Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Paolo Di Biagio
Con questo racconto si è classificato secondo al concorso Marguerite Yourcenar 1999
 
Energia
 
 
«Mi spiace, ma non si può entrare, è proprietà privata».
Il cane si era avvicinato alla macchina dei due sconosciuti con la testa che radeva il suolo e con il posteriore freneticamente agitato da uno scodinzolare iperbolico; aveva annusato timidamente, a distanza, la presenza inconsueta che aveva di fronte, ed era tornato verso di te, sempre con il muso rivolto alla terra, la coda: una frusta e gli occhi pieni d'ingenuo timore: un vero cane da guardia! non che ne avesse la colpa! Forse era che non gli avevi mai dato un nome. Del resto, doveva fare la guardia ad un posto, che solo qualche curioso, passando, prendeva in considerazione, e che nessuno fino allora, dopo tutti quegli anni, aveva più minacciato e quindi, a che cosa doveva fare la guardia?
Qualche volta una coppietta si presentava, un uomo e una donna, un ragazzo e una ragazza, chiedendo di entrare, la domenica o il sabato, quando non c'erano gli operai in giro, forse per farlo immersi in uno scenario diverso. Alla tua negazione avevano sempre reagito come quella che avevi appena mandato via, cioè sorridendo, ringraziando, girando la macchina con disinvoltura, salutando dal finestrino con simpatia il cane più che te.
Il tuo ruolo, del resto, non era diverso da quello del tuo cane: fare il guardiano ad un posto che non interessava a nessuno, che molti consideravano spoglio e lugubre. Se l'animale aveva il fiuto, tu avevi i monitor: ce n'erano nove nella tua cabina, raggruppati su una consolle, che riportavano le immagini delle rispettive telecamere a circuito chiuso disposte in vari punti della grande struttura: sei intorno al recinto, tre dentro, nei punti più delicati.
Erano undici anni che lavoravi in quella struttura, e mai niente di insolito era apparso sul video di quegli schermi incolore.
Durante la settimana le immagini che li animavano erano sempre pedissequamente le stesse: gli operai arrivavano sempre alla stessa ora, poi arrivavano gli ingegneri, gli amministrativi, ognuno attraversava il suo corridoio, ognuno leggeva il suo giornale, ognuno prendeva il suo posto nella sua postazione.
Non ti stancava tanto dover alzare la sbarra per le macchine dei dipendenti, quanto il dover timbrare ogni volta il cartellino: un peso immane, un vero castigo divino, subìto il quale tutto poteva andare avanti nel modo consueto, e bene o male, le cose si facevano, si salutavano le persone che ti salutavano, si premeva il bottone del cancello, si riceveva una telefonata, fino al momento di dover tornare un'altra volta alla macchina del timbro, questa volta con meno peso nello stomaco. Il problema era che le immagini in bianco e nero dei monitor continuavano a passarti davanti agli occhi, anche quando eri andato lontano, a casa, lontano. C'erano ore in cui non cessavano di animare il tuo orizzonte mentale ed era una vera tortura... già, era peggio della timbratura d'entrata!
Con i colleghi che ti sostituivano non avevi mai parlato molto. Di Antonio sapevi che era più anziano di te, lo avevi sempre saputo perché si vedeva dai capelli bianchi e dalle rughe sul volto. Avevi saputo che era sposato perché avevi visto la fede sull'anulare sinistro. Sapevi che aveva due figli maschi perché te ne parlava sempre, quando vi davate il cambio, raccontandoti di come crescevano, di quante ne facevano, di sua moglie che era sempre stanca di star loro dietro. Tifavate per la stessa squadra di calcio, e ciò costituiva un notevole elemento di complicità e sintonia, soprattutto il lunedì. Il problema era più con Walter: troppo sbruffone, sempre con il sesso nella testa, sempre pronto a tenere la pistola in evidenza... Ma per il cambio non ci voleva che pochi minuti.
