Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Paola Lecco

Con questo racconto ha vinto il ottavo premio del concorso Città di Orzinuovi 1998, sezione nerrativa

 
Il battito
 
Il film alla televisione, come quasi tutti i films in prima serata, era terminato poco dopo le ventidue e trenta. Una puntata in cucina per un sorso di aranciata fresca con la quale mandar giù quella minuscola pastiglietta azzurra che doveva assicurarmi il sonno, un sonno di otto ore e senza sogni. O senza incubi.
Temevo di affrontare la notte, portatrice, con i sogni, delle immagini del passato. Temevo di rivivere la mia vita di sposa e di madre, temevo di rivedere il volto di mio marito e di mia figlia, temevo gli abbracci che, nonostante tutto, avrei dato loro.
Loro che mi hanno abbandonata presso mia madre alla diagnosi di cancro, loro che non mi hanno più voluta, loro che non si sono mai fatti vivi durante i due interventi subiti, durante il calvario della chemioterapia, della radioterapia e degli snervanti controlli trimestrali. Loro che non vedo più da tre anni. Loro che rivedo soltanto nei miei sogni perché, nonostante il sonnifero, io li sogno tutte le notti e mi rivedo attiva casalinga nella mia casetta sulla collina, mattoni a vista, tetto sette nani.
Al risveglio, al mattino, temo la giornata che ho dinanzi perché è un'ennesima giornata senza di loro e, senza di loro, io non riesco né a vivere né a sopravvivere, riesco, e molto a mala pena, a rosicchiarne le ore, come un topo rosicchia invano un osso invece di una crosta di formaggio. Rosicchio le ore una dopo l'altra, con uno strazio nel cuore che nessun idioma al mondo saprebbe mai trasferire in parole. La mia giornata vuota di loro, senza più scopo alcuno, o col solo scopo di curarmi che, di loro priva, non riesco ad accettare quale unica valvola di vita. E mi trascino, notte e giorno, come un barbone nelle sue larghe scarpaccie senza stringhe: anch'io senza più legacci, senza più legami, senza più radici.
Carlo, l'anziano signore vedovo e senza figli dirimpettaio delle mie finestre, col tempo è diventato un amico affettuoso. Anzi, più che un amico: si è innamorato di me e benché io non di lui, la sua compagnia mi è tanto gradita quanto cara. Fra le sue braccia anziane ho trovato un porto, una quiete, una serenità, una comprensione, una saggezza, una protezione ed un sostegno indicibili. I suoi baci, dopo due anni, ancora mi stupiscono: non l'avrei mai creduta possibile tanta passione alla sua età. È proprio vero che il cuore non invecchia. L'altrui cuore, giacché il mio è morto. E non avrei mai creduto che, alla sua età, sapesse baciare tanto bene, con tanta delicatezza, con tanta cura, con tanta tenerezza. Evidentemente, se non in forza della maturità, certo in forza dell'esperienza. Apprezzo i suoi baci per quello che sono: la mia ultima spiaggia. Spiaggia sulla quale mi distendo spossata per la fatica improba di sopportare i miei ricordi; spiaggia sulla quale tento di dimenticare, spiaggia alla quale vorrei abbandonarmi totalmente pur senza per altro riuscirvi.
Avevo sentito mio marito, quella sera, per una questione di intestazione del canone televisivo da cambiare, e la sua voce mi aveva messa sottosopra, così avevo attraversato la strada per nascondere il viso ed il mio turbamento nelle larghe spalle protettive del mio innamorato, per avere conforto dai suoi baci, perché l'ultima spiaggia quietasse il subbuglio del mio essere. Il tutto dopo il rituale film serale e l'ancor più rituale sonnifero. Pensavo di trattenermi poco, giusto il tempo di una camomilla, ma le cose andarono diversamente.
Udii un battito di martello provenire da lontano ed avvicinarsi sempre più, finché mi parve che il martello mi battesse accanto al viso. Ma non era un martello, era una campana dal suono sordo e ritmico sotto la quale mi pareva mi si rialzasse leggermente il capo. Ma non era neppure una campana, erano stivali che battevano il tempo di una marcia di carristi tedeschi. E il mio capo si rialzava leggermente. Ma non erano stivali, erano pugni possenti che battevano su un tavolo di legno e ne sentivo la cupa eco. Sapevo di essere al calduccio in una nicchia tiepida che m'avvolgeva tutta, sapevo che fuori il silenzio della notte fonda era rotto solo dal battito della pioggia sulle foglie rigogliose delle magnolie del giardino. Sapevo che il martello, la campana, gli stivali e i pugni chiusi non disturbavano il mio sonno, anzi, ritmavano il mio respiro appena pesante e ne erano le propaggini. Ed era tutto buio e pioveva... E il buio continuava con la pioggia per un tempo indefinito, più a lungo di quanto, secondo me, avessero dovuto.
L'alba si rialzò in ritardo per il cielo gonfio di nubi nere e pesanti mentre la luce s'inoltrava a stento, cercando con la sua impalpabile spinta perlacea di sopraffare il buio.
I rumori del primo mattino, il battito sulle scale di un passo affrettato, il battito del carico delle pattumiere nell'apposito camion, infine, un motore d'imbarcazione che singhiozza al minimo. Ma qui non siamo né al mare né al lago. Poi il frastuono di una batteria che pareva sfuggire ad una discoteca. Il battito... il battito che imperversava, che mi pareva avere identificato ora nell'una, ora nell'altra situazione. Tutte erano. Nessuna era. Ma il battito persisteva. Il tonfo sordo accanto al mio capo, con la cadenza sempre uguale, con l'intervallo sempre identico. Immenso nella profondità e nella vastità della sua eco.
Ed era solo mio. Avevo la sensazione che appartenesse solo a me. Il martello, la campana, gli stivali, i pugni, i passi, le pattumiere, il motore, la batteria, erano solo miei, esistevano e suonavano e risuonavano solo per me, erano in scena con me sola e privilegiata per platea.
E io non li ricacciavo, non li rinnegavo, ma li accoglievo con una benevolenza assolutamente fuori luogo per quello che erano. E desideravo continuassero in eterno, non importa cosa fossero realmente.
Poi percepii morbide labbra appena umide giocare alla scoperta delle mie sulle mie. Erano una toccata e fuga da pianoforte. Carezzavano e fuggivano. Ritornavano e rifuggivano. E giocavano... Giocavano con le mie ancora assonnate, poco consce, ma sufficientemente presenti per stare al gioco e per ricambiarlo, a poco a poco, con sempre maggior calore e coscienza.
Il battito prende ora ad aumentare per vigore ed intensità, e gli intervalli si raccorciano. Il battito, ancora e più che mai presente nell'alba appena accennata di baci appena accennati. Più cupo, più sordo, più rapido nell'abbraccio di larghe spalle che mi tiene protetta dai rimpianti notturni, dalle certezze del giorno, dalla pioggia che forse sono le mie lacrime.
Socchiudo appena gli occhi: c'è lo sforzo della luce che non riesce a penetrare il buio della stanza con la sua lama consona all'ora; c'è tutta la tenerezza di quella bocca che è la mia alba, il mio risveglio, il mio trampolino sulla giornata.
E di colpo comprendo di aver dormito abbandonata sul tuo cuore di uomo dalla nuca di spuma.
 
 

 

 

Classifica Concorso Città di Orzinuovi 1998 sezione narrativa
 
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inserito il 5 Febbraio 1998

modificato il 9 ottobre 1998