Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Mauro Pedrazzoli
Con questo racconto ha vinto il dodicesimo premio del concorso Concorso Letterario Marguerite Yourcenar 2000 sezione narrativa col racconto Pasticcio nevrotico pubblicato qui sotto.
 
Per leggere l'opera 5° classificata al concorso Città di Melegnano 2000 sez. poesia
 
Pasticcio nevrotico
 
Le sette antimeridiane ci sorpresero soli ed inutilmente trafelati di fronte all'ingresso, ma non riuscii a sentire la beatitudine del silenzio circostante perché l'ansito turava le mie orecchie e appena oltre il meraviglioso effimero, umbratili cineree figure, nello stesso modo in cui nuvole passeggere nascondono il sole per svelarlo poco dopo, già obliteravano il viale ambrato da eleganti lampioni ancora accesi.
Nell'attesa che il vitreo cerbero dell'orario d'apertura si scostasse sboccarono tutte sul pallido impiantito di marmo chiazzandolo con piccoli capannelli sempre ben distinti. Infatti, nonostante la crescente densità favoriva sempre più le migliori intenzioni, l'apatia serpeggiava tra noi nell'aria e la respirammo inavvertitamente finché l'intransigente canide ricevette il comando e allora venni a sapere dov'era finito l'affanno provato al mio arrivo.
Morì e si decompose negli afflati della sbuffante fiumana ormai incalzante.
Un fardello che mi toccò caricare sulle spalle fino all'epilogo dell'iniziazione per la mia degenza, avrei volentieri barattato con una qualsiasi scimmia alcaloide.
Seguii mia madre verso l'accettazione, saggiamente l'aveva scoperta alcuni giorni prima, mentre la marmaglia vacillò verso l'ufficio informazioni attratta dal balenio opalescente di due sorelline dietro un bancone.
Sviammo subito a sinistra, imboccando un corridoio con un soffitto vitreo ed arcuato come quelli che si trovano nelle serre. Avrà avuto una decina d'affluenti.
C'immettemmo nella vacuità di uno di quelli sulla nostra destra, consentiva l'accesso a diversi ambulatori, e tosto un nevrotico barbaglio m'accecò l'attigua realtà mostrandomi le sembianze che essa avrebbe indossato tra meno di un'ora.
Un corridoio tutto pittato sui fianchi di riverberi umani solo per gli odori d'angoscia e d'attesa mi ghiacciò con un brivido metallico lungo la schiena ed impotente scivolai al suo epilogo, dove la voce materna mi disgelò a darmi una mossa. Così la raggiunsi ancora intirizzito a manca.
Ci trovammo fermi davanti ad una porta, che lei cercò invano di aprire.
"È chiusa!". Esclamò guardandomi. "Si vede che non è arrivato ancora nessuno... strano però".
"Può darsi". Mi limitai a rispondere, interloquendo con la sua meraviglia. Ero stanco, come sempre a quell'ora di mattina, ed accettai la sua constatazione senza verificarne fisicamente la veridicità. Non m'interessava.
A dirla tutta cominciai a stiracchiarmi davanti a quella porta con il maniglione anti-panico, priva di lucchetto e di un valido motivo per essere chiusa e proprio sul più bello, completamente immerso in quella fugace fragilissima soave sensazione di rilassamento... vicino, sempre più vicino, sentii echeggiare isterici passi di tocco muliebre.
Consapevole di ciò che stava avvenendo cercai d'ignorare i risoluti emissari del fardello scaricato alla prima esitazione del gruppo, facendo danzare lo sguardo nel ballatoio al di là del vitreo ostacolo, ma improvvisamente come il "Tac" del tasto "Stop" dello stereo, che si alza alla fine del nastro. Sai del suo imminente arrivo e tuttavia quasi sempre ti sorprende a sobbalzare. Così una voce... avete presente quelle voci sostenute da respiri simili a quelli di quando sei in coda, magari all'ufficio postale, in un giorno di canicola, i quali ti si appiccicano al collo dandoti quella schifosa impressione che il tizio dietro stia agognando impellente una leccatina al tuo lobo?
"Mi scusi, penso debba spingere con un po' di forza verso il basso... sa questo tipo di porte si apre così".
Una voce pacata, prudente, imbarazzata... ma che dico mai!
Un sibilo di schiumoso verdaccio. Un greve scaracchio calato nella bonaccia della mia intima pigrizia m'alterò la coscienza come un viaggio sintetico.
Così vidi una vecchia rognosa bruciare nelle rutilanti efelidi sul viso di mia madre e poi quando ebbi varcato la soglia, ripreso a deambulare braccato dall'organico ricomposto, rimasi basito astante di altre grottesche visioni.
Vidi una vibrante punta di trapano incapace di accendersi una sigaretta forare il limite della sua blasfemia; un martello pneumatico saltellare agognante l'uso del bagno occupato da un dischetto 1.44 M, che aveva appena cominciato a formattarsi nel suo 286; un cachinno di iene scattare all'epilogo del ticchettio di una verga orchestrale. Mi lambirono tutti quanti in fuga verso la tana della mia incomprensione questi fantasmi di mescalina e poi mi lasciarono all'origine della loro ridda motteggiante il mio sentirmi asfissiato da quel dannato tacchettio finché accanto al mio lobo sinistro la responsabile bisbigliò la sua premura: "Bisogna correre di più ragazzo, c'è fretta, orari da rispettare. La prego caro corra!". La spinta necessaria per raggiungere il picco di un'allucinazione sintetica non calata. Così vacillai nel sorriso ebete di un qualsiasi "scellulato" verso i secondi futuri, picchiettanti sulla mia faccia, come quando con la testa fuori dal finestrino dell'autovettura ti lasci rilassato carezzare da una giornata solatia. M'illusi d'essere una tremula foglia glauca rinfrescata dalla rugiada mattutina, svolazzante in quell'antisettico corridoio cilestrino. L'unica naturale preclusione all'accelerazione di una brutale squadra, che infine batteva il passo di quella stupida bigotta vittima di una maligna impasse: "È tutto normale, è così che bisogna fare. È tutto normale, è così che bisogna fare. È tutto normale...".
 
