SCRITTORI ITALIANI
CONTEMPORANEI

affermati, emergenti ed esordienti
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Paola Muzzolini
Opera 6° classificata al concorso Angela Starace 2001 sez. narrativa

Un cappuccino, per favore
 
Credo che lo notai la prima volta che lo vidi, forse perché aveva in sé qualcosa d'insolito che si discostava da ciò che ero abituata a vedere intorno a me: signore dimesse, inzavorrate dalle borse di plastica della spesa, oppure signore ben vestite, o anche eleganti, ma senza originalità, uomini dal passo sicuro di chi ha davanti a sé una meta e cose ben precise da fare, o signori allegrotti che chiacchierano rumorosamente davanti alla porta di una delle tante osterie della mia città, dalla quale sono appena usciti molto ben carburati. O ancora gruppi di ragazzi che parlando ad alta voce per i veicoli o lungo il corso principale ostentano la loro giovinezza che li colloca automaticamente un gradino, o due, o tre, o quattro, sopra di te: o almeno questa sembra essere una delle loro certezze.
No, lui no, ed io lo notai perché era giovane, solo e silenzioso, anche nello sguardo. Era vestito in modo sobrio, ma con un ché d'eccentrico di chi, pur seguendo una moda trova in essa un modo per renderla estremamente adatta alla propria personalità. Anche il modo in cui portava i capelli era insolito: lunghi e legati dietro, e due basettoni sfumati, lasciati andare fino a metà guancia. Un look giovane, moderno, oserei dire metropolitano, che strideva con l'atmosfera di "paese" che ovunque si respirava nella mia piccola cittadina, ma ancor più strideva con l'espressione seria, assente e lontana del suo viso.
Lo notai mentre stava camminando, né piano né veloce, con le mani infilate nelle tasche di un giaccone di pelle nera e con lo sguardo che rasentava il porfido della vecchia piazza.
Ricordo che pensai subito che se mi ci fossi imbattuta ad una fermata della subway di Manhattan non me ne sarei mai accorta e mai e poi mai l'avrei notato, in quanto si sarebbe uniformato perfettamente ad un tale contesto e la sua figura si sarebbe appiattita insieme alle altre circostanti. Lì, invece, spiccava come un'arancia in un cesto pieno di uva nera. Da quel giorno cominciai a vederlo quasi quotidianamente, ad esempio nel bar dove andavo ogni mattina a fare colazione. Entravo e lui era lì, un braccio appoggiato col gomito sul ripiano di legno del bancone e la mano dell'altro che reggeva una tazzina di caffè, lo sguardo sempre oltre qualche cosa. Non girava mai la testa, come se avesse deciso di ignorare tutto ciò che lo circondava e quando si muoveva per andare alla cassa a pagare e quindi per uscire, questa si muoveva in un tutt'uno col corpo
Cercai un paio di volte di immettere il mio sguardo lungo la linea del suo: cercavo un aggancio, un pretesto per chiedergli semplicemente chi c. fosse e che c. ci facesse nella mia città, perché, Cristo Santo, ero una curiosa ficcanaso e m'intestardivo quando volevo sapere una cosa e non ci riuscivo, anche se si trattava di una cosa da niente.
Ma sembrava un'impresa impossibile e lasciai perdere.
Per un po' pensai che si trovasse lì per lavoro, magari era stato assunto in qualche fabbrica della zona ed era costretto a soggiornare nelle vicinanze e si annoiava perché non conosceva nessuno.
Ma il suo sguardo era troppo lontano per riuscire a posarsi per lunghe ore su un tornio o cose simili. Sicuramente non lavorava per un'officina meccanica, perché il suo look curato lo escludeva automaticamente, né per un impresa artigiana perché le sue mani, che io avevo più volte osservato attentamente mentre tenevo in mano la tazzina di caffè, non avevano mai avuto a che fare con bulloni, chiodi, malta e via dicendo: su questo io ci avrei giurato. Un intellettuale in cerca d'ispirazione? Assolutamente no.
Era troppo giovane, bellino e alla moda per scegliere di isolarsi a meditare in un buco di paese. E poi quello sguardo lontano, che andava oltre ogni cosa, aveva un che di strafottente più che di impegnato nei confronti dell'analisi di qualche problema astratto, né tantomeno spirituale.
Una mattina nel solito bar non c'era nessuno oltre a me, il giovane misterioso e il gestore del locale, ed io immediatamente pensai che quella poteva essere l'occasione giusta per interrogare quest'ultimo, discretamente e con non chalance non appena fossimo rimasti soli. Lui sicuramente qualche parola doveva averla scambiata col tipo, dal momento che erano mesi che gli preparava il caffè tutte le mattine. Mentre aspettavo che si verificassero queste condizioni, non potevo esimermi dal chiedere a me stessa il perché di quest'interesse morboso. E mi chiedevo anche se fossi la sola a provarlo.
Apparentemente sembrava proprio così poiché non mi ero accorta di qualcun altro che osservasse il giovane come facevo io, anzi sembrava che gli altri nemmeno lo vedessero, tant'è che per un attimo pensai anche che fosse solo nella mia mente. Non appena il giovane uscì dal locale, mi avvicinai al bancone decisa ad avere le informazioni che volevo.
