Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Noemi Beretta
Con questo racconto ha vinto il dodicesimo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2004, sezione narrativa

IL ROSSETTO ROSSO SANGUE
 
Jack le faceva sempre dei regali stravaganti, ma questa volta si era superato: la mattina alle 9.00 precise si era presentato nel suo ufficio con un pacchetto incartato malissimo in una improbabile plastica blu a fiori gialli che aveva deposto con molta attenzione sulla scrivania. Con aria compunta mentre gli occhi ridevano aveva detto:
- Melanie, questo l'ho portato per te da Haiti: è un feticcio woodoo molto potente. La mama che me l'ha venduto dice che risolverà tutti i problemi della donna a cui apparterrà.
E aveva raccontato con il suo solito entusiasmo per le sciocchezze quello che aveva tutta l'aria di essere stato un rito per turisti sprovveduti, al termine del quale naturalmente ognuno aveva potuto acquistare un talismano carico di forze ancestrali o qualcosa del genere per vivere meglio.
Era tanto caro Jack: un cucciolone troppo cresciuto che le voleva bene come ad una specie di mamma orsa da accudire e da cui essere accudito.
Erano poi arrivati altri pacchetti da colleghi amici: il giorno dopo, sabato, avrebbe compiuto 30 anni; lavorava alla casa editrice Stafford ormai da quattro anni ed era rispettata e benvoluta da molti.
Uscì alle 16.00, prima del solito: era tesa, per tutto il giorno aveva inciampato dappertutto, aveva fatto cadere oggetti, muovendosi aveva urtato mobili che erano lì da sempre. Le accadeva sempre più spesso ultimamente; era come se il suo corpo le dicesse che qualcosa non andava, ma lei non capiva, coglieva i segnali ma non riusciva ad interpretarli.
Respirò lentamente e si guardò intorno. Chicago era molto bella in dicembre, soprattutto la zona del centro in cui aveva la fortuna di lavorare: il freddo era ancora sopportabile, la neve era arrivata abbondante e gli scoiattoli facevano le ultime scorte prima del sonno forzato. Decise di non andare subito a casa, tanto non c'era nessuno ad aspettarla: Philip era dovuto andare a Seattle due giorni prima per lavoro e sarebbe tornato solo martedì. Le cose non si stavano mettendo molto bene: la società informatica presso la quale lavorava era sull'orlo del fallimento e non era certo il momento più felice per trovare un nuovo impiego.
Si diresse verso la profumeria Whiterose, la più bella della zona, che era proprio lì vicino: perché non festeggiare un compleanno così importante con un acquisto frivolo e costoso? Non aveva mai dato la minima importanza ai prodotti di bellezza, proprio come sua madre, ma forse era venuto il momento di cominciare, di prendere più contatto con questo suo corpo che sfuggiva sempre più al suo controllo.
Entrò e comprò d'istinto, senza pensarci due volte, semplicemente un rossetto rosso sangue. Quando fu di nuovo in strada si chiese perché diavolo (non riusciva ad usare termini più pesanti nemmeno con se stessa) avesse acquistato una cosa che non avrebbe mai usato: troppo volgare, avrebbe detto sua madre. Certo il rosso scuro era in generale il suo colore preferito, il colore della passione repressa: lei era una passionale, ma pochi se ne accorgevano.
Pensò di andare al parco e sedersi un po' in pace a meditare. A casa avrebbe dovuto per forza parlare al telefono con sua madre; l'aveva già chiamata due volte in ufficio, ma lei si era fatta negare: sapeva che la depressione si acuiva in occasione delle ricorrenze familiari e quel giorno non si sentiva proprio di fare l'angelo consolatore.
Mentre si sedeva sulla panchina, le caddero di mano i sacchetti con i regali, tutti tranne quello di Jack: questo problema stava diventando veramente fastidioso, bisognava venirne a capo. Quando era cominciato? Non ricordava esattamente, ma andando indietro nel tempo riuscì a vedere nitidamente un periodo della sua vita in cui si muoveva con sicurezza e fluidità.
Aveva 11 anni, era estate e si trovava a Newport. Passavano sempre le loro vacanze a Newport, chissà perché: era la spiaggia di New York, non di Chicago. Ma sua madre aveva deciso che era l'unico posto accettabilmente chic di loro conoscenza e suo padre naturalmente non aveva fatto obiezioni. Lì aveva conosciuto Roland, il suo primo vero amore. Con lui aveva provato, appena adolescente, una passione soffocante, bruciante, non più ritrovata da adulta. Roland aveva 14 anni allora. Non avevano mai fatto l'amore, ma ci erano andati molto vicini e la notte Melanie non riusciva a dormire: si sentiva il cuore stretto e gli occhi brillanti. Erano amanti consumati senza avere esperienza: sapevano come capirsi, ferirsi e rendere felice l'altro compiutamente, con una sicurezza che lei non aveva più conosciuto in seguito.