2
 
Dopo forse un migliaio di caratteri che non ritengo opportuno battere raggiungemmo l'accettazione. Non c'era nessuno.
Io, mia madre e il branco dietro cercammo d'imbastire quella che più poteva assomigliare ad una coda ed aspettammo.
Nella soporifera attesa non ricordo a cosa pensai: alla vecchia, che mi stava ancora appiccicata dietro; alla correzione chirurgica, così la chiamavano da quelle parti, alla quale ubbidiente dovevo soggiacere per eludere l'ingrata ombra della sterilità; a qualche ragazza conosciuta in passato; a qualcos'altro. Non so a cosa pensai, proprio non me lo ricordo.
Così, pensando probabilmente a qualcosa o forse a niente, l'inane intermezzo s'involò, come le brume nei campi la mattina perdono integrità sul fare del giorno; forse solo al di là della soglia che avemmo poco prima varcato, ma la loro dipartita scorda sempre illusioni d'argento. Questo, invece, lasciò nella cornice dell'infisso un mite disinganno circa della mia età e dieci centimetri più alto. Se di primo acchito m'avessero richiesto un verso per quest'altra umbratile figura d'essere umano, mal ispirandomi ad Ermete Trismegisto, mi sarei limitato soltanto a dire: "La solita testa di cazzo".
Si tolse il giaccone blu e ci sputò addosso un grigiastro "buongiorno" senza trovare alcun echeggio. Poi si sedette e ci ordinò di fare parimenti.
Mentre con mia madre eseguivo, pensavo a quale sarebbe stato lì il metodo adottato per fare rispettare la coda; la quale poco prima testimoniava l'ordine d'arrivo; ma più m'avvicinavo alla copia di sedie assolata, che, dopo l'ordine impartito dal tizio, immediatamente aveva destato la mia simpatia più cresceva in me la sensazione di averlo preso proprio là.
In meno che non si dica, tipico in queste occasioni, calò sorniona la foschia dei bisbigli soffocati. Pure mia madre si trovò presto invischiata, ma non l'ascoltai. La mia attenzione, invece, attecchì nella testolina occhialuta dietro il banco. Non prima però di un impetuoso stropicciamento d'occhi, una stiracchiatina alle ossa e una rapida ricerca di qualche sbadiglio tardivo; di quelli che si effettuano soltanto dopo qualche stimolante movimento della bocca aperta. Insomma non prima di un'ottima abluzione mentale!
Giocherellava con la biro. Avrebbe potuto infilarsi un dito nel naso, mangiare mosche e finanche masturbarsi che nessun accalorato salottiero se ne sarebbe avveduto.
Ma io ero lì, lo guatavo incurante di qualsiasi etichetta e lo vedevo per quello che realmente era; una macchina ancora spenta, un palloncino sgonfio. Sembrava tutto floscio sulla sedia, come se le ossa prima della vicina incombenza avessero lasciato il corpo giusto il tempo per fare pipì.
Tuttavia mentre il mio sguardo serpeggiava tra i bisbigli laceranti della stanza, offendendo inutilmente il cadavere di un uomo, d'improvviso entrarono due candide vegliarde sorelline. Suonò la campanellina d'inizio lezioni e quello che accadde subito dopo mi procurò le vertigini, la fugace intensa sensazione di precipitare da una sedia riposta accanto al baratro di una disarmante incredulità.
Non ci crederete, già lo so, ma appena i due lenzuoli deambulanti girarono dietro al banco, il neghittoso, da capo a piedi, fu scosso da un tremito elettrico, simile al sintomo di una crisi convulsiva: si raddrizzò sulla sedia, schiarì la voce ed ordinò di avvicinarci al banco.
La vecchia irrequieta male seduta nelle vicinanze tosto s'ingollò i bisbigli e ruttò ai suoi due accoliti di seguirla alacri verso il Lazzaro di turno.
Penso sia inutile dirvi che la fila che venne a formarsi era un po' diversa da quella in origine, ma lasciamo perdere. Dalla dentiera di una delle due sorelline sortiva automatico: motivo degenza, medico curante. Le risposte laconiche avanzavano susseguenti, lei scribacchiava un poco e ci direzionava verso Lazzaro.
La mia fervida immaginazione vedendomi lì, automa tra tanti automi, non perse l'occasione di motteggiarmi, a suo modo, involandomi dalla stanza oltre il soffitto e tutti i piani fuori dall'ospedale. Su nel frizzante cielo delle 7.30 di quella mattina. Presto mi ritrovai in un'autovettura in coda per strappare il biglietto, che avrebbe sollevato l'unica preclusione bianco-rossa al mio inoltrarmi nel viaggio verso la terra di Savena... San Lazzaro di Savena, vicino a Bologna.
L'accolito maschio insieme alla pigolante vecchia anticipò le risposte che dopo di lui avrei dovuto fornire alla suora. Eseguii comunque il rito e ritornai a sedere tutto permeato da una funesta sensazione e di lì a poco, esaurita la miccia umana davanti al banco, il nembo che incupiva il mio stato d'animo elargì la procella minacciata.
Un'infermiera non bella, non brutta, direi "tra brutta figa e non c'è male", annettiamo pure, però, che il "non c'è male" era nel suo caso un albero della cuccagna e lei di una caparbietà quasi patetica. Questa qui, insomma, invitò gli ammalati di varicocele a seguirla.
Lascio a voi immaginare da quanti e quali elementi poteva essere composta la fragranza della sua muliebre scia fino al reparto urologia, su al secondo piano.
 
