| 
                Pasticcio nevrotico Le sette antimeridiane ci sorpresero soli ed
               inutilmente trafelati di fronte all'ingresso, ma non
               riuscii a sentire la beatitudine del silenzio
               circostante perché l'ansito turava le mie
               orecchie e appena oltre il meraviglioso effimero,
               umbratili cineree figure, nello stesso modo in cui
               nuvole passeggere nascondono il sole per svelarlo poco
               dopo, già obliteravano il viale ambrato da
               eleganti lampioni ancora accesi.Nell'attesa che il vitreo cerbero dell'orario
               d'apertura si scostasse sboccarono tutte sul pallido
               impiantito di marmo chiazzandolo con piccoli
               capannelli sempre ben distinti. Infatti, nonostante la
               crescente densità favoriva sempre più le
               migliori intenzioni, l'apatia serpeggiava tra noi
               nell'aria e la respirammo inavvertitamente
               finché l'intransigente canide ricevette il
               comando e allora venni a sapere dov'era finito
               l'affanno provato al mio arrivo.Morì e si decompose negli afflati della
               sbuffante fiumana ormai incalzante.Un fardello che mi toccò caricare sulle
               spalle fino all'epilogo dell'iniziazione per la mia
               degenza, avrei volentieri barattato con una qualsiasi
               scimmia alcaloide.Seguii mia madre verso l'accettazione,
               saggiamente l'aveva scoperta alcuni giorni prima,
               mentre la marmaglia vacillò verso l'ufficio
               informazioni attratta dal balenio opalescente di due
               sorelline dietro un bancone.Sviammo subito a sinistra, imboccando un
               corridoio con un soffitto vitreo ed arcuato come
               quelli che si trovano nelle serre. Avrà avuto
               una decina d'affluenti.C'immettemmo nella vacuità di uno di
               quelli sulla nostra destra, consentiva l'accesso a
               diversi ambulatori, e tosto un nevrotico barbaglio
               m'accecò l'attigua realtà mostrandomi le
               sembianze che essa avrebbe indossato tra meno di
               un'ora.Un corridoio tutto pittato sui fianchi di
               riverberi umani solo per gli odori d'angoscia e
               d'attesa mi ghiacciò con un brivido metallico
               lungo la schiena ed impotente scivolai al suo epilogo,
               dove la voce materna mi disgelò a darmi una
               mossa. Così la raggiunsi ancora intirizzito a
               manca.Ci trovammo fermi davanti ad una porta, che lei
               cercò invano di aprire."È chiusa!". Esclamò guardandomi.
               "Si vede che non è arrivato ancora nessuno...
               strano però"."Può darsi". Mi limitai a rispondere,
               interloquendo con la sua meraviglia. Ero stanco, come
               sempre a quell'ora di mattina, ed accettai la sua
               constatazione senza verificarne fisicamente la
               veridicità. Non m'interessava.A dirla tutta cominciai a stiracchiarmi davanti
               a quella porta con il maniglione anti-panico, priva di
               lucchetto e di un valido motivo per essere chiusa e
               proprio sul più bello, completamente immerso in
               quella fugace fragilissima soave sensazione di
               rilassamento... vicino, sempre più vicino,
               sentii echeggiare isterici passi di tocco
               muliebre.Consapevole di ciò che stava avvenendo
               cercai d'ignorare i risoluti emissari del fardello
               scaricato alla prima esitazione del gruppo, facendo
               danzare lo sguardo nel ballatoio al di là del
               vitreo ostacolo, ma improvvisamente come il "Tac" del
               tasto "Stop" dello stereo, che si alza alla fine del
               nastro. Sai del suo imminente arrivo e tuttavia quasi
               sempre ti sorprende a sobbalzare. Così una
               voce... avete presente quelle voci sostenute da
               respiri simili a quelli di quando sei in coda, magari
               all'ufficio postale, in un giorno di canicola, i quali
               ti si appiccicano al collo dandoti quella schifosa
               impressione che il tizio dietro stia agognando
               impellente una leccatina al tuo lobo?"Mi scusi, penso debba spingere con un po' di
               forza verso il basso... sa questo tipo di porte si
               apre così".Una voce pacata, prudente, imbarazzata... ma
               che dico mai!Un sibilo di schiumoso verdaccio. Un greve
               scaracchio calato nella bonaccia della mia intima
               pigrizia m'alterò la coscienza come un viaggio
               sintetico.Così vidi una vecchia rognosa bruciare
               nelle rutilanti efelidi sul viso di mia madre e poi
               quando ebbi varcato la soglia, ripreso a deambulare
               braccato dall'organico ricomposto, rimasi basito
               astante di altre grottesche visioni.Vidi una vibrante punta di trapano incapace di
               accendersi una sigaretta forare il limite della sua
               blasfemia; un martello pneumatico saltellare agognante
               l'uso del bagno occupato da un dischetto 1.44 M, che
               aveva appena cominciato a formattarsi nel suo 286; un
               cachinno di iene scattare all'epilogo del ticchettio
               di una verga orchestrale. Mi lambirono tutti quanti in
               fuga verso la tana della mia incomprensione questi
               fantasmi di mescalina e poi mi lasciarono all'origine
               della loro ridda motteggiante il mio sentirmi
               asfissiato da quel dannato tacchettio finché
               accanto al mio lobo sinistro la responsabile
               bisbigliò la sua premura: "Bisogna correre di
               più ragazzo, c'è fretta, orari da
               rispettare. La prego caro corra!". La spinta
               necessaria per raggiungere il picco di
               un'allucinazione sintetica non calata. Così
               vacillai nel sorriso ebete di un qualsiasi
               "scellulato" verso i secondi futuri, picchiettanti
               sulla mia faccia, come quando con la testa fuori dal
               finestrino dell'autovettura ti lasci rilassato
               carezzare da una giornata solatia. M'illusi d'essere
               una tremula foglia glauca rinfrescata dalla rugiada
               mattutina, svolazzante in quell'antisettico corridoio
               cilestrino. L'unica naturale preclusione
               all'accelerazione di una brutale squadra, che infine
               batteva il passo di quella stupida bigotta vittima di
               una maligna impasse: "È tutto normale, è
               così che bisogna fare. È tutto normale,
               è così che bisogna fare. È tutto
               normale...". 2 Dopo forse un migliaio di caratteri che non
               ritengo opportuno battere raggiungemmo l'accettazione.
