Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Paolo Durando
 
Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Città di Melegnano 2000, sezione nerrativa
La metèca
 
Una soluzione di continuità.
Nella mia memoria ne resta traccia, ne sono certa, ma sta sbiadendo pian piano. Essenza ed apparenza, sensatezza e follia.
Da quando sono qui nella nave mi sostiene un conforto di sarcasmo, il generoso barbaglio della cattiveria autoimposta. Ma ho paura, anche.
E adesso che sono affacciata qui, con alle mie spalle quello che chiamano il ponte Gondwana e quel pittore che stanotte ha dipinto tutto di nero, ecco, forse mi sento arrivata da qualche parte, in quel luogo sospeso che ero andata cercando per tanto tempo. Mi rivedo allora tra stanze in penombra dall'impiantito opaco, le pareti umide, il tavolo di legno appiccicoso di cibo e di anni. So bene com'erano le persiane quel giorno, perché in effetti mi basta un particolare, una minima sfumatura, per avere l'appiglio di un dileggio raccolto, fugaci sorrisi sulle mie labbra. Le persiane erano quasi accostate, il pulviscolo mulinava verso l'ombra, mentre mia madre era seduta al tavolo, le braccia arrossate sotto la testa, i capelli stopposi. Dormiva e russava. Aveva di nuovo bevuto. Ubriaca fradicia si perdeva in alcuni meandri del suo ardire passato, quando si era protesa, sbigottita e sana, sul parapetto della vita. Mia madre aveva vissuto qualcosa di simile ad un amore, che subito si era illanguidito in una serie inutile di incontri, abbelliti a forza da una falsa poesia. Poi tutto era imputridito tra le esternazioni dell'abitudine.
Me ne sto andando, amici di un tempo, nemici di sempre, la nave partirà fra poche ore ed io potrò finalmente ricominciare.
Del resto avevo già trasportato tutti i miei bagagli. La nave era arrivata il giorno prima ed io mi ero soffermata a lungo al porto, a rimirarla come un'apparizione irripetibile. Per la prima volta, si può credere, avevo visto una nave. Intendo dire che l'avevo percepita veramente. Non era stata una cosa idilliaca. Era troppo grande la nave, troppo alta, troppo grigia. Potevo immaginare oscuri intrecci di tubature, successioni di stanze e di piani e avevo provato un improvviso desiderio di lasciar perdere. E se infine avessi deciso di restare nella città dove allora vivevo? Come quando, da bambina, mi appressavo alle ringhiere dei balconi e subito me ne ritraevo, spaventata dal precipizio.
Me ne sto andando, amati e amanti, non vedete com'è leggero il mio passo?
Ora ricordo con chiarezza, affacciata verso la spuma, largamente cosciente del vento salato che mi soffia sul viso, ora che il pittore indugia di nuovo sul ponte Gondwana, e - vorrei gridare - non voglio. Non voglio che mi veda. La madre di mia madre si era avvicinata titubante, appoggiandosi alle spalliere delle seggiole, bruciandomi con lo sguardo. Non voleva che partissi un'altra volta. Aveva duramente lavorato ed era nata lontano, mettendo radici dove gli eventi la portavano. Dalla camera da letto arrivava il respiro pesante della madre della madre di mia madre. Non le mancava molto da vivere. Ho stentato poi ad imboccare le scale, perché in fondo avevo paura che la loro perplessità mi seguisse, avevo paura di doverle portare con me, non fosse che nel pensiero e non potermi liberare di loro, mai. Le mie madri. Avrebbe potuto esserci qualcosa di simile ad una risoluzione finale di quel groviglio? Non avevo visto forse, quatto quatto, appressarsi il mio fantasma d'angoscia, ancora e sempre, invincibile?
Perciò me ne stavo andando, soprattutto per quella persecuzione. Tutto il resto, tutto ciò che circondava la loro assolutezza, le zie, le merciaie, le faccendiere, quelle sarebbero sparite senz'altro subito. Avevano abitato ben poco dentro di me. Naturalmente mi ero premurata di cambiare aspetto. Avevo perso molti chili nei mesi precedenti. Volevo andarmene diversa, comoda e dunque mi ero infagottata bene. Mi aggiravo protetta da pantaloni sformati, scarpe imbottite e con i capelli tagliati cortissimi, tinti di grigio- argento. Chi avrebbe potuto prendermi per una vera donna? Ero pronta a dimenticare ogni cosa, la luce malata oltre le persiane e il puzzo del vino, ed anche il mio sesso per potere ora trovarmi qui esposta verso il mare che fugge, l'orizzonte, la schiuma solenne che ribolle raccontando storie. Non so se continuerò a sapere e a ricordare, ma sono stata salvata da un rapido movimento di pensiero, tra volontà e azione.
Perché sono sulla nave.
 
