Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Mauro Manfredi
Con questo racconto ha vinto il quarto premio all'edizione 2006 del Premio La Montagna Valle Spluga.



IL CERCHIO D'ORO


Quell'anno suo padre aveva deciso di portarlo con sé in montagna. Aveva scelto come meta la cima più alta, quella che sovrastava nella sua imponenza tutte le altre. Si levava alta nel cielo da qualsiasi angolatura la si volesse rimirare, costringendo anche gli sguardi più frettolosi a riconoscere nel rigore delle sue linee una scenografica regalità. Si ergeva come un nume indecifrabile, capace di terrificare con le sue bufere quanto di blandire con il più suadente degli inviti. Costituiva una presenza incombente per vastissimo raggio, ben oltre i ridotti confini di quella vallata in cui lui era nato e in cui viveva, ultimo erede di una progenie di montanari che all'ombra di quella montagna avevano condotto la loro modesta esistenza.
Questa esistenza, per quanto ne sapeva, non aveva mai deragliato da binari di dignità, si trattasse del lavoro della terra o del pascolo come della caccia o del contrabbando. In epoche più recenti si erano aggiunte attività non meno avventurose, come quella di portatore e guida alpina o come lo sci di fondo che aveva trovato nella conformazione del terreno un ambiente particolarmente favorevole.
In quella valle si nasceva per così dire con gli sci ai piedi. Con gli sci, d'inverno, i ragazzi raggiungevano la scuola, con gli sci salivano alla chiesa per la messa domenicale, scatenandosi poi in fantastiche scivolate che si trasformavano regolarmente in gare di abilità e spericolatezza. Quanto a lui, doveva ammettere di non aver mai amato quelle esibizioni. Fin da quando era riuscito a reggersi in piedi sul suo primo paio di sci (due attrezzi indegni di tanto nome che suo fratello gli aveva ceduto), fin da quel giorno gli era venuto naturale considerarli come un mezzo più adatto a lunghe percorrenze orizzontali. Sicché, quando era giunto il momento di affrontare le prime modeste competizioni organizzate in ambito scolastico, non si era tirato indietro.
Per lui la neve costituiva l'elemento qualitativamente misterioso che arricchiva il paesaggio invernale di una connotazione fiabesca. La prima nevicata della stagione costituiva sempre un evento che accendeva nel suo cuore, sin dai primi fiocchi, il senso di un'attesa, un languore sconosciuto e al tempo pungente, pervasivo come una deriva che trascina verso le soglie della felicità. Aveva sgranato i suoi occhi stupefatti davanti alla prima nevicata e, per tanti o pochi anni che fossero passati, non si era mai stancato di quella lucente meraviglia che ogni volta riproponeva la sua magia. Nella rincorsa delle stagioni, nel grande gioco della natura che di continuo si rinnovava, il ritorno della neve rappresentava ogni volta uno stacco perentorio. Perché, mentre fiocco su fiocco si andava addensando sulle realtà minute e familiari, quelle che circondano e confortano la vita di tutti i giorni, nello stesso momento chiudeva la porta alle realtà che stavano oltre, sbarrava l'accesso verso gli alti pascoli, verso le brughiere e le sassaie, verso quel mondo di muschi e di rocce in cui era racchiuso il richiamo all'evasione e all'avventura.
Quell'evasione e quell'avventura agivano sulla sua immaginazione in un modo indistinto, ma non per questo meno irresistibile. Sicché, quando suo padre, che ai tempi della sua gioventù non aveva disdegnato lo sci di fondo e di mestiere faceva l'albergatore e la guida alpina, gli aveva proposto di portarlo con sé, l'emozione era stata fortissima. Anche se sul momento non poteva certo rendersene conto, quell'invito avrebbe condizionato in modo decisivo il suo futuro. Quell'immersione al di là dei confini abituali avrebbe costituito un vero e proprio snodo esistenziale, un punto di non ritorno, una sorta di iniziazione. Avrebbe giustificato a posteriori quell'ondata insieme di paura e di orgoglio che lo aveva in quel momento assalito, paura di non essere all'altezza, orgoglio per una chiamata che aveva il sapore di un'investitura.



Avevano risalito una valle incuneata tra ripide pendici dominate sin dai primi chilometri da quella montagna simbolo che fino allora si era limitato ad ammirare di lontano. Lasciata la macchina all'ultimo parcheggio, si erano avviati lungo il sentiero che avrebbe dovuto condurli al rifugio prima di notte.
C'era voluta una bella ora di cammino per attraversare la larga fascia boscosa e raggiungere il limite delle terre alte. Quasi all'improvviso si erano ritrovati sull'orlo di una conca verde di stupefacente bellezza che incastonava un minuscolo specchio d'acqua. Un'aria sottile sollevava in controluce un pulviscolo dorato. Un rado sipario di giovani arbusti e di massi erratici sfrangiava la trama delle luci e delle ombre. Il contrasto tra la dolcezza del primo piano e l'asprezza del fondale non avrebbe potuto essere più drammatico. Una muraglia ferrigna, spaccata per il lungo da un vertiginoso canalone di ghiaccio e neve, si alzava verso il cielo a sbarrare la visuale senza il conforto di una superficie amica, di una linea che non fosse di esasperata verticalità. Come scaturita dalla spinta di un'esplosione primordiale, modellata a furia da una mano gigantesca. Una distesa caotica di massi segnava una sorta di limite, quasi a marcare uno stacco tra i due mondi e un divieto a spingersi oltre, là dove soltanto la nuda potenza della natura aveva diritto di esprimersi.
Eppure in quella verticalità, in quella potenza, doveva essere racchiuso un segreto se suo padre per primo ne era così attratto e non finiva di magnificare quella parete e quel canalone con l'appassionata vivacità di chi non si limita all'emozione estetica, ma lascia intendere un'attrazione più profonda, un coinvolgimento, un desiderio di possesso così radicati da costituire una vera e propria ragione di vita. Che si trattasse per lui, in quel momento, di una sorta di rivelazione lo avrebbe pienamente compreso soltanto quando avrebbe rivisto con occhi adulti quell'angelo di intatta bellezza, quando avrebbe risalito quel canalone e accarezzato quella parete, quando l'ansia del neofita avrebbe ceduto il passo alla matura consapevolezza di una capacità conquistata sul campo.
Si sentiva affascinato da un ambiente che si esprimeva per mezzo di linee, colori e strutture assolutamente essenziali, che prescindevano del tutto dalla presenza dell'uomo. Era colpito da quella che avvertiva come una concentrazione di silenzio per lui inusuale. Nella vita di tutti i giorni il silenzio poteva essere considerato come un'interruzione del rumore, una pausa tra eventi sonori caratterizzati da origini diverse e spesso tra loro confluenti, insomma come un'assenza. In questo mondo in cui era per la prima volta penetrato il silenzio era un'altra cosa, costituiva una presenza, aveva la qualità di una predominanza attiva e in qualche modo ammonitrice, nel senso che gli sarebbe parso fuori luogo per non dire sacrilego levare alta la voce, quasi a disturbare potenze misteriose e forse ostili.
Non era il mondo degli incanti domestici che accompagnavano le sue giornate, il mondo delle piante, degli animali, dei suoni noti, delle presenze facili, dell'ordinata successione di avvenimenti prevedibili o comunque decifrabili. Questo era un mondo duro e incorrotto, sfuggito al fluire della storia, ancorato a una sua intrinseca capacità di autoconservazione, dove se si incontrava un animale si trattava di un essere selvatico impossibile da addomesticare, dove la vita vegetale poteva esprimersi soltanto in una disperata capacità di sopravvivenza che costringeva le piante a miniaturizzarsi, le radici ad abbarbicarsi negli anfratti più scoscesi, dove gli accumuli di qualunque tipo potevano da un momento all'altro sgretolarsi in frane rovinose, dove soltanto la compattezza minerale di una montagna altissima poteva garantire una prospettiva di durata misurabile sul metro delle ere geologiche.
Il sentiero aveva ripreso a snodarsi lungo vaste pietraie macchiate qua e là da lembi di neve. La fatica cominciava a incrinare la sua baldanza, appesantiva il passo, accelerava il respiro, ingigantiva il miraggio del cibo e del riposo. Non fosse stato per il timore di deluderlo, avrebbe volentieri pregato suo padre di fermarsi per qualche istante. Ma lo vedeva procedere implacabile con quei lunghi passi da montanaro che sembravano guidati da un meccanismo esterno, lo stesso forse che alimentava la rincorsa delle nuvole o l'alitare di un'aria sempre più fresca e pungente. Di quel meccanismo, in quel preciso momento, anche lui era prigioniero. Chiedersi se avrebbe potuto svincolarsi era come chiedere di essere altrove, immaginarsi nel confortevole riparo della sua casa davanti a una zuppa fumante. Aveva la sensazione di essersi imbarcato in un'avventura più impegnativa di quanto avesse potuto prevedere, un'avventura che lasciava intendere un costo di partecipazione molto alto.
Per lontano che il rifugio potesse trovarsi, non restava che continuare nella sua direzione. Nel frattempo il crepuscolo aveva cominciato a prendere possesso dello spazio, ingoiando le terre basse in un'ombra opaca e trasformando in alabastro il ghiaccio del canalone quasi a concentrare in quella lucentezza il rimpianto per la propria caducità. Attraverso lo spazio racchiuso tra la montagna e le balze franose da poco superate correva ora un fremito nascosto, un sospiro lieve come una promessa. Aveva continuato senza lamentarsi, lasciandosi catturare da quella suggestione, lasciando che fosse lei ad alleggerirgli la fatica e a fargli finalmente raggiungere il rifugio.



Per anni aveva giocato dentro di sé con l'immagine di questo rifugio, inventandosi di volta in volta una rappresentazione diversa a seconda dell'umore o dell'occasione, ma senza mai prescindere dalla centralità della sua funzione che era di garantire uno spazio umano, circoscritto e minuscolo quanto si vuole, capace di marcare una presenza e di offrire un riparo e una base per la salita alla montagna. La realtà aveva sostanzialmente rispettato le attese dell'immaginazione, le aveva anzi arricchite di dettagli minuti e preziosi. Era rimasto conquistato dal gioco che un paio di candele guidava attorno alla tavola, strappando per brevi attimi le ombre alla loro inconsistenza e rivestendo le apparenze di un fascino misterioso. Figure discrete si muovevano in quella racchiusa domesticità come seguendo un preciso rituale di gesti e di voci. Come se ognuno si adeguasse, di concerto con gli altri, a un unico e ben identificato codice di comportamento. Come se tanta misura e discrezione fossero in qualche modo comandate dalla natura stessa del luogo.
Era scesa la notte, con l'immediatezza che soltanto conoscono i luoghi disabitati, i grandi spazi, le latitudini estreme. Attraverso la finestrella del dormitorio l'occhio si perdeva in un'insondabile profondità dalla quale sola emergeva la scura fiancata di quella montagna che non aveva cessato un istante di condizionare i suoi pensieri e le sue emozioni.



Si era ritrovato in fila con altri alpinisti diretti tutti alla stessa meta. Un vago chiarore filtrava dalle profondità dell'orizzonte e permetteva a fatica di distinguere le asperità di un terreno disseminato di enormi macigni che sembravano costituire nella loro indocile presenza una sorta di monito contro facili entusiasmi. Quasi subito infatti aveva dovuto affrontare una barra rocciosa a gradoni sconnessi che richiedevano molta attenzione, non foss'altro per un residuo di umidità che li impregnava e per un'esposizione che cresceva di passo in passo senza concedere alla vista alcun conforto che non fosse quello della vicinanza con altri esseri umani come lui impegnati in confusi esercizi di equilibrio.
Evidentemente suo padre doveva aver messo in conto una sua adattabilità montanara che era invece tutta da dimostrare. Non gli restava pertanto che fare buon viso e afferrarsi a quanto di solido gli capitava sotto mano come all'unica risorsa amica disponibile. Gli sembrava di cogliere nell'ostilità dell'ambiente una minaccia, come se la sua presenza costituisse un'intrusione, come se la montagna verso la quale aveva orientato i suoi passi e i suoi pensieri volesse respingerlo. A meno che non si trattasse di un passaggio iniziatico, un modo di mettere alla prova la sua resistenza morale prima di aprirgli il varco verso il successo.
Man mano che riusciva a trascinare alle soglie della coscienza il vischioso groviglio delle sue emozioni, in una con il sole che aveva trionfalmente preso possesso anche degli anfratti più riposti, una sorta di riconquistata fiducia imprimeva ai suoi movimenti un'agilità e una sicurezza nuove. Senza ulteriori indugi aveva raggiunto suo padre sull'aerea forcella da cui si apriva la vista e il passaggio verso la loro montagna. Una grande conca rinserrata tra pareti di roccia di severa evidenza si chiudeva in alto a modellare un pendio nevoso che indicava il percorso naturale di salita. Oltre questo pendio la montagna si raddrizzava in un balzo unico e gigantesco che, dalla posizione da cui poteva osservarlo, si presentava articolato e come sconvolto in una successione di piccoli canali e risalti rocciosi che la luce del sole metteva in impietosa evidenza.
Suo padre aveva deciso una sosta insolitamente lunga per dargli tempo di riflettere e di riposare. Forse aveva voluto che il suo consenso a proseguire scaturisse da una scelta veramente libera. Questo consenso doveva averglielo letto negli occhi se a un certo punto, con la brusca vivacità che lo caratterizzava, si era levato in piedi e aveva iniziato a scalciare vigorosamente nella neve per segnare la traccia. A lui sembrava che quella neve in piena estate costituisse una curiosa contraddizione. Aveva sempre pensato che la neve, come obbedendo a un destino ciclico, si autogenerasse ogni volta dal chiuso grigiore dell'aria per avviarsi a una progressiva dissoluzione. La sua persistenza quassù indicava invece una qualità non effimera, una sorta di perennità in cui rintracciare, più ancora che nella pietra, una vera e propria cifra identificativa del mondo alpino.
Quella neve al centro di un anfiteatro roccioso costituiva una gradevole sorpresa, inseriva un elemento domestico in un ambiente di severa indifferenza. Mentre cercava goffamente di puntellare il suo equilibrio per non scivolare, sentiva che il grumo di inquietudine che lo aveva sino allora accompagnato accennava a sciogliersi, a trasformarsi in un'emozione che gli procurava un vago stordimento.
Era giunto al limite superiore del nevaio, dove la traccia si esauriva contro un risalto roccioso piuttosto articolato. Senza indugi suo padre aveva cominciato a risalirlo con le movenze eleganti di chi si sente signore