               Non c'era nessuno.Io, mia madre e il branco dietro cercammo
               d'imbastire quella che più poteva assomigliare
               ad una coda ed aspettammo.Nella soporifera attesa non ricordo a cosa
               pensai: alla vecchia, che mi stava ancora appiccicata
               dietro; alla correzione chirurgica, così la
               chiamavano da quelle parti, alla quale ubbidiente
               dovevo soggiacere per eludere l'ingrata ombra della
               sterilità; a qualche ragazza conosciuta in
               passato; a qualcos'altro. Non so a cosa pensai,
               proprio non me lo ricordo.Così, pensando probabilmente a qualcosa
               o forse a niente, l'inane intermezzo s'involò,
               come le brume nei campi la mattina perdono
               integrità sul fare del giorno; forse solo al di
               là della soglia che avemmo poco prima varcato,
               ma la loro dipartita scorda sempre illusioni
               d'argento. Questo, invece, lasciò nella cornice
               dell'infisso un mite disinganno circa della mia
               età e dieci centimetri più alto. Se di
               primo acchito m'avessero richiesto un verso per
               quest'altra umbratile figura d'essere umano, mal
               ispirandomi ad Ermete Trismegisto, mi sarei limitato
               soltanto a dire: "La solita testa di cazzo".Si tolse il giaccone blu e ci sputò
               addosso un grigiastro "buongiorno" senza trovare alcun
               echeggio. Poi si sedette e ci ordinò di fare
               parimenti.Mentre con mia madre eseguivo, pensavo a quale
               sarebbe stato lì il metodo adottato per fare
               rispettare la coda; la quale poco prima testimoniava
               l'ordine d'arrivo; ma più m'avvicinavo alla
               copia di sedie assolata, che, dopo l'ordine impartito
               dal tizio, immediatamente aveva destato la mia
               simpatia più cresceva in me la sensazione di
               averlo preso proprio là.In meno che non si dica, tipico in queste
               occasioni, calò sorniona la foschia dei
               bisbigli soffocati. Pure mia madre si trovò
               presto invischiata, ma non l'ascoltai. La mia
               attenzione, invece, attecchì nella testolina
               occhialuta dietro il banco. Non prima però di
               un impetuoso stropicciamento d'occhi, una
               stiracchiatina alle ossa e una rapida ricerca di
               qualche sbadiglio tardivo; di quelli che si effettuano
               soltanto dopo qualche stimolante movimento della bocca
               aperta. Insomma non prima di un'ottima abluzione
               mentale!Giocherellava con la biro. Avrebbe potuto
               infilarsi un dito nel naso, mangiare mosche e finanche
               masturbarsi che nessun accalorato salottiero se ne
               sarebbe avveduto.Ma io ero lì, lo guatavo incurante di
               qualsiasi etichetta e lo vedevo per quello che
               realmente era; una macchina ancora spenta, un
               palloncino sgonfio. Sembrava tutto floscio sulla
               sedia, come se le ossa prima della vicina incombenza
               avessero lasciato il corpo giusto il tempo per fare
               pipì.Tuttavia mentre il mio sguardo serpeggiava tra
               i bisbigli laceranti della stanza, offendendo
               inutilmente il cadavere di un uomo, d'improvviso
               entrarono due candide vegliarde sorelline.