Non ne poteva parlare con nessuno, le amiche erano troppo bambine per ricevere confidenze del genere, del resto difficili da esprimere in modo chiaro: erano sensazioni fortissime ma elusive.
Proprio in quel periodo erano cominciate anche le prime conversazioni intime con sua madre. Dopo pranzo, si sedevano da sole in terrazza all'ombra e si confidavano, mentre Melanie imparava a ricamare: voleva tanto diventare brava come lei, che tutti ritenevano insuperabile in quest'arte difficile e ricercata. Non ricordava le parole precise, ma risentiva il tono benevolo, complice che sua madre usava così di rado e che bisognava cogliere con attenzione amorevole appunto perché era insolito. Le aveva fatto capire con delicata ironia che il suo comportamento con Roland era sconveniente, da donnicciola e poteva essere giudicato addirittura volgare. Nel loro codice privato ma assoluto, la volgarità era il vero peccato, ben più grave dell'immoralità: era molto peggio abbinare colori sbagliati o ridere sguaiatamente che uccidere qualcuno per un motivo ritenuto giusto. Del resto gli uomini erano rozzi e alla fine miravano ad una cosa sola, che alle donne interessava poco; quindi era elegante farsi amare e mercanteggiare con cura questo bene che a loro sembrava così prezioso per ottenere più vantaggi possibile, poi abbandonarli alla loro sofferenza: se l'erano meritato in fondo. Le aveva raccontato tanti aneddoti in proposito e avevano riso insieme alle spalle dei malcapitati.
Sull'onda delle confidenze, le parlava anche della nonna: a Melanie piaceva molto, era una donna non comune, rigida e aristocratica, ma capace di improvvisi momenti di folle allegria che l'affascinavano. Sua madre invece non la sopportava, diceva che l'aveva oppressa per tutta la vita in tanti modi; eppure, pensava Melanie, non riusciva a stare a lungo senza parlare di lei nel bene o nel male, senza litigare e fare pace, senza portarla a modello o disprezzarla.
L'amore con Roland era continuato, pur se meno intenso, per due estati ancora, poi avevano continuato a frequentarsi per altri 4 anni e alla fine si erano lasciati perché la magia non si ripeteva più, qualcosa si era spezzato. Da allora i suoi amori erano stati una serie di fraintendimenti: non ci si capiva, si interpretavano male i segnali inviati dall'altro, si viaggiava a velocità diverse, si rimaneva distanti. Era come se lei tentasse sempre di mettersi in una posizione di superiorità; quando ci riusciva la cosa non la interessava più, quando non ci riusciva sbagliava tutto.
Si guardò intorno. Si era fatto buio, ma il parco era ben illuminato. Si accorse all'improvviso che sulla panchina di fronte stava ora seduto un uomo che la guardava. Doveva essere buffa, nel suo cappotto lungo blu, i guanti gialli, a capo scoperto nonostante il freddo, circondata da sacchetti multicolori e con lo sguardo fisso da molti minuti su una insignificante betulla!
Soppesò in pochi istanti il suo dirimpettaio di panchina: 35 anni, alto, capelli lunghi curati, disinvoltamente elegante, maschio ma di classe; non in cerca di avventure (non sopportava il genere), solo curioso. Poteva essere intrigante, ma quel giorno non ne aveva proprio voglia. Lo fissò con il suo migliore sguardo sprezzante, lui guardò altrove, lei si alzò e si avviò alla fermata del metro.
Le capitava spesso: incontrava un uomo nelle circostanze più disparate e scattava in lei un bisogno inconsapevole di dispiegare tutto il suo fascino. Riusciva ad essere tanto più brillante quanto meno le interessava la persona in questione. Lo faceva anche solo per arricchire la sua collezione di un pezzo insolito o come sfida con se stessa in una mission impossible. E se si metteva d'impegno non falliva mai. La parte veramente divertente del gioco era come uscirne: cercava di inventarsi sempre modi diversi, modificando le strategie a seconda dell'avversario che si trovava di fronte. Quando era l'altro a convincersi di averla lasciata e lei faceva la parte della vittima, si sentiva trionfante. Giocare al gatto e al topo le piaceva molto e lei amava e capiva benissimo i gatti.
