Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Paola Maria Lerico

Con questo racconto ha vinto il quarto premio all'edizione 2007 del Premio di Scrittura Creativa Lella Razza



Madame Estelle

L'appartamento di Madame Estelle per un lato si affaccia su una tortuosa via, a metà strada tra le Sacré-Coeur e Place Pigalle, come dire a metà strada tra il sacro e il profano; parte della salita è fiancheggiata da frondosi e imponenti alberi la cui ombra perenne garantisce alle case circostanti muri molto freschi anche d'estate. La zona, nonostante i turisti, è tranquilla quasi silente forse una forma di riguardo per la sacralità della basilica sovrastante oppure il semplice piacere di ascoltare indisturbati e pigri il gioioso vociare di Place du Tertre, o tutte e due le cose.
Arrivai davanti al portone in mogano scuro intorno a mezzogiorno; la luce abbagliante di quel tardo mattino di maggio, insolitamente afoso, rendeva l'asfalto lucido e il cielo impossibile da scrutare, quasi non ci fosse o fosse molto distante. Facevo visita a Madame ogni volta che tornavo a Parigi, due o tre volte l'anno; mentre salivo senza fretta il ripido acciottolato riandai alle innumerevoli volte che avevo percorso quel tratto di strada; molti anni addietro affittai l'appartamento adiacente quello di Estelle per circa tre anni. La prima volta che la vidi era ferma sul pianerottolo al terzo piano, raffinata nell'abito a fiorellini bianchi e blu bordato in pizzo; fui attratta dagli immensi occhi grigi che si aprivano su un viso lungo e ossuto ma delicato, privo di trucco, messo in risalto da un ricercato taglio di capelli di un bianco assoluto, molto parigino pensai; la figura longilinea mi ricordò immediatamente Vanessa Redgrave, anche se quest'ultima più giovane di diversi anni. Indugiai per un attimo che mi parve eccessivo sulle sue mani, aveva dita lunghissime e nodose. Appoggiata al corrimano guardava con disappunto un'estranea salire faticosamente i gradini trascinando i bagagli, l'antico ascensore era fuori uso; probabilmente era solo preoccupata che mi appoggiassi contro la parete delle scale appena tinteggiata color burro e che, anche senza il mio contributo, sarebbe difficilmente rimasta intatta a lungo. Incrociai il suo sguardo indagatore ma privo d'ostilità.
«Salve sono la nuova vicina, come sta?» dissi nel mio miglior francese appoggiando a terra la sacca più pesante. "Sono italiana" mi affrettai ad aggiungere.
«Ah ecco! Bene. Buonasera!» rispose; poi aggiunse qualcosa, nel suo "miglior francese", che non capii e sparì velocemente; sentii chiudere la porta a doppia mandata. Per alcune settimane non la incontrai; udivo musica classica provenire dal suo appartamento e, a volte, il miagolio di un gatto.
Una sera bussò alla porta (non usò il campanello; che strano pensai, e quel gesto mi ricordò con ironia gli agenti dei servizi segreti che bussano anziché suonare perché hanno paura che il campanello possa esplodere, così almeno avevo letto in un romanzo); era un'emergenza mi disse, le serviva subito del latte per il gatto, non si sentiva bene, non usciva da due giorni e non aveva fatto la spesa. Da quella sera, dopo aver rifocillato lei e il gatto, la sua iniziale diffidenza prese a sciogliersi, così come l'innata riservatezza si aprì alla confidenza; cominciarono le nostre lunghe chiacchierate al profumo di tè e torta di mele, caffè e biscotti appena sfornati. La vicina di casa divenne così l'amica tanto amata.
La differenza d'età (all'epoca Estelle aveva circa sessant'anni e ai miei occhi di venticinquenne sembrava spaventosamente vecchia, nonostante il suo fantastico aspetto), contribuì a creare una sorta di legame famigliare; non cercai mai nel nostro rapporto, per lo meno coscientemente, echi d'affetti lontani, ma coltivai un legame nuovo, libero da costrizioni e senso del dovere che lentamente si sedimentò fino a diventare indispensabile. Il custode m'invitò ad entrare, l'androne era buio.
«Lampadina guasta» disse «Non ho ancora trovato il tempo per sostituirla; prego entri, come sta? È sempre una gioia rivederla, le preparo subito il caffè». Prese tempo poi aggiunse «Sa... ho un pacchetto per lei». Un senso di nausea mi travolse e i battiti persero il ritmo; per un attimo mi sembrò che tutto intorno si fosse fermato in attesa di una reazione, di una parola; piombai in un vortice che mi riportò al senso di smarrimento e angoscia che provai al ritorno a casa dopo il funerale di Lawrence e Patrick. Mi accomodai nella vecchia poltrona di cinz color miele; aprii il pacchetto che Victor mi porse prima di andare in cucina lasciandomi volutamente sola. Lo scialle color avorio accuratamente piegato era leggero