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- L'Appuntamento
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- Di tutto l'ultimo inverno mi ricordo ancora
di quella sera...
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- Avevo sistemato alla meglio la cucina.
Ripiegato il tovagliolo, lavato i due piatti, il
bicchiere e la pentolina.
- Dopo aver dato un'ultima occhiata alla
Titta, che dormiva tranquilla sulla poltrona, avevo
preso il vecchio cappotto ed ero uscito di
casa.
- Quella di andar fuori dopo pranzo,
più che un'abitudine, era diventata
un'effettiva necessità. Un'esigenza
vitale.
- Stare in casa mi deprimeva. Favoriva il
vizio che avevo preso di isolarmi dalla
realtà, di chiudermi in me stesso; per
sprofondare, girovagare e perdermi nel labirinto
sempre più intricato del mio "io". Dove
molto spesso, i quesiti rimanevano senza risposta e
i ricordi si facevano a volte sbiaditi e
confusi.
- "Il Professore", mi chiamavano ancora nel
condominio, anche se ormai da tanti anni non
insegnavo più. Eppure, come mi mancavano gli
alunni, la scuola...
- "Ti devi rassegnare." Diceva sempre la mia
cara Lidia. "Ora sei in pensione trovati qualche
cosa da fare."
- E cosa per esempio? Ormai avevo ottant'anni
e un cuore vecchio e malato. Era stupido illudersi
e fare il "giovanotto".
- Forse però, pensandoci meglio,
qualcosa l'avrei ancora potuta fare. Ma sì
dopotutto, perché non... morire,
magari.
- Come aveva fatto lei, del resto, da non
molto. Anzi, a volte ci speravo: "Forse non mi
sveglierò più, forse questa è
l'ultima volta che mi addormento: succede a tanti
di morire nel sonno!" Fantasticavo la
sera.
- Invece al mattino, i rintocchi della pendola
mi svegliavano alle sei, come al solito. Ed era
penosissimo constatare ancora una volta che ero
solo e che Lidia se ne era andata per
sempre.
- Solo nel pomeriggio mi sentivo un pò
meglio, meno triste, meno vecchio... benché
spesso, guardandomi nello specchio dell'ingresso,
così imbacuccato nella sciarpa, col cappello
calato sugli occhi, non potevo fare a meno di
pensare: "Che razza di coglione!" Poi sbattevo la
porta, me ne andavo; uscivo.
- Iniziava così il mio
vagabondaggio-urbano-quotidiano. Tra le strade
lastricate e le piazze, all'ombra dei palazzi
antichi e tra i ruderi; lungo i giardini e le mura
etrusche della mia città: Volterra.
- Il mio vagabondare in ogni modo, pur non
avendo una meta precisa, mi portava sempre,
comunque, ogni volta, nel solito luogo. Nel Parco
del Castello.
- Quel posto era per me come la calamita per
l'ago di una bussola. Anche se nemmeno io ne capivo
la ragione. In ogni modo, dal momento che uscivo di
casa, sapevo che i miei piedi, passo dopo passo, mi
avrebbero portato là. Nel Parco.
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- Già il sole lambiva le colline
all'orizzonte, quando in quella fredda sera
d'inverno, arrivai in prossimità della mia
zona preferita.
- La tramontana soffiava impetuosa, gelida, e
se non fosse stato per la mia testardaggine, forse
avrei fatto un bel "dietrofront" e me ne sarei
andato. Ma, ero stato famoso tutta la vita per il
caratteraccio cocciuto e lunatico; e non avevo
nessuna intenzione di smentirmi proprio alla fine
dei miei giorni. Così mi strinsi nel
cappotto e proseguii fino a raggiungere il punto
del Parco che preferivo: un lembo di prato
racchiuso da una siepe di piccoli lecci. Al centro,
scolorita, una panchina solitaria.
- Il paesaggio era quello di sempre. La
Fortezza, dalle mura color ocra, si ergeva ancora
immutata, imponente, nel cielo cristallino e
risplendeva nella debole luce rosata del tardo
pomeriggio. La città, che si adagiava,
allargandosi intorno al Parco, era tutta una
successione di tetti e torrioni; bastioni,
campanili e macchie di vegetazione.
- Tutto era identico a come l'avevo visto il
giorno prima. Non c'era niente di diverso in quel
paesaggio che ormai conoscevo a memoria. Allora
come mai, provavo uno strato senso d'inquietudine,
una sottile angoscia? In fondo era solo un
banalissimo giorno di un banalissimo mese.
- Mi sedetti sulla vecchia panchina. Proprio
dinanzi a me, all'orizzonte, il fenomeno che sempre
mi commuoveva stata per avere il suo epilogo.
Ancora una volta, il maestoso globo rosso era
prossimo a svanire tra le morbide colline toscane.
Un altro giorno stava per compiersi, per
concludersi. Di nuovo, un altro breve periodo di
luce era alla fine. E presto il denso manto viola
del crepuscolo avrebbe offuscato ogni
cosa.