Con i turni non avevi mai avuto problemi: una settimana il giorno, un'altra la sera e la terza di notte, a rotazione.
Ed era appunto la notte che meno ti pesava stare in quella cabina, di fronte a quei monitor. Dover guardare quei video disanimati, quando tutto intorno era buio, era meno pesante. La notte era meno inquietante ricordare continuamente tutta la vita che ti aveva portato fin lì, ed eri ben giovane! In un posto che non ti apparteneva, perché eri nato in un luogo di tutt'altra natura, fra gente di tutt'altra sembianza, che ti guardava e che guardavi in modo completamente diverso. Eri arrivato a Vercelli a vent'anni, e non ti eri più mosso da lì... anzi, dovevi tenerti ben stretto quel posto, fin troppo richiesto da chi di posti non ne aveva nessuno.
La notte, fra le stelle, nel buio, i due grandi semiconi della fabbrica parevano più piccoli e meno inquietanti. Allora li guardavi di tanto in tanto, e ti era facile ricordare di quando, nove anni prima, avessero dato tanta paura a tante, ma tante persone.
Doveva essere una fabbrica del nucleare, all'origine, quando ancora stavano ultimando il progetto, ma la gente non ne volle sapere. Il nucleare era il veleno, e gli ambientalisti avevano ben dato battaglia a quella grande struttura. Ti piaceva ricordare i cortei, le maschere antigas sui visi di quelle persone, incatenate con tanti cartelli a tracolla, con teschi disegnati e scritte allarmanti. C'era stata la polizia, la stampa, ti avevano anche ripreso. Eri molto più giovane, allora e ti sentivi importante, perché importante quel posto lo era. Ti avevano dato anche un cane, un lupo, per fare la guardia. Ma poi, su quei monitor, mai niente, mai un manifestante, mai un intruso. Il cane non aveva mai dovuto fare la guardia, anche se era da guardia.
Gli imprenditori avevano ceduto: l'opinione pubblica era sovrana e al velenoso nucleare si era sostituito la più familiare energia elettrica. Non più disordini, non più pericolo, non più importanza, non più stampa... niente!
Ora, di notte, quelle grandi bocche ad imbuto rivolte verso le stelle non erano che innocue altezze, adornate di punti luminosi, quasi fosse sempre, per loro, Natale. Viste da lontano ti parevano diverse. All'alba, quando andavi, percorrevi una strada drittissima per arrivare al tuo posto: nella grande pianura, fra le risaie, non c'erano che loro, e da una parte, più in là, ma di molto, le alpi, dall'altra, ma ancora più in là, c'era l'alba. Non erano belle, quelle enormi bocche di ferro, ma ti davano da vivere, e non potevi che osservarle diventare pian piano più grandi, mentre tenevi il volante: se c'erano loro, c'eri anche tu. Se potevi sposarti, se potevi andare in vacanza dai tuoi, se potevi comprarti un nuovo vestito, pagarti una donna - e di nere lì intorno ce n'erano tante - lo dovevi a quelle due grandi bocche, non potevi non dirlo.
La domenica, invece, era tutto più cupo. Anche col sole, non era mai bello. I monitor erano sempre più vuoti. Anche i rari turnisti dei reparti all'interno, che comparivano e scomparivano di mezz'ora in mezz'ora, vestiti sempre con le tute e i berretti, erano più brutti che nelle ore notturne. Se sopra c'erano le stelle ti apparivano creature mansuete, miti uomini intenti al lavoro. Se c'era la luce intensa e rude del fine settimana erano scontrose figure che odiavi, e non ne capivi il motivo.
Domenica: una coppia che arriva chiedendo di entrare per 'guardare'. Il cane pauroso. Il collega che prima o poi arriverà... ovvero, alla fine del turno, e lo saluterai con le stesse parole, più o meno, di tutti i giorni dell'anno. I monitor da continuare a tenere sott'occhio.