Se qualcuno le scompigliava il gioco con mosse strane, si infuriava ed era capace di fare davvero male. Giusto un anno prima Mr Stafford le aveva dato finalmente l'aiuto che gli chiedeva da tanto tempo. Un giorno era arrivato in ufficio raggiante e le aveva detto:
- Ho trovato la persona che fa per te: è giovane, in gamba e soprattutto ha molta voglia di imparare. Fallo lavorare un po' e poi dimmi cosa te ne pare: se funziona potremmo anche mandarlo a Little Rock a impiantare la nuova sede.
Così aveva conosciuto Mark, 20 anni, spalle larghe e sorriso disarmante. Effettivamente era inesperto ma imparava in fretta. Melanie aveva deciso che poteva anche essere l'allievo giusto a cui insegnare cos'è la vera passione d'amore: c'era qualcosa nel suo atteggiamento quando la guardava dritto negli occhi che sembrava una via di mezzo tra la sicurezza del conquistatore nato e la verginità del neofita. Le cose procedevano bene, quando un pomeriggio lui le disse che doveva assolutamente parlarle prima di uscire. Lei si predispose ad ascoltarlo immaginando con voluttà le successive contromosse; allora Mark le confessò con aria sognante che grazie a lei aveva capito che cos'era veramente l'amore e ora si era innamorato perdutamente di una ragazza che aveva conosciuto da poco e con la quale stava vivendo un'intensissima passione! Melanie decise all'istante di vendicarsi fino in fondo: stese un rapporto molto negativo su Mark e gli suggerì le risposte più sbagliate da dare al direttore dell'Ufficio del Personale nel colloquio decisivo per la sua assunzione. Naturalmente fu allontanato subito e anche le successive richieste di referenze da parte di altre case editrici ricevettero risposte scoraggianti. Aveva avuto solo quello che si meritava, non si pentiva affatto del suo comportamento, nemmeno a distanza di un anno.
Si fermò ad ammirare di nuovo Chicago: di sera era perfino meglio che alla luce del giorno. Era illuminata in modo vivace e cordiale, c'era tanta gente in giro che non andava di corsa verso casa dopo essere uscita dagli uffici, ma incontrava amici e si preparava alla serata; si sentiva la vita scorrere sopra e sotto la neve. Aveva sempre pensato che, proprio per via del clima infame e dei ritmi di lavoro più intensi qui che in altre parti degli States, gli abitanti di Chicago sentivano un bisogno di calore umano, di allegria e di bellezza che si manifestava in tanti modi: c'erano parchi e fiori dappertutto in estate; ottimi ristoranti e cabaret di razza, e soprattutto era la patria del blues! Melanie aveva ascoltato blues in tanti posti, anche a New Orleans, ma a Chicago era diverso: sembrava che qui l'anima dei neri, immigrati a forza tanto tempo prima, avesse deciso di dare il meglio di sé per reagire alle condizioni avverse e non dimenticare. Il blues le prendeva le viscere, si rendeva conto che lì c'era l'essenza della vita e non serviva nient'altro per capire il mondo. Ecco l'idea giusta per festeggiare quel benedetto anno in più: andare con Annie alla House of Blues! Ma bisognava prima affrontare la mamma, che avrebbe preteso come sempre, come se fosse un diritto, un'intera giornata di dedizione reciproca; oltretutto odiava il blues, diceva che era una musica da selvaggi.
Melanie si sorprese a battere furiosamente i piedi per terra nel breve spazio d'ombra tra due lampioni. Sua madre, sua madre, sua madre! Perché doveva sempre trovarla in mezzo quando esprimeva un'opinione, quando faceva un progetto, quando pensava a qualcuno? Si accorse che era sempre stato così, che non erano mai state due persone realmente distinte e il condizionamento era stato talmente pesante da impedirle di rendersene conto. La vide per la prima volta com'era, come l'avrebbe vista un estraneo: una donna di 62 anni invecchiata male per via della depressione, grassa (mangiava in continuazione), fumatrice accanita e in fondo ignorante: questo sì era un grave peccato, ma solamente per Melanie, che aveva studiato alla Columbia di New York e non sopportava chi non sentiva la vera cultura come parte necessaria della propria vita. Guardò i suoi pacchetti e sentì un moto di irrefrenabile allegria: ma sì, evviva il blues, evviva il rossetto rosso sangue, evviva il feticcio woodoo che adesso non vedeva l'ora di scartare! Lo avrebbe messo vicino alla maschera indiana di Philip e alla lancia maori che le aveva portato Freddy dalla Polinesia, avrebbe girato il mondo per comprare una quantità di oggetti assurdi ma divertenti: basta guardare al passato, bisognava essere ottimisti e pratici, c'era il lavoro, c'era Philip, eccetera eccetera.
