenti pareti e spigoli di granito chiaro inframmezzati da ghiacciai pensili si innalzavano per migliaia di metri sopra di noi con forme che sembravano sculture. Ero estasiato e gli occhi mi si inumidirono di fronte ad uno spettacolo di tale bellezza, tutto mi appariva gigantesco, in quel momento riuscii a capire perché per le popolazioni locali queste montagne fossero considerate la residenza degli Dei.
Mi fermo con l'automobile nei pressi di un ponticello, dove il pianoro sommitale si incontra con la parte più bassa e scoscesa della valle. Mi ero fermato qui molte altre volte, era il punto da cui partivo per le escursioni quando l'alta valle era ancora troppo ingombra di neve. Non avevo mai considerato queste escursioni di bassa quota un semplice allenamento neanche quando ero un buon alpinista, per me ogni escursione ha una sua dignità e vale la pena di farla con rispetto, non ho mai amato la competizione, per me è importante vivere la salita e vedere luoghi nuovi piuttosto che raggiungere ad ogni costo la meta.
Mi allontano rapidamente, per quanto mi è possibile, dalla strada. È tarda primavera e il torrente è gonfio d'acqua e spumeggiante per lo scioglimento delle nevi. Non è una bella giornata, è piuttosto grigia e nebbiosa come succede spesso qui in primavera. Raggiungo il punto dove le acque precipitano per una decina di metri con notevole fragore, gli spruzzi vaporizzati mi raggiungono e mi rinfrescano. Sono sudato per la fatica e il dolore di queste ultime ore. Mi siedo al riparo di una roccia e faccio per accendermi una sigaretta, ma esito, mi vengono in mente tutte le campagne antifumo e anche se il fumo non ha nulla a che fare con la mia malattia mi sento in colpa. Sono un fastidio per i conoscenti e un costo per la società, passo il mio tempo pensando e interrogandomi sul senso dell'esistenza, non faccio niente di produttivo. Poi mi torna in mente la spedizione, gli enormi cylum fumati dai sadhu in quel remoto paese e quasi sorrido tra me e me e mi accendo la sigaretta. È così assurdo questo senso di colpa in questo momento. I sadhu, meditando per ore nella posizione del loto sulle piattaforme di roccia vicino alle cascate del paese della fermata del bus, cercano l'unione tra corpo e mente, così, forse, qualcuno di loro riesce nella sua esistenza a trovare il senso della vita, di tutte le nostre vite. In quel punto l'acqua delle cascate aveva scolpito le rocce in modo che parevano un sipario, al tramonto il loro colore chiaro si caricava di un caldo riflesso giallo con screziature arancione e l'acqua che cadeva creava l'impressione che anche le rocce fossero in movimento. Erano le cascate del fiume sacro, più in basso nella valle sulle sue rive si consumavano le pire mortuarie, la gente pregava, si lavava, lavava i vestiti, faceva bagnare i bufali, pescava in un ciclo continuo di vita e di morte. Finisco la sigaretta, mi alzo e mi avvicino ulteriormente alla cascata.
Non riuscimmo a raggiungere il nostro obiettivo quella volta, le difficoltà della parete, della quota furono molto maggiori del previsto e parecchi piccoli incidenti c'impedirono di raggiungere la vetta. Da alcuni la mia prima spedizione fu considerata un fallimento, ma per me era già stata un successo nel momento stesso in cui riuscì a partire.
Ho passato i settanta da un pezzo e fino a poco tempo fa ho avuto una buona vecchiaia, ma ormai la mia mente è stanca, il mio corpo un limite. Ho paura che il tempo possa maltrattarmi ulteriormente.
Non è un irreparabile impeto di rabbia disperata e frustrazione giovanile a spingermi, frutto di situazioni che non si accettano e di cui non si vede la via d'uscita, ma la stanchezza di lottare, l'ansia per questi nuovi giorni vuoti e il non sapere come riempirli.
Faccio un lungo sospiro, mi afferro a tutto il mio coraggio e mi lascio cadere in un fragoroso turbinio di bollicine d'aria intrappolate in mezzo all'acqua.

Piergiorgio Manavella


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