               Suonò la campanellina d'inizio lezioni e quello
               che accadde subito dopo mi procurò le
               vertigini, la fugace intensa sensazione di precipitare
               da una sedia riposta accanto al baratro di una
               disarmante incredulità.Non ci crederete, già lo so, ma appena i
               due lenzuoli deambulanti girarono dietro al banco, il
               neghittoso, da capo a piedi, fu scosso da un tremito
               elettrico, simile al sintomo di una crisi convulsiva:
               si raddrizzò sulla sedia, schiarì la
               voce ed ordinò di avvicinarci al
               banco.La vecchia irrequieta male seduta nelle
               vicinanze tosto s'ingollò i bisbigli e
               ruttò ai suoi due accoliti di seguirla alacri
               verso il Lazzaro di turno.Penso sia inutile dirvi che la fila che venne a
               formarsi era un po' diversa da quella in origine, ma
               lasciamo perdere. Dalla dentiera di una delle due
               sorelline sortiva automatico: motivo degenza, medico
               curante. Le risposte laconiche avanzavano susseguenti,
               lei scribacchiava un poco e ci direzionava verso
               Lazzaro.La mia fervida immaginazione vedendomi
               lì, automa tra tanti automi, non perse
               l'occasione di motteggiarmi, a suo modo, involandomi
               dalla stanza oltre il soffitto e tutti i piani fuori
               dall'ospedale. Su nel frizzante cielo delle 7.30 di
               quella mattina. Presto mi ritrovai in un'autovettura
               in coda per strappare il biglietto, che avrebbe
               sollevato l'unica preclusione bianco-rossa al mio
               inoltrarmi nel viaggio verso la terra di Savena... San
               Lazzaro di Savena, vicino a Bologna.L'accolito maschio insieme alla pigolante
               vecchia anticipò le risposte che dopo di lui
               avrei dovuto fornire alla suora. Eseguii comunque il
               rito e ritornai a sedere tutto permeato da una funesta
               sensazione e di lì a poco, esaurita la miccia
               umana davanti al banco, il nembo che incupiva il mio
               stato d'animo elargì la procella
               minacciata.Un'infermiera non bella, non brutta, direi "tra
               brutta figa e non c'è male", annettiamo pure,
               però, che il "non c'è male" era nel suo
               caso un albero della cuccagna e lei di una
               caparbietà quasi patetica. Questa qui, insomma,
               invitò gli ammalati di varicocele a
               seguirla.Lascio a voi immaginare da quanti e quali
               elementi poteva essere composta la fragranza della sua
               muliebre scia fino al reparto urologia, su al secondo
               piano. 3 Uscimmo dall'ascensore e ci trovammo in un
               piccolo vestibolo, che ne conteneva altri
               tre.Alla mia destra c'era una finestra dove si
               scorgevano ancora gli scampoli di un'alba appena
               finita.Io ci vidi un ineffabile sorriso molto simile a
               quello di una ragazza che ti voleva provocare. Se non
               avete bene presente la scena, immaginatela descritta
               da uno di quegli stupidi cartoni animati giapponesi:
               lui le risponde accennando una corsa, lei nella
               sequenza successiva ci appare già lontana in
               uno smodato cachinno e poi... poi, se gli butta bene
               finisce che le finisce prono e se la fa.Tuttavia nelle mie vene quella mattina non
               scorreva abbastanza adrenalina per il grande salto.
               Così raggiunsi gli altri a sinistra nel
               crocicchio di due ballatoi con lo sguardo ancora
               moscio per l'aereo cretto respinto e bruscamente mi
               sorpresi ad occhieggiare le mie scarpe. Da sotto le
               suole vidi incedere, nello stesso modo in cui una gora
               di sangue sortisce vischiosa dal cranio ferito
               mortalmente di un cadavere ancora fresco, un'ombra
               amaranto e un angolo piatto sulla mia spina dorsale
               tosto mi presentò a dei rossi barbagli; ma
               nemmeno il tempo di tendere loro la mano e mi
               piombò addosso una scritta cubitale, il pianto
               rutilante di milioni di ebrei imperversò su di
               me: "Se qui entrerete soltanto in un modo potrete
               uscire, dal camino".Un raccapricciante scroscio di mitraglianti
               secchiate d'acqua su un pavimento da pulire, tutti i
               giorni, dagli orrori della guerra mi sbatté
               agghiacciato davanti al campo di Mauthausen, nella
               primavera di Praga di tre anni prima.Non vidi più nessun ballatoio, solo un
               unico labirintico corridoio di morte. Dove
               l'identicità di ogni suo tratto rettilineo
               ingannava, ad ogni sua svolta, l'ebreo arrancante
               verso l'epilogo della sua vita mortificata. (tra me
               pensai) "Schifosa miseria! Forse brancicava allucinato
               la divisa del teutonico boia credendo fosse la sottana
               di Speme, che di quel dedalo nemmeno sapeva
               l'esistenza"."Eccoci arrivati!".Una voce lontana afferrò la mia
               attenzione precipitante nel baratro di pensieri, che
               credevo ormai obliterati dal tempo e nel sopraluce
               della porta di fronte a me apparve nitido ed immobile
               un lemma di nastro adesivo rosso: urologia.Tre, due, uno e nessun botto; ma una suora
               bassa, goffa, pingue ed accecata diede il cambio alla
               mia salvatrice e ci guidò all'interno del
               reparto verso l'epilogo dell'iniziazione per la mia
               degenza. Quasi un'oretta di vita persa ritrovata nella
               mia immaginazione. Un brandello d'anima sottratto alla
               noia; sua paziente divoratrice.  |