 
Pare che la terra non esista, diceva quel vecchio. Io mi sono guardata le mani e ho percorso l'orlo selvaggio del tempo. Mi tenevo in equilibrio tremebonda e consapevole, con un senso quasi piacevole di vertigine. Mi trovavo presso la curva nera di un tubo e una corda arrotolata, stavo rannicchiata, avvolta nella mia felpa pesante. Mi sono guardata le mani e pensavo che la terra esiste eccome, ma probabilmente si può fare come se non esistesse. Se io non ho avuto voce in capitolo nel finire a guardarmi queste mani che invecchiano posso comunque cedere al compromesso dell'illusione. La terra non esiste perché non voglio che esista e potevo dirglielo a quel vecchio che mi tendeva un cerino masticato, con la subdola incertezza di un rabdomante. E quelle forme, quelle città che si ravvisano ogni mese circa, che altro sono se non le incisioni di un dio drogato, su uno schermo di frodo? Ma poi ho pensato che potevo non dire nulla, chè tanto la nebbia stava calando sulla sua mente, la nebbia malevola del vino e del mare. In fondo per questo accettavo la sua presenza, non mi ribellavo alla sua ansimante gonfiezza. Era sin troppo facile pensare a mia madre. Potevo riconoscere la vicenda delle tentazioni, delle lusinghe cannibali, e le vendette postume di un attimo di onnipotenza.
Allora mi sono guardata le mani e ho avvertito la mia solitaria virtù di specie, la bolla di sapone sformata della mia coscienza desta. Le dita doloranti ne sono la prova. Dita di mani che invecchiano come invecchiavano quelle di coloro che circondarono il mio muto ordito infantile, che ravviavano i capelli dalle fronti corrucciate. Queste mani che non porgerò più a nessuno. Della mia giovinezza mi ero accorta tardi. Cedendo agli appigli della vanità, avevo poi combattuto come potevo contro l'opera del tempo, alternando creme e trucchi al calvario edificante di un sentiero nemico, le rinunce a denti stretti. E su quest'ultimo fronte, avevo persino animato di curiosità amorosa la soglia del mistero, entrando qualche volta nelle Chiese. Tutto vano, ma che non mi si venga a dire che la strada maestra è quella che quel vecchio delineava con la putrefazione delle sue parole stentate. Impossibile tornare al passato, rincorrere la mia vita di prima accanto ad un corpo sofferente tanto quanto il mio è anestetizzato e protetto. Quando mi alzo la mattina e mi guardo allo specchio la testa d'argento e sorrido, ecco che inarco le sopracciglia e improvvisamente mi accorgo di considerarmi al di sopra di tutti. Li promuovo dall'alto come si mira il volgo, perché mi sono innalzata oltre i borborigmi che li riguardano. Li disprezzo e mi nutro - beata me - di questo disprezzo. Sono lasciva e mi intingo - oh sì - del sapore acro e vincente dell'odio. Ma non negherei, in verità, un aiuto. A lui invece, lo so fin troppo bene, l'ho negato. Con lui ho cominciato a sottrarmi definitivamente, a trattenermi sul bordo del mio crogiolo. Poi ho saputo che è morto. Morto all'improvviso. A quel punto le mie vene potevano inturgidirsi del sangue avvelenato della mia colpa. Ma non è avvenuto nulla ed ho persino sorriso, avvolgendomi più strettamente nel mio rancore di felpa. Ed ancora sono qui, rannicchiata presso una corda, amica immobile di questo vento. Qui per sempre.
 