3
 
Uscimmo dall'ascensore e ci trovammo in un piccolo vestibolo, che ne conteneva altri tre.
Alla mia destra c'era una finestra dove si scorgevano ancora gli scampoli di un'alba appena finita.
Io ci vidi un ineffabile sorriso molto simile a quello di una ragazza che ti voleva provocare. Se non avete bene presente la scena, immaginatela descritta da uno di quegli stupidi cartoni animati giapponesi: lui le risponde accennando una corsa, lei nella sequenza successiva ci appare già lontana in uno smodato cachinno e poi... poi, se gli butta bene finisce che le finisce prono e se la fa.
Tuttavia nelle mie vene quella mattina non scorreva abbastanza adrenalina per il grande salto. Così raggiunsi gli altri a sinistra nel crocicchio di due ballatoi con lo sguardo ancora moscio per l'aereo cretto respinto e bruscamente mi sorpresi ad occhieggiare le mie scarpe. Da sotto le suole vidi incedere, nello stesso modo in cui una gora di sangue sortisce vischiosa dal cranio ferito mortalmente di un cadavere ancora fresco, un'ombra amaranto e un angolo piatto sulla mia spina dorsale tosto mi presentò a dei rossi barbagli; ma nemmeno il tempo di tendere loro la mano e mi piombò addosso una scritta cubitale, il pianto rutilante di milioni di ebrei imperversò su di me: "Se qui entrerete soltanto in un modo potrete uscire, dal camino".
Un raccapricciante scroscio di mitraglianti secchiate d'acqua su un pavimento da pulire, tutti i giorni, dagli orrori della guerra mi sbatté agghiacciato davanti al campo di Mauthausen, nella primavera di Praga di tre anni prima.
Non vidi più nessun ballatoio, solo un unico labirintico corridoio di morte. Dove l'identicità di ogni suo tratto rettilineo ingannava, ad ogni sua svolta, l'ebreo arrancante verso l'epilogo della sua vita mortificata. (tra me pensai) "Schifosa miseria! Forse brancicava allucinato la divisa del teutonico boia credendo fosse la sottana di Speme, che di quel dedalo nemmeno sapeva l'esistenza".
"Eccoci arrivati!".
Una voce lontana afferrò la mia attenzione precipitante nel baratro di pensieri, che credevo ormai obliterati dal tempo e nel sopraluce della porta di fronte a me apparve nitido ed immobile un lemma di nastro adesivo rosso: urologia.
Tre, due, uno e nessun botto; ma una suora bassa, goffa, pingue ed accecata diede il cambio alla mia salvatrice e ci guidò all'interno del reparto verso l'epilogo dell'iniziazione per la mia degenza. Quasi un'oretta di vita persa ritrovata nella mia immaginazione. Un brandello d'anima sottratto alla noia; sua paziente divoratrice.
 
Concorso Marguerite Yourcenar 2000 a sez. narrativa  
 
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Non chiedeteci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2000 Il club degli autori, Mauro Pedrazzoli
Per comunicare con il Club degli autori: info@club.it
 
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agg. 3 novembre 2000