Ti sarebbe tanto piaciuto poter leggere, in quelle ore da niente. Ma non si poteva. Dovevi tenere sotto controllo tutta quella struttura. Fosse almeno pericolosa! Interessasse davvero a qualcuno! Niente. Dovevi guardarla costantemente, dai monitor, solo motivi davvero importanti potevano giustificarti in caso di assenza. Un giornale, un libro, non erano ammessi. Ti sarebbe tanto piaciuto leggere quell'antico poema, la storia di quell'eroe, di suo padre, della città distrutta dopo l'inganno con un cavallo di legno... Enea, il tuo nome ti era sempre piaciuto, e mai avevi capito come avessero pensato, i tuoi, a darti quel nome.
Il video in bianco e nero, i monitor, sempre accesi, ventiquattro ore su ventiquattro. Mai una volta, mai una, che si fossero rotti. 'Quando avrò finito - pensavi - passerò da Pamela? È il suo giorno di turno'.
No! Non era proprio un bel vivere! C'era tanto entusiasmo, una volta, quando c'era ancora lei, che ti chiamava da giù, che ti parlava in dialetto, poi in perfetto italiano, lei che studiava, che non aveva cessato di credere in una vita migliore. Eravate ragazzi, avevate votato da poco. Lei ci credeva. Era bello con lei, forse proprio perché ci credeva. Andare via dal paese era già un primo passo: tu al nord, al lavoro, in un posto tanto importante! lei per la città più vicina, per l'università, per conseguire la laurea.
E tanto era stato. Tu con il lavoro. Lei china sui libri. Vedersi d'estate, nei periodi di festa, ed era sempre più bello, fino a quando... Lei aveva la laurea, un lavoro oneroso, non certo dei monitor da guardare per niente.
Tante volte ci avevi pensato. Tante volte avevi osato immaginare come sarebbe stato tutto se non ci fossi più stato. Il funerale. Le lacrime amare di tua madre, quelle di lei, forse, se avesse capito...
Ne valeva la pena? Se aspettavi la sera, magari finiva, quell'assurdo pensiero. Se fosse stata la notte! Ma era solo domenica! Avresti staccato il servizio con quei video al posto degli occhi, per vedere del niente, fin nel letto, nei sogni. Era solo domenica. Il pensiero esisteva. Cosa c'era per darti valore. La divisa? La pistola? Il tuo cane? Pamela? O i nove monitor? Era tutta lì la tua vita?
Lentamente, titubante, estraesti la pistola. Guardavi ancora sui video. Se eri deciso nel farlo potevi anche spostare lo sguardo, quello era di certo un motivo importante... o come avrebbe detto il tuo principale: 'plausibile'. Non c'era proprio nessuno lì intorno, eccetto le nere, dietro qualche anfratto, su qualche bidone, con le macchine, poche del resto, che sfrecciavano lungo la statale della bassa padana. Non ti avrebbe visto nessuno. Qualcuno - il collega - ti avrebbe trovato. Una sola, avresti voluto, ti avrebbe capito.
Il giorno era ancora presente. Potevi aspettare la sera, la luce più tenue ti avrebbe aiutato, o forse ti avrebbe convinto che non era poi così giusto, che non era poi il caso... Valeva la pena di essere pianto? Qualcosa, qualcuno, avrebbe potuto persuaderti, avresti potuto credere che non era poi il caso. Avresti anche potuto lasciare due righe: qualcuno c'era che ti voleva del bene, tua madre... Ma se non ci fossi più stato, non avresti più visto nessuno, e per tua madre una lettera non sarebbe stata di certo una consolazione.
Era il caso. Non ti bastava più niente in quella vita da niente. Via i monitor. Via le nere. Via tutta la gente che non voleva avere a che fare con una guardia giurata ignorante, per giunta di 'giù', tutta quella marmaglia che incontravi alla mensa, che non ti invitava a sedere come facevano fra loro e non ti consideravano.