 
E se mai si potesse cogliere quel fulcro di rivelazione, la marea montante della verità, allora non sarebbe così umiliante, talvolta, la dispersione solitaria delle forze. Credevo che bastasse calare il sipario sulle vaste regioni delle complicità. Ma, come dire, non era così facile. Me ne dovetti accorgere sin dalle prime notti nel buio della cabina, quando compresi infine la mia, seppur volontaria, prigionia. Mi sono imboscata in un ambiguo carcere di riposo, ma non era forse l'unica libertà che mi fosse ancora consentita? Persino una baronessina alla vaniglia può auscultare le storie del vento, in questa nave che solca l'oceano. E che lambisce territori di pia illusione, paradisi di fiori di loto. L'altro giorno mi sono messa a disegnare un fiore malizioso. Ho fatto prevalere il turchese, perché più prossimo all'essenza dei luoghi che intravedo dal Ponte Gondwana, spesso nascosti da nebbie dorate. Pennellavo piano piano, con una lentezza troppo affamata di creazione per essere l'alveo di un afflato di salute. In effetti presentivo qualcosa. Che bella idea, mi ripetevo seduta in un cantuccio, quello valutato più caldo sul volgere della prora. L'avevo accarezzata, l'idea degli acquerelli, tra le confuse nobiltà del pensiero più libero. Dopo ho dovuto convenire che ero soddisfatta, anche stavolta. Contenta di me stessa, pareva. C'era forse qualche dubbio in merito? Che carini ad avanzare altre balorde, rassicuranti ipotesi ma quanto fuori strada. Trionfante, sono tornata alla mia cabina, ho preso le forbici ed ho ritagliato il fiore tutto intorno, meticolosamente. Nello sforzo la fronte mi si corrugava, la lingua premeva sul palato. Con altra carta ho saputo modellare un peduncolo frastagliato, sulla cui cima ho incollato il rigoglio dei petali. Finita la mia opera potei abbozzare un passo di danza, tendendo in avanti il laborioso costrutto. E ancora pensavo: il fiore di loto, promessa di paradisi a venire. Come se per un attimo avessi ceduto alla voluttà scottante, la torbida certezza di ricevere pronta risposta ad ogni eco del capriccio. Ho fatto un saltello e mi sono sentita quasi aggraziata. Ho riconosciuto allo specchio dell'armadio la mia figura annegata in calde pieghe scure, i pantaloni larghi, le ultime scarpacce di tela e mi è sfuggito un sorrisino contenuto, lo stesso che ogni mattina mi costringe ad ammettere la mia superiorità. Bene, bene, convenivo, niente di meglio per una signora. E poi, improvvisamente, mi sono ricordata. Non l'avevo accolto in nessuno dei miei, per quanto illuminanti, ritorni di fiamma. Mi sono ricordata di tanto tempo fa, di un'acqua trasparente, che si allargava in anelli concentrici in una luce d'estate. E di un sassolino gettato nel lago, un giorno nuovo di zecca nel tripudio delle mie forze, anelli concentrici che abbagliavano di sole e di gratitudine la mia magnanimità, mentre me ne stavo pigramente abbandonata tra braccia d'accatto. Oh, è meglio che mi fermi a quelle braccia svampite, prima di dover essere sopraffatta dalla vertigine. C'è stato perciò un tempo in cui i miei tesori si schiudevano in un parossismo d'amore? Un tempo in cui, nutrita e leggiadra, mi adagiavo su un tappeto di rose? La ventata di passione dal dolce fragore antico mi ha stordito e mi ha obbligata a sedermi sul bordo del letto. Il mio fiore turchese non era che lo spettro di quanto accennava. L'ho accartocciato rabbiosamente tra le mani, ne ho fatto una pallottola. Mi ero ridestata all'esistenza di profluvi di respiro facile, di franca estensione delle prospettive del desiderio. Cosa ci facevo lì, ignara, sul bordo del letto angusto, a farmi avvolgere da un torpore micidiale? Non avevo capito, quel giorno lontano, di aver raggiunto la sommità di quanto si può voler conseguire sul ciglio del vuoto? Ignara, ignara… come una dea bendata ero, che non si accorgeva delle rose… Perché forse, allora, non potevo indovinare nulla del mio-nostro concerto misterioso di neuroni, in piste e gorghi d'efficienza guasta. Credevo di poter scegliere e decidere. So che sbagliavo. E adesso cosa mi serviva, quel fiore mentitore? Potevo magari iniziare a cantare e, attraverso l'armonia, cercare di recuperare le piste generose di assentimento rilucente. Lo sapevo, invece, di non poter che restare prudentemente al di sotto del livello di soglia. Cercando la mia segreta superbia seduta sul bordo del letto, tra macerie di fiori e di vita.
 