tra le mie mani, un capolavoro d'artigianato, regalo del marito di Estelle, acquistato a Tangeri molti anni prima in occasione del viaggio di nozze e la cui storia mi era assai nota; quel racconto permeato di mistero e magia mi ammaliava ogni volta, con la stessa intensità di un'essenza orientale. Lei ed Eric si erano conosciuti durante la seconda guerra mondiale davanti all'antico Cafè Procope (oggi restaurato in ristorante), fu amore a prima vista; morto ormai da anni Eric è stato l'uomo col quale ha condiviso un rapporto speciale fatto di complicità, sostegno reciproco, un amore totale; l'unico rammarico era per entrambi non avere avuto figli, ma questa mancanza, causa di profonda tristezza soprattutto da parte di Estelle, era compensata dalla gioia di vivere insieme, dal piacere di attendere ad interessi comuni. Chi li conosceva poteva notare tra loro una sorta d'osmosi che arrivava quasi ad escludere il mondo esterno, a volte persino gli amici più cari. Non riuscii a trattenere le lacrime. In mezzo allo scialle che non osai aprire subito, trovai più tardi una deliziosa trousse anni Venti ricamata nei toni dell'azzurro chiaro e ocra; dentro un paio d'orecchini in oro bianco, le perle erano circondate ognuna da due giri di brillantini che baluginavano piccoli lampi blu cobalto; ricordai quando, con timore, glieli chiesi per una serata importante o tale mi parve allora. Non esitò a prestarmeli. «Con l'abito nero sono perfetti, sarai molto chic», disse con entusiasmo. L'aroma del caffè invase il lindo salotto.
Accarezzai lievemente l'interno dorato della scatoletta; mi sembrò che un ultimo residuo di cipria si fosse depositato all'interno della mano; sentii il suo delicato profumo e mi girai a cercarla. «Mi spiace, ma l'appartamento di Madame è in vendita, il nipote ha portato via tutto, se vuole possiamo salire a dare un'ultima occhiata, ma forse è meglio evitare, vederlo vuoto mette una gran tristezza» disse Victor cercando d'essere a suo modo d'aiuto. Salutai con un cenno della mano senza dire nulla lasciando intatto il caffè che gentilmente Victor mi aveva versato nella tazzina blu e verde sbreccata da sempre; lui comprese il mio silenzio, era stato testimone della nostra amicizia, l'aveva vista nascere e consolidarsi negli anni.
Percorsi al contrario la via che mezz'ora prima mi aveva condotta al vecchio appartement. A Place Blanche fermai un taxi e diedi al conducente l'indirizzo del Montparnasse. Dopo aver pagato la corsa indugiai prima di scendere indecisa sul da farsi; lentamente arrivai al cancello, respirai profondamente per qualche minuto e tornai sui miei passi. Per un paio d'ore camminai senza sosta, senza meta, senza fretta. Non ero pronta ad affrontare una lapide che mi avrebbe confermato il senso definitivo di quella perdita. Due mesi prima Estelle era mancata per un attacco di cuore, da qualche tempo era in cura per un affaticamento cardiaco; mi assicurò non essere nulla di preoccupante.
Non andai al funerale. Tornai in albergo. Pensai alla delusione che aveva provato notando che non ero con lei nell'ultima passeggiata parigina in una meravigliosa giornata d'inizio primavera, la sua stagione preferita. Sdraiata sul letto nella camera d'albergo mi tornarono alla mente le parole che mi diceva spesso, come un accorato appello «Fai solo le cose che ti senti di fare, non forzare gli eventi, cerca di avere pazienza e supererai questi momenti intollerabili, solo così possiamo tentare di andare avanti e sperare in un po' di serenità». Capii che aveva approvato la mia assenza; mi sembrava di vederla fare su e giù con il capo sorridendo nel tipico movimento d'assenso; vent'anni prima, mi aveva presa per mano e trascinato fuori dal tunnel della disperazione con amore e dedizione come solo una madre può fare, con una forza d'animo che non ammette ostacoli, concessa solo a chi è sopravvissuto ad un grande dolore. Una strada sdrucciolevole illuminata dai fari di un'auto e un albero di notte furono le ultime cose che videro mio figlio e l'uomo che è rimasto il mio unico grande amore; mi lasciarono sola, svuotata come un guscio incrinato che può solo sperare di dissolversi per porre fine alla propria inutilità.
La prossima volta forse riuscirò a varcare quel cancello così come anni prima, sul finire dell'inverno, per la prima volta dopo settimane dal funerale, attraversai un altro viale alberato che mi conduceva al luogo dove Lawrence e Patrick riposano vicini. Quel pomeriggio Estelle mi teneva per mano. Anche per questo le sono grata.

Paola Maria Lerico


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Lella Razza 2007

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 Ins. 05-04-2008