Via il padrone di casa, il fetuso: mezzo stipendio per due camere e un bagno; via quell'inquilino di merda con il quale non potevi far altro se non litigare... l'ignorante che non ti lasciava sentire un programma di musica se non in sordina, e via anche sua moglie malata, la sua emicrania, solo una scusa per dirti che dovevi abbassare il volume, anche se era la musica classica. Via i viaggi nel treno affollato senza posti a sedere, fra cento persone che come te tornavano per le feste o l'estate, carichi di valigie consunte, di buste di plastica, di fatiche e di sonno come te... via la stanchezza, il sonno, il dialetto mai perso, i calzini rammendati, la divisa scucita, la solitudine del quartiere più ad est, il rumore della circonvallazione. Via il calcio, il tg, la porno rivista, le seghe, la televisione, l'energia elettrica, quel posto ed i due semiconi illuminati come se fossero in festa... mi avete dato lavoro e vi ringrazio per questo, ma non ho più bisogno di voi! Pensando, cedendo al ricordo, arrivava la sera. Più fioca la luce. Ormai quasi il buio.
Non restava che un gesto, tirare via la sicura, assicurarsi che non si fosse inceppato il grilletto, decidersi fra la tempia o la bocca... la tempia. Non guardavi più, ormai, a quei nove shcermi incolore.
Era quasi il momento... però, con la coda dell'occhio... sul terzo in basso a sinistra... un'ombra... sul video che riprendeva la zona esterna del recinto, la parte più vicina, potevi correrci senza salire sull'auto... poi niente, tutto era tornato ad essere quello di sempre: le immagini solite, non a colori, sui video a sei pollici.
Avevi messo giù la pistola, e guardavi. Cos'era stato? Uno scherzo degli occhi, un'interferenza nel circuito, un cavo mal messo? O forse soltanto la voglia, profonda, di non lasciare quel 'niente' che erano i tuoi anni a venire?
Ancora. Quell'ombra tornava su un video diverso: il quinto, la zona est, più distante dalla tua postazione. Un'ombra che si arrampica al recinto, diventa una sagoma umana, salta all'interno, poi lancia qualcosa: una corda. Un'altra, anche lei arrampicata a fatica, poi salta, e una terza, anche lei che si tira, poi salta e ritira la corda.
Cosa stava accadendo? Cosa c'era da fare? Non era quello il momento, non sarebbe stato neanche creduto per quello che era. Ti avrebbero visto vittima di quelle ombre, ucciso da chi stava entrando, e non era quello ciò che volevi che fosse, non quello ciò che doveva accadere.
C'era poco da fare. Infilare la pistola al suo posto, attivare l'allarme: le tre sagome erano già su di un altro monitor: il secondo che inquadrava l'interno, sulla prima porta che immetteva ai comandi. Prendesti le chiavi, la radio trasmittente, salisti sull'auto. Anche il cane ora correva con te, senza scodinzolare, ma ringhiando come avesse intuito il pericolo e l'intruso da ricacciare di fuori. Arrivasti sul posto, e vedesti quei tre, a pochi passi, spalancare una porta e fuggire veloci per girare nell'angolo. L'allarme suonava, ed i carabinieri sarebbero arrivati in pochi minuti dalla stazione vicina.
«Altolà! chi va là!» e girasti anche tu l'angolo. Esplodesti il primo colpo nel vuoto, verso il cielo di un giorno di festa.

 

Classifica Concorso Marguerite Yourcenar 1999 sezione narrativa
 
PER COMUNICARE CON L'AUTORE speditegli una lettera presso «Il Club degli autori, cas.post. 68, 20077 MELEGNANO (Mi)». Allegate Lit. 3.000 in francobolli per contributo spese postali e di segreteria provvederemo a inoltrargliela.
Non chiedeteci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©1999 Il club degli autori Paolo Di Biagio
Per comunicare con il Club degli autori: info<clubaut@club.it>
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit

Rivista Il Club degli autori

Home page Club dei poeti
|Antologia dei Poeti
Concorsi letterari
Arts club (Pittori)
TUTTI I SITI CLUB
Consigli editoriali per chi vuole pubblicare un libro
Se ti iscrivi al Club avrai un sito tutto tuo!

In serito 5 novembre 1999