 
 
Pensavano che non ci sarei andata alla festa. Pensavano di non vedermi affatto nei paraggi di quel mattatoio di perdenti smemorati, sfigurati dall'impresa di vivere. Si erano sbagliati, seppur di poco. Quante volte costoro hanno preso l'abbaglio degli illusi, sedotti senza scampo dai paraventi dei loro dèi. Privilegio loro concesso dal perpetuo decoro, consolazioni imposte da un clemente destino. Ma quella festa non si è potuta sottrarre al corpo contundente del mio sguardo. Mi sono fermata poco distante dalle porta-finestre, stringendomi addosso la felpa nel freddo stillante della notte. Mi sono avvicinata, perdio, ed oltre le vetrate sfavillavano i cristalli dell'assunzione, le losche scintille dell'egoismo mondano. Come dire, tanto va la gatta al lardo…però non sono io quella, non mi avvicino tanto da lasciarci lo zampino. Potrei davvero rinunciare alle incommensurabili capienze della mia solitudine? Cosa credevano, che al cospetto del loro oro vivisezionato in fulgide composizioni in codice io mi smidollassi, mi sbracassi come la servetta del verziere? Grama illusione, la loro... la stessa che mi spinse al porto per sfuggire alle mie molte vite sapendo, in fondo, che non si può venir meno all'ineludibile. La nave ha viaggiato senza tregua, continua a viaggiare, dunque sono ormai lontana, ma dentro di me tutto è rimasto intatto, presente e vivo come una ferita. Non avranno la mia venerazione e neppure il mio rassicurante ludibrio. Non mi passa neppure per un attimo l'idea che io abbia a che spartire con la loro incoscienza, che le pellicine delle loro dita inanellate siano polvere d'oro per la mia genuflessione.
Li ho visti, sì, li ho visti meravigliosamente abbigliati, le belle donne, i loro cicisbei, li ho visti ballare, approssimarsi a vortici brilli, a conati di gioia possente, sì. Ho visto i levigati piedi barcollare su scarpe adorne di gioie. Erano proprio lì, sul limitare di un saturo abisso, una grandezza del vivere che nessuno di loro conosce, e neppure io del resto, più che mai in quel momento nascosta nel buio, nell'ingannevole tepore di una felpa madre. Non ho la pretesa di trarre in inganno me stessa, di scambiare il vortice della mia miseria per un trionfo tra le luci del mondo. Non sarebbe stato un piede della baronessina, che vedevo ridere con gli occhi umidi, o uno degli innumerevoli ritratti che quella femmina ha voluto di sé, a farmi intravedere l'alcova sacra, il riposo dei giusti, in una blanda e beata protezione. Purtroppo. Perché anch'io, come loro, avrei voluto credere che bastasse poco per amare le proprie pellicine. Sono nata potendo contare sul conforto del sole di luglio e della frescura di ottobre nei pressi dei parchi. E c'erano anche i fiori nel davanzale, le amiche scaltre dei carrugi, le fonti di sapienza raccolta e sorridente, le mie maestre, le mie dispensatrici - in libri - di vita.
E poi c'era la poesia. E' stato inutile, vicino alle loro danze, discernendo le loro risate spontanee o forzate, è stato inutile cercare di richiamare alla memoria i versi secolari, tesori ormai spenti di un mio tempo perduto, quando le parole erano ciottoli luminescenti che si stagliavano in un generoso nulla. Tempo in cui potevo nascondermi tra pieghe di stoffe dai colori infantilmente raggianti, e intanto accogliere versi nel cavo del pensiero.
Ma non potevo recuperare quella forza a due passi dallo spreco di esseri ridotti a vesciche purulente, pronte a scoppiare in marcescenti vanità, offuscate dagli splendori della festa. E della nave.
In definitiva avevano visto giusto, non sono andata alla loro ascensione. Finchè sono stata a due passi poteva ancora accadere che decidessi di entrare, di chiedere accoglienza tenendo le palpebre abbassate per sublime orgoglio. Ma sono rimasta a lungo a guardare e poi sono andata verso il mare, mi sono messa a fissare, trasognata, la scia di schiuma bianca che mi avvisava del costante moto. E non sono del tutto certa, sia ammesso una volta per tutte, che non rimpiangessi l'ingenuità di colei che forse sono stata solo in sogno, dolce, spensierata, amica, nella beata fragranza del parlare e del bere, nell'aspettativa di baci nella notte.
Nella pia intimità del desiderio.
 