Scese di corsa le scale della fermata del metro, prese al volo il treno e si sedette con calma, lontana da altri passeggeri. I due giganteschi poliziotti neri di pattuglia la guardavano benevoli e sembravano dirle: "Non si preoccupi Miss, pensi tranquillamente alle sue cose, ci siamo qui noi". Già, Philip. Erano insieme da cinque anni. Dopo Roland era l'unico uomo che avesse amato: dagli altri si faceva amare e basta; in ogni caso il suo orgoglio non le permetteva di farsi coinvolgere se non aveva in partenza la certezza di essere adorata, e questo non era amore, lo sapeva, era solo un scambio di favori da misurare con attenzione per non subire perdite. Il legame con Philip era solido e rassicurante: lei gli si aggrappava nei momenti di disperazione e lui le tendeva sempre la mano, semplicemente, senza chiedere contropartita; senza di lui si sarebbe sentita completamente perduta. Eppure non le bastava, doveva sempre avere qualcuno sottomano da dominare, con cui giocare in modo crudele.
Arrivò a casa senza rendersene conto. Aprì la porta e vide subito la luce rossa della segreteria telefonica che lampeggiava: sua madre l'aveva cercata chissà quante volte. Il senso del dovere si fece avanti imperioso: ascoltò i messaggi. Il contenuto lo conosceva a memoria: la solitudine, le mille ansie quotidiane, le colpe della figlia. La colpì per la prima volta, quasi con ripugnanza, il tono di voce aldilà delle parole: a quella nenia angosciata non c'era rimedio, non serviva il suo tono rassicurante, non serviva ragionare con pacato ottimismo sui fatti, non serviva vedersi sempre o non vedersi affatto. C'era dentro il fallimento di una vita, consapevole di essere senza speranza, che cercava solo di scaricare sugli altri il proprio dolore per soffrire meno. Melanie non ne poteva più di sforzi inutili, di sentirsi risucchiare la vita senza scopo. Forse sua madre non voleva guarire, forse voleva solo tenerla stretta e trascinarla nel suo baratro. Ricordava bene quando era comparsa la depressione: esattamente quando lei era andata a vivere con Philip e si era lasciata alle spalle la bella casa con giardino di Evanston per un piccolo appartamento nel centro di Chicago, in mezzo al traffico e al rumore; aveva bisogno di sapere che intorno c'era tanta gente viva, che le teneva compagnia senza saperlo quando la solitudine prendeva quel terribile sapore amaro.
Chiuse un attimo gli occhi, emise un gemito di impotenza poi si gettò disperatamente ad aprire i suoi regali, prima di tutti quello di Jack: era una statuetta di legno scuro piuttosto rozza, alta circa 30 cm., che rappresentava un guerriero completamente nudo, accovacciato con le ginocchia divaricate; teneva una lancia nella mano sinistra e un coltello nella destra. Il viso appariva singolare: era coperto di strisce rosse, forse simboli di guerra, in mezzo alle quali spiccavano due occhi di vetro colorato intensissimi, che la colpirono profondamente. Sia pure con le debite proporzioni, le ricordavano gli occhi del famoso scriba che aveva visto due anni prima al museo egizio del Cairo. Aveva accompagnato Philip in un viaggio di lavoro ed era rimasta incantata da tutto quanto, ma in modo particolare da quello sguardo che nemmeno gli stessi Egizi erano più riusciti a riprodurre in seguito; per lei rappresentava l'essenza dell'arte: creato dall'uomo ma più vero del vero, era la somma di tutti gli sguardi, ti attraversava e ti costringeva a dargli una risposta adeguata. Cosa le diceva ora il guerriero e soprattutto che risposta chiedeva? Melanie avvertì un senso di pericolo, distolse lo sguardo e si concentrò sugli altri pacchetti.
All'improvviso suonò il campanello: Melanie andò ad aprire e si trovò davanti con piacere Mrs. Dawson, la sua vicina di casa, una vecchia signora adorabile che lei considerava una specie di angelo custode: viveva da sola ma c'era sempre allegria nei suoi occhi pervinca; sembrava indovinare i pensieri e calmare le ansie di tutti. Aveva in mano un mazzo di rose gialle e una scatolina che Philip le aveva affidato prima di partire, pregandola di consegnargliele proprio quella sera. Melanie ringraziò con gioia e non insistette quando Mrs Dawson rifiutò di entrare dopo averle fatto gli auguri con la sua voce bassa e dolce che sapeva di vita dura ma attraversata con passione.