Il barista si chiamava Max e lo conoscevo da diverso tempo, praticamente da quando, qualche anno prima, aveva aperto il piccolo bar e si era messo a fare un cappuccino meraviglioso, del quale io personalmente non ero più riuscita a farne a meno. Era diventata l'unica cosa che rimpiangevo della mia città, quando per qualche ragione me n'allontanavo. Era una persona estremamente gentile e potevo tranquillamente fargli qualsiasi tipo di domanda senza temere di irritarlo e di sentirmi rispondere in malomodo.
Tuttavia quando gli fui davanti, qualche cosa che aveva a che fare con il mio paese ed i suoi abitanti, di cui lui in fondo era un esemplare, mi bloccò: cosa avrebbe potuto pensare di me vedendomi così interessata ad un ragazzo di almeno una decina d'anni più giovane? Magari mi avrebbe risposto con cortesia ma dentro di sé avrebbe pensato che ero una ficcanaso che butta l'occhio ai ragazzini. Non avrebbe capito l'essenza del mio interessamento. Rimasi muta o meglio, aprii la bocca ma solo per ordinare il mio cappuccino. Uscii inappagata sulla piazza e la trovai avvolta in una cappa d'umidità dall'apparenza così stabile e fissa che sembrava non dovesse andarsene mai più: intorno a me le solite facce di sempre.
Ce l'avevo un po' con me stessa ed un po' con il mio paese e non sapevo se più con me stessa o più con il mio paese. Ma forse con il mio paese, che mi condizionava e m'inibiva anche nelle cose più insignificanti: e comunque era fuori di dubbio che io glielo permettevo.
Raggiunsi il parcheggio e salii sulla macchina, misi in moto e mi diressi al lavoro.
Ricordo che per tutto il tragitto pensai a quanto mi sentivo condizionata ed inibita al punto da non consentire nemmeno a me stessa di soddisfare una mia curiosità, per quanto piccola, misera ed apparentemente immotivata, fosse.
Passarono mesi pieni delle solite cose, belle e brutte, e comunque molto normali. Il tipo continuavo a vederlo quasi tutti i giorni, sempre nel suo solito atteggiamento da "sì, ci sono ma è come se non ci fossi", ed io ostinatamente continuavo a congetturare sui motivi che lo trattenevano lì, in un paese che non era il suo e che non lo sarebbe mai stato (questo lo avevo deciso io). Mai lo vidi parlare con qualcuno ed il giorno in cui lo sorpresi a guardare una vetrina, rimasi quasi di stucco e la cosa mi sembrò un enorme progresso, anche se non so in vista di cosa... E passò ancora del tempo, nel quale io continuavo a condurre la solita vita fatta di lavoro, casa, amicizie, ovvero la vita di una giovane donna di paese ancora libera sentimentalmente. Avvertivo spesso il desidero di un cambiamento o che accadesse qualcosa di nuovo, ma la routine in cui mi ero calata da quando avevo trovato il mio primo impiego, sembrava non lasciarmi né lo spazio né la voglia per cercare quello che mi mancava ed indubbiamente l'unica novità era rappresentata dal giovanotto venuto da chissà dove.
Dal mio canto mi ero quasi fatta la convinzione che si trovasse lì per lavoro, quando un giorno, non un giorno qualunque, ma la vigilia di Natale, lo trovai appoggiato, come al solito, coi gomiti al bancone del solito bar. Il mistero a questo punto s'infittiva: non era possibile che un giovane come lui passasse tutto solo le ferie natalizie, quindi non era in ferie e quindi non lavorava. E allora cosa faceva? E comunque ero sempre l'unica ad interessasi alla cosa.
Tempo prima avevo cercato di introdurre casualmente il discorso con le mie amiche ma mi ero accorta che immediatamente, del loro assoluto menefreghismo a riguardo e mi ero ritirata appena in tempo, per non suscitare il loro interesse nei confronti del mio interesse.
Quella volta ricordo che lo fissai con insistenza, quasi con rabbia e pensai che nessuna fulmine mi avrebbe colpita se mi fossi avvicinata a lui e gli avessi rivolto la parola. Mi avvicinai, credo che anche lui mi dette un'occhiata, e quando gli fui a fianco e feci per aprire la bocca, quello che avrei voluto dire mi rimase in gola e a nulla servirono i miei sforzi per farlo uscire. Fu lì che gettai la spugna, come avevo fatto mille altre volte, in mille altre occasioni. Le parole mi uscirono allorché la mia mente decise di cambiarle e dissi a Max:
«Mi fa un cappuccino per favore?».
Naturalmente non seppi mai chi fosse quel ragazzo e tuttora alle volte me lo chiedo, allo stesso modo in cui mi chiedo cosa ne sarebbe stato di me se non avessi rinunciato in partenza a fare molte cose che avrei desiderato fare, per pigrizia, per timidezza, per insicurezza, per paura del giudizio degli altri.
Non molto tempo dopo quella vigilia di Natale, mi recai alla stazione per andare ad accogliere una mia parente che veniva a farmi visita da una città vicina. Lui era lì, con lo stesso giaccone di pelle nera ed una valigia in mano, dello stesso colore. Lo osservai mentre saliva su un treno diretto a Vienna. Già, non avevo mai pensato che avrebbe potuto essere benissimo di un'altra nazionalità. Fu l'ultima volta che lo vidi.
Non so in che modo e in che termini questa storia - non storia influì su di me, ma qualcosa mi lasciò dentro, da qualche parte e non so se ci sia un'attinenza o meno, ma anch'io un anno dopo presi un treno, in direzione opposta e cambiai lavoro.
 
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