 
 
L'hai fatto.
Hai voluto conoscere i paesaggi del mio pensiero, le pareti scoscese delle mie valli.
Sei stato con me.
Ed ora sto stringendo sabbia tra le dita, che si sparge al vento senza forse mai raggiungere le acque di questo mare.
E' successo. Malgrado me, sei letteralmente piovuto sulla mia terra, fecondandola per poco.
Posso ricostruire ogni singolo momento, a partire da quando ti sei avvicinato con passi ampi, e la titubanza dei tuoi gesti era pari alla forza della tua determinazione. Dapprima è stata un'intesa intuitiva, impellente, immediata. Colpo di fulmine lo chiamavano, nel mondo di prima. Poi c'è stato quel cercarsi, quel brancolare. Erano le mani, le braccia che tentavano la loro sicurezza, abbozzavano un tracciato a cui abbandonarsi con fiducia, senza più dover scegliere. Le dita si sono sfiorate. Se avessi le parole potrei indugiare molto su quello che ho provato. Ho sentito un brivido interno, a partire dal calore del ventre. E' stato un attimo in cui mi sono ricordata un'altra volta di tutto, di me, della nave, del nostro viaggio. E allora ho detto no, mi sono fermata, rimettendomi in dimestichezza con l'intimità della mia solitudine. Ti ho guardato col disprezzo dovuto a chi fa vacillare una magia, a chi spegne una fiamma. Per appiccare un incendio. Dopo le nostre mani si sono unite, si sono intrecciate decise. Era inevitabile.
Di lì a poco non so bene, mi sono ritrovata tra il cordame, nuda sopra i miei scialli, un telo grezzo attutiva gli urti sulle scapole. Tu sei sceso su di me come una promessa perentoria, dono di consapevolezza, con la verità dei tuoi occhi, sostanza d'amore. I tuoi capelli quasi bianchi sottolineavano la disperazione della tua urgenza. Io lo ero stata molto tempo fa, una donna.
Sei sceso su di me come un'ebbrezza ed un'invasione. Ho sbattuto le ginocchia, convulsamente, senza sapere più nulla del tuo corpo, se c'era o non c'era. Sprofondavo, mollavo tutto, colta da una stanchezza estrema e appagante. Le tue dita si sono fatte strada, plasmando la mia vertigine. Ero nuda, forse bella, di sicuro bella per te. E tu eri un intero universo, con costellazioni e frammenti di vita sparpagliata, perduta. Le tue labbra erano cibo sostanzioso per le arterie percorse da linfa nuova. Spremevo il succo del tuo essere e c'erano spigoli e morbidezze, calore e mistero incombente.
Non ridevo, no, come tu avresti voluto, invitandomi alla leggerezza della vita. A quel punto il tuo sguardo si era fatto ironico, restando clemente, ma io non potevo ridere rimpicciolita nel mio corpo, con tutt'altri impedimenti che i tuoi, con crediti ovunque nel passato e nel presente. Cosa ne sai tu, di una donna? Tu che hai potuto contare sull'indiscussa esistenza dei tuoi pensieri e volontà, veri per gli altri e a maggior ragione, dunque, per te stesso? Cosa nei sai tu dei miei crediti? Ed ecco che avrei voluto nuovamente scacciarti, allontanarti da quella pretesa che tu avanzavi, di essere complice mio, di spartire con me la vita. Una richiesta tutta maschile e assurda. Volevi darmi una certezza fulminea, totale. Continuavi ad essere grande, a tuo modo. Ma mi sono tesa, piegata, rappresa. Ho lottato con te. Siamo stati due nemici, forse per un minuto intero. Poi hai vinto tu. E' stato come se un terrapieno crollasse ed io finalmente potessi correre sull'acqua senza annegare. Prigioniera della libertà. E c'è stata quella carezza sul seno, quella presa sicura che mi ha fatto urlare di assenso.
Infine ti ho avuto dentro. Ho potuto sentirti sempre di più, sempre più vivo e non sapevo, non credevo nulla. Non ero io. Pregavo. Tutto si assommava.
Infine sono esplosi tutti quei frammenti di me, che non potevo più raccattare e non potevo neppure più fare sforzi in quella direzione. Ho preso a scuotermi, a urlare parole che dimenticavo appena pronunciate.
Ho conosciuto appieno la pretesa di vedere nella vita nient'altro che un'offerta. Di me ad ogni cosa e di ogni cosa a me. Tutto si è concentrato in un punto. Tutto si era chiuso intorno a me ed io dovevo solo vivere dentro quel tutto chiuso, attingere senza sapere, sconfitta, vittoriosa solo per un attimo.
Mentre il viaggio continuava. Silenzio sopra la voce del mare.
 
 
 
Mi proiettavo nella sostanza vergine,
incisa in beati bagliori di conoscenza.
Silenziose avvisaglie di mondi,
di città del mare celate vissute.
Non c'era ostacolo di tremori
nel vuoto privo di presentimenti a venire.
E come avrei potuto io
restare quella di una volta,
se simili spiragli
accecavano la consuetudine?
Edotta ero, ma non felice,
sull'orlo della vita vera.
Era stata una ninfa dal nome fasullo,
bugiardo sogno di notti adolescenti,
a promettermi una forza rara.
Ma io sono quella che ha camminato,
varcando risoluta l'altrove di zinco,
per guardare fili di lune argentate
e stelle affacciate su altri universi.
Io sono quella che ha corso
per le praterie spente,
svelando i nascondigli delle primavere,
con un sorriso e la mano che cercava
una definitiva assoluzione.
Io sono comunque la viaggiatrice
e inesausta conservo i trascorsi del bene.
Vedo coste diafane lambite da gocce,
nettari verdi e bianchi
che colano odorosi lungo tendaggi d'aria fine.
Vedo albori di assenzio
sulle pareti brillanti di rugiada celeste,
le forme che si allungano e si sfanno,
balenìo di sorrisi di bimbe malate.
Percorro il parco incorruttibile
delle muse di un tempo,
nel coro sospeso di gioie primordiali.
E mi riconosco immutata
dalle fatiche temperate dalla sete,
pronta ad inoltrarmi in contrade di nebbia,
a viaggiare ancora ancora metèca.
Metèca sempre.
 
 
 
 
Ora ricordo tutto e non ricordo nulla. Sono figlia ma anche madre, essendo amata amo, amando. Sono giovane e tanto vecchia, sana e malata. Ho i capelli grigi, le mani rugose eppure ho la pelle di una giovane gravida. Non ho più intralci. Me ne sono andata ed ho capito dove tendevo, quali erano i miei veri scopi. Era così che mi stavo preparando all'accesso, era quella l'impronta del vecchio mio essere, tutto quel forzarmi a credere senza costruire, mai. Piccola cosa.
Non c'era modo di comprendere davvero, non mentre si costeggiavano i boschi trasparenti, i monti dai foschi altopiani. Non c'era modo di inoltrarsi in una dirittura d'arrivo, sgravati dal corale compianto, per quanto menzognero. E che dire del limite, del disertare del pensiero, oppresso dal pattume delle regole? Non sia mai detto che la conoscenza arrivi prevedibile, piana, consapevole. Ci vuole tempo, ci vuole tempo.
 
 
Credo che sul mio viso fosse evidente una certa inquietudine, ma non era paura o diffidenza. Era semplicemente l'appassionato, apprensivo ricongiungimento con qualcosa di molto familiare.
Sono scesi dalla nave uno per volta, tranquillamente, come se fosse scontato. Li ho rivisti tutti, il pittore, la baronessina, i cavalier serventi. Ognuno di loro portava nei gesti la sicurezza pacata di essere arrivato dove doveva arrivare. Non c'era sorpresa, non c'era smania di possesso, ma un'accettazione solerte e muta.
Anch'io sono scesa senza parlare, badando persino di non fare rumore calcando il legno della passerella, stringendomi in uno scialle logoro. Sono stata tra gli ultimi ad abbandonare la nave.
Ci siamo quindi sparpagliati sulla riva deserta. Eravamo immersi in una nebbia perlacea con promesse non del tutto mantenute di sfumature di verde, le più svariate. In quel vapore ciascuno finì con lo scomparire alla vista degli altri.
Mi sono ritrovata sola. Come di consueto, del resto. I miei passi risuonavano in un silenzio assoluto.
Sono qui, ora.
Mi sono avventurata in quella costa tiepida, vedevo la nebbia diradarsi oltre le mie lacrime di gioia e la luce rimaneva impigliata in filamenti sottili, che si assottigliavano sempre più.
Potevo avvertire la lontananza tremenda che la traversata aveva consumato, qualcosa laggiù in basso, oltre l'oceano, un agitarsi greve, in un miscuglio di colori sporchi. Sentivo anche che le mie madri mi avrebbero accolto da qualche parte con sorrisi di nuovo intatti, in istanti perfetti. Si trattava solo di attendere.
Ho camminato molto. La nebbia infine è scomparsa ed ho potuto guardare le nubi spostarsi in un cielo follemente azzurro, ma per nulla stucchevole. Mi sono avvicinata a quello che vedevo. In effetti l'avevo desiderato e proprio quello mi era apparso.
Un vasto fiume tranquillo.
Lungo le rive si susseguivano alberi intrecciati e c'erano canne al vento, mosse senza tregua, in un dialogo vorticoso con i misteriosi messaggeri dell'aria. Il mare attendeva e pareva già lontano. Nutriente, il vento ha sciolto le mie ultime resistenze. Lì appresso ho scorto una minuscola baia, con una nicchia d'erba delicata al cospetto dell'acqua.
Mi sono seduta su quel tappeto soffice, con alle spalle le canne, di fronte il fiume ed all'orizzonte la calma definitiva delle montagne.
E sono stata pronta a creare.

 
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Agg. 10-08-2004