Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Paola Gamberoni
Con questo racconto ha vinto il secondo premio all'edizione 2008 del Premio Il Club dei Poeti.



La vecchia torre


Ti ho visto all'angolo della strada e la tua luce ha accecato le pupille della mia anima.
Sono divenuto preda di una paura vigliacca.
Ho cercato di sfuggirti nella romantica sala da te, ma ti ho ritrovato, privo di alcuno sconforto, all'entrata di una mostra di quadri e l'ombra del dubbio era alle spalle del mio collega di lavoro al ristorante.
Ho abbassato le palpebre perché potesse piovere la mia prima lacrima di dolore e mi sono lasciato guidare tra le fredde pareti della memoria.
Non ricordavo, non volevo ricordare. Perdonami, se puoi.
Ma ora sono pronto. Ho una valigia di rimorsi.
Affronterò il viaggio senza indugiare e sarà il mio ultimo viaggio.
Oltre il finestrino del treno vedo fuggire gli anni. La fermata dell'illusione. Scendo. Esco dalla stazione. Attraverso la piazza. Occhi ciechi mi passano accanto. L'odore della vita mi sfiora la pelle consumata dal tempo. La mestizia accompagna i miei passi.
Percorro viuzze strette, dove si tuffano dalle finestre spalancate gli odori delle cucine. Ho la nausea, ma continuo a camminare perché so che poco più avanti mi aspetta il sentiero. È più ripido di come lo ricordavo o, forse, sono solo più vecchio. Mi scivola un piede. Mi aggrappo con fatica ad un arbusto per non cadere. Provo pena per me stesso, ma proseguo.
All'improvviso il mondo tace.
Sono arrivato alla mia ultima destinazione: la vecchia torre.
Immersa nel verde, tra boschi di castagno,querce e betulle, la torre sorge sulla sommità della collina. È un imponente edificio in pietra viva risalente ai secoli X-XI che, probabilmente, controllava le vie di accesso al paese.
Domina dall'alto dei suoi mille anni le case d'intorno e l'albero che le vive accanto respira con le radici in parte fuori dal terreno, come denti malati, la vecchiaia di questo regno di silenzi e di corvi solitari che sbiascicano i loro versi nel tempo.
Ecco: sono qui, davanti a te.
Ti sto guardando. Sei sopravvissuto a me.
Ero un ragazzino senza amici.
«Quando cammini, Vittorio, dondoli,don ... don ... li...».
Si prendevano gioco di me.
Non potevo piangere.
L'improvvisa morte della mamma non mi aveva risparmiato a lungo dalle umiliazioni inflitte con grande cattiveria dai compagni di scuola.
Il cuore taceva la vergogna davanti a mio padre. Le labbra mute lo pregava nodi difendermi. I suoi occhi erano perduti nell'assenza di lei. Era un uomo senza più difese.
Così io tenevo un dolore troppo grande stretto al petto, come un pacco importante e ingombrante da portare, e quando camminavo dondolavo.
Avevo nostalgia del volto di lei che mi aveva generato, allattato, protetto, amato. Lo evocavo nella solitudine dei miei giorni.
Odiavo giocare a calcio.
Adoravo la lettura, ma temevo il confronto del sapere. Finivo per smarrire la ragione tra le pagine, confondendole rime lette con i pensieri che attraversa vano all'improvviso i cieli infiniti della mia mente e i professori del liceo finivano per compatirmi.
Mio rifugio era divenuta la vecchia torre.
Eri un ragazzino senza amici.
«Hai le ciglia più lunghe delle nostre sorelle, Paol ...o!»
Si prendevano gioco di te.
Non potevi piangere.
Tuo padre faceva del tuo corpo l'arteria del suo rancore.
Soffocavi le urla di dolore in un sudario di preghiera davanti a tua madre.
Le labbra mute la pregava nodi difenderti.
I suoi occhi si eclissavano nelle nebbie dell'ignoranza. Le tue ciglia erano gli argini del fiume di lacrime che trattenevi. Avevi nostalgia dell'amore che penetrava i tuoi sogni, ma che al risveglio ti abbandonava.
Odiavi giocare a calcio.
Adoravi la lettura, ma temevi il confronto del sapere. Finivi per smarrire la ragione tra le pagine, confondendo le rime lette con i pensieri che attraversa vano all'improvviso i cieli infiniti della tua mente e i professori del liceo finivano per compatirti.
Tuo rifugio era divenuta la vecchia torre.
La torre era l'unica testimone del nostro amore.
Salivamo fin lassù. All'ultima nicchia liberavamo gli sguardi dal collare del pregiudizio. Sguardi feriti che annusavano la libertà, si rincorrevano felici nei prati di un orizzonte scarlatto.
Non so cosa mi spinse a te, a stendere le mie membra sopra le tue.
Fu passione? Fu perversione? Fu la fine? Fu l'inizio?
Non so dire, non oso spiegare.
Ero solo un umile mortale attirato a teda un ardore sconfinato. La tua bocca non era richiamo di baci,ma fucina di pensieri, io ne ero unico beneficiario.
In te ritrovavo il mio essere, il mio esistere era unito al tuo tessere l'esistenza.
Amavo osservare la tua nuca sottile quando camminavi due passi avanti a me. Ti chiamavo e benedicevo l'istante in cui voltavi il capo, l'aria giocava trai capelli e i tuoi occhi verdi diventavano miei.
Con te assaporavo la sensazione inebriante della follia. Con te assaporavo l'amaro sapore della vergogna. Sognavo una sorte diversa. Mi maledicevo per essere un uomo innamorato di un uomo, ma quando appoggiavo la testa sul tuo petto scarno e udivo il battito segreto del tuo cuore, io sapevo di vivere. Capivo, trattenendole lacrime, che la mia anima sarebbe stata una dimora abbandonata senza dite. Seguivo come un cane randagio le orme della tua grazia.
Odoravo il profumo misterioso che emanava dalla tua pelle chiara. Carpivo il profilo delicato del tuo volto. Eri la mia implacabile ossessione.
L'ardore mi conduceva tra le viscere delle tue carni desolatamente sterili, poi mi abbandonava nel buio dell'insicurezza.
Mi perdevo, avevo paura della condanna,marcivo nel disonore di cui mi ero vestito.
Accaldato dalla rabbia, assistevi impotente al divampare della mia tristezza. Mi tendevi la mano quando lo scherno o la pietà illuminavano gli sguardi sconosciuti. Falciavi il susseguirsi dei giorni con il sangue dell'amore. Con voce lieve mi incoraggiavi a vivere il peso della mia condizione. Mi insegnavi a tacere il rancore e a disprezzare il disprezzo. Poi, disarmato dal sonno, ti coricavi al mio fianco e chiudevi le tue lunghissime ciglia sulle lacrime. Mai ti piegasti al disamore, alla rassegnazione,all'onta.
Ti ho sempre amato, anche quando ti portavo addosso come un vestito liso,un'anima consunta, una piaga nascosta,un neo sgradevole, anche quando la triste vergogna non mi consentiva di mostrarmi nudo al mondo.
Ero inconsapevole che la vita mi aveva predestinato il tuo destino.
Infine, vinto dalla febbre del terrore, ti rinnegai, ti scacciai come un insetto molesto, ti esiliai in un anfratto della mente, mi tuffai nell'oceano della disperazione più cupa, sperando di raggiungere un'isola felice. Non trovai mai pace.
Mio Cristo, soffristi?
La farfalla restò impigliata nella ragnatela della paura.
Il vento divenne lamento umano di chi voleva parlare, giocare, ridere, gioire,ma non aveva fiato sufficiente per articolare le parole o sguardi per conoscere le tue lacrime.
Salisti sulla torre, fino all'ultima nicchia.
Io non ti seguii, ero lontano.
Tu il cielo, io la terra.
Gridasti il mio nome.
Mi voltai appena.
Foglie morte i miei occhi.
Allargasti le braccia e, come un grande uccello dalle ali spezzate, ti librasti nell'aria immota.
Un tonfo spaccò i silenzi arcani dell'anima, fermò il tempo e deviò il mio destino. Eri disteso supino con le braccia larghe,come a voler sostenere un sogno.
Sotto il tuo capo si allargava una macchia rossa, immensa, brutale, minacciosa, ultima.
Corsi da te, mi chinai per cercare i denti che ti erano schizzati via.
Mi prostrai al tuo volere. Improvvisamente dalla bocca spalancata sgorgò il sangue della tua passione.
La disperazione mi trapassò il cervello. Mi sembrò di impazzire.
Chiamai la vita che già fuggiva via.
Tenni tra le braccia il tuo povero corpo che fremeva negli spasimi dell'agonia. Poi abbandonasti la testa massacrata sulle mie mani inermi. Dai tuoi occhi verdi si liberò un fiume di lacrime.
Sento ancora lo stesso immenso dolore devastare il mio essere.
Il pacco è troppo pesante ora.
Lo appoggio qui.
Quanti anni sono passati? Dieci o venti?
Non osai confessare a nessuno il tradimento nascosto negli anni della mia adolescenza.
Mio padre tacque il sospetto. Distrattamente mi accompagnò fino alle soglie di un nuovo futuro avvolto dalle nebbie di una città sconosciuta. Mi salutò frettolosamente, prima che lo sgomento devastasse la sua tranquilla omertà.
Poi si ritirò in una vecchiaia pietosa fino al giorno di marzo dei suoi ottantanove anni in cui la morte lo abbracciò serenamente nel sonno pomeridiano per riunirlo a mia madre.
Passò il tempo e pose un velo sul mio dolore.
Mi rifugiai nella leggerezza, bramando il silenzio dell'anima.
Ogni notte, graffiato dagli artigli del pentimento, vedevo aggirarsi nel buio della solitudine il fantasma insonne del tuo amore e piangevo, come un bambino spaventato, nel sonno. Ogni mattinal'inquietudine svaniva e cancellava ogni traccia del passato.
Mi intestardivo a condurre i miei giorni lontano da te, perdendomi tra le stanze di una casa dorata, ingannando l'attesa,forgiando la vita nella fugacità,svilendo il ricordo, nuotando nel mare tranquillo della superficialità, senza sapere che la bellezza del tuo amore non si sarebbe ripetuta mai più nei miei occhi vitrei.
Rimpiango di non averti mai detto quanto ti amavo.
Mi guardo intorno.
Si riesce a cogliere la fine dell'estate dal silenzio in cui giace la collina, pronta a privarsi dei colori, dei profumi e degli ospiti invisibili della sua vegetazione.
Mi spoglio. Sono nudo. Ti chiamo. Spalanchi le tue lunghissime ciglia su di me. Ora i tuoi occhi verdi, prosciugati dal dolore, tornano a sorridere. I corvi non percepiscono la mia morte. Sono già morto. Ma tu sei di nuovo la vita dell'amore.
«Quando Giuda, il traditore, vide che Gesù era stato condannato, ebbe rimorso...
Allora Giuda buttò le monete nel tempio e andò a impiccarsi...».

Paola Gamberoni


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 Ins. 17-09-2008