Le rose gialle se le aspettava: erano le sue preferite e Philip non gliele faceva mancare mai, in tutte le ricorrenze. Ma la scatolina, consegnata in quel modo poi, era una novità. Adorava le sorprese di qualsiasi genere, come una bimba. L'aprì e rimase senza fiato: c'era un anello con un brillante straordinario, un solitario di almeno un carato. Troppo bello, troppo costoso per la loro situazione economica, troppo al disopra di ogni sua aspettativa. Questo era Philip! Non gli interessavano i soldi e tutto il resto, la sola cosa che contava per lui era vedere, o immaginare in questo caso, un'espressione davvero felice sul viso della sua donna. Sapeva che quella sera sarebbe stata sola e disperata, lui capiva tutto anche senza spiegazioni perché l'amava veramente, e aveva scelto proprio quel momento per darle forza e calore. Lesse il biglietto che spuntava dal mazzo di rose. Diceva: "Un gioiello speciale per l'unica passione della mia vita: tu." Si dichiarava e basta, non pretendeva niente da lei, intuiva che lei non poteva essere di un uomo solo ma non gli importava. Melanie andò vicino alla finestra, guardò fuori e si mise a piangere, non per solitudine o per un'emozione contingente: era come se una parte compressa della sua anima avesse trovato finalmente la strada per uscire. Non si trattenne come al solito, ma si lasciò andare ai singhiozzi che la scuotevano tutta.
Si preparò un bagno caldo e vi rimase finché l'acqua non si fu raffreddata, con gli occhi chiusi senza far nulla, senza pensare.
Tornò a guardare il guerriero: i suoi occhi erano ancora più brillanti e non facevano più paura. Melanie poteva sostenere quello sguardo perforante e cominciava a trovare una risposta. Ora si muoveva sicura e agile, non inciampava, non urtava nulla perfino chiudendo gli occhi.
Era notte ormai. Si distese sul letto completamente nuda, come non le accadeva mai. Pensò a Roland, a Philip e a tutta la sua vita e piano piano sentì nascere un orgasmo lungo e dolcissimo che dalla vagina si diffondeva in tutto il corpo e anche oltre, fino ad abbracciare la stanza e i suoi pensieri. Non era un orgasmo voluto a tutti i costi e conquistato come una preda di guerra; non era breve, controllato dal cervello e subito dimenticato come le accadeva spesso. Tutto ora aveva un senso preciso, un significato chiaro, tutto rientrava o veniva respinto dalla grande armonia che le era penetrata nell'anima.
Suonò il telefono. Melanie andò a rispondere con lucida lentezza. La solita, insopportabile voce implorante disse:
- Finalmente ti trovo Mely! (odiava quel diminutivo con cui la chiamava sempre sua madre per ricordarle l'infanzia, quando non riusciva ancora a pronunciare bene il suo nome). Perché non mi hai chiamato? Beh, non importa: vengo da te domani alle nove così potremo stare insieme tutto il giorno una volta tanto e parlare delle nostre cose. Ne ho tanto bisogno, sai?
Melanie rispose con calma, lasciando cadere la parole una ad una:
- Mamma, domani vorrei festeggiare il mio compleanno con Annie, giusto per fare qualcosa di diverso. Noi potremmo vederci un'altra volta, no?
Dopo un lungo silenzio, la voce, divenuta improvvisamente sicura, disse con sarcasmo implacabile:
- Ma cara, lo sai che non si possono interrompere le tradizioni di famiglia: il tuo compleanno lo devi festeggiare con me.
Melanie abbassò il ricevitore e tornò a letto. Era arrivato il momento. Ciò che aspettava nelle sue giornate riempite a forza di azioni indispensabili, ciò che sapeva da sempre, si stava per compiere. Dormì tranquillamente fino al mattino, come le succedeva ormai di rado.
Si alzò, andò in bagno, prese in mano il rossetto rosso sangue e si guardò allo specchio.
Pochi minuti dopo era davanti alla porta d'ingresso, nuda, accovacciata con le ginocchia divaricate; batteva ritmicamente sul pavimento la lancia maori che teneva con la mano sinistra; nella destra aveva un coltello da cucina. Il viso era coperto da strisce rosso sangue. Aspettava sua madre.

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 Ins. 13-12-2004