- Totalmente immerso nei miei pensieri, non mi
ero accorto della donna seduta accanto a me, sulla
panchina. Che ci facesse, non lo so. In ogni caso
la cosa non mi piacque affatto. Quello lo
consideravo il "mio" territorio, il "mio" spazio
privato, in cui amavo stare in solitudine e di
intrusi non ne volevo. Su questo ero
categorico.
- Non so come si fosse trovata lì. Di
certo non l'avevo vista arrivare. Forse,
ripensandoci devo aver udito solo un leggero
fruscio; quello si, ma null'altro.
- Innervosito, le detti una sbirciatina di
traverso: sembrava giovane, anche se non vedevo
bene il suo viso, in parte celato da una maschera.
Notai anche, che indossava un abito lungo, scuro;
ed i capelli erano nascosti da una strana parrucca
stile antico. Quel suo bizzarro abbigliamento
però, non mi stupì; sapevo che quello
doveva essere l'ultimo giorno del Carnevale.
Difatti, dalla Piazza vicina arrivavano musica e un
gran baccano.
- Se ne stette per un bel po' lì,
immobile. Seduta al mio fianco senza dire una
parola. Mentre rimurginavo fra me e me, sempre
più incollerito: "Io, questa non la conosco.
Cosa sta a fare qui?, accanto a un vecchio; che se
ne vada là in Piazza, con gli altri, a
divertirsi; a far baldoria, a festeggiare la fine
del Carnevale. Altrimenti a che le serve la
maschera?"
- Stavo ancora elaborando questo mio pensiero,
quando inaspettatamente, sentii la sua mano
appoggiarsi sulla mia spalla.
- "Ah!, allora ho capito, pensai. Questa vuole
solo provocarmi, ormai è evidente. Ma certo,
le ragazze d'oggi hanno provato di tutto; tante di
quelle esperienze, che sono sempre alla ricerca di
qualcosa di nuovo, d'insolito. Perché no,
allora. Perché non provarci con il
vecchietto? Ma non aveva fatto una buona scelta. Di
sicuro non mi sarei fatto schernire da
lei."
- Mi girai per mandarla a quel paese, ma la
sua espressione mi ammutolì; perché
ravvisai in quegli occhi, stretti a fessura, freddi
e vacui. Infossati nelle palpebre grinzose, lo
sguardo truce e beffardo di colei che a volte avevo
invocato. Non so come lo capii. Fu un impulso
penso, l'intuizione di un attimo... quella donna, o
quell'essere, o quella cosa, per meglio dire, non
si trovava lì per caso. Aspettava
me!
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- Ma sì, dopotutto era quello che
desideravo; smettere di lottare con la vita ogni
giorno, abbandonarmi, addormentarmi: morire. In
quel momento estremo, quasi mistico, provai
fisicamente tutta la sensazione del mio disagio,
della solitudine... della vecchiaia. E quando essa
cinse, con un braccio le mie spalle, fu quasi
naturale per me rilassarmi: lasciarmi andare.
Appoggiare la testa contro il suo petto. Del resto
ormai ero solo una vecchio... un vinto.
- E poi, a conti fatti, avevo vissuto la mia
vita, che non era stata poi tanto male. Gli ultimi
anni avevo sofferto; è vero, specialmente
dopo che Lidia mi aveva abbandonato; ma nonostante
tutto, anch'io avevo avuto delle
opportunità. Anche a me era stato concesso
un lungo periodo di luce.
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- Stavo cedendo, ed essa lo intuì e
strinse con più forza il mio corpo. La
guardai: il suo volto era distorto in un ghigno
trionfante. Come sempre stava vincendo: anche quel
giorno avrebbe avuto, ancora una volta, e senza
fatica, il suo tetro bottino. Ma il cielo davanti a
noi sfolgorava di arancio, rosso e viola:
un'esplosione incredibile di energia, luce e
colore.
- Su di me, quello spettacolo suggestivo, ebbe
come l'effetto di un balsamo, che mi pervase e
rianimò: "No! Non potevo... non volevo
morire. Non ancora."
- Liberandomi a fatica da quel viscido
abbraccio, mi alzai. E m'incamminai incerto
giù, lungo il sentiero che portava in
città. Lei però non si arrendeva, mi
stava dietro; sentivo il frusciare del suo abito
tra l'erba. Vicinissimo a me.
- Accelerai per quanto potevo il passo,
addirittura provai a correre, incurante del dolore
alle gambe. Finché arrivai all'uscita del
Parco. Lì, sfinito e col cuore in tumulto,
mi fermai a riprendere fiato.
- Scrutai tra gli alberi e i cespugli, ormai
neri nel crepuscolo, ma non la vidi. Non la vidi
mai più.
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- Dietro al Palazzo del Comune sorgeva la luna
piena e risplendeva luminosa nel cielo limpido.
Attraversai la Piazza dei Priori; era deserta. Il
Carnevale era finito. Solo un pallido Pierrot mi
venne incontro, abbozzò un goffo inchino e
poi scomparve nell'ombra di un vicolo.
- Il vento del Nord si era un poco placato,
respirai profondamente, godendo dell'aria fresca
della sera; abbottonai il cappotto e decisi di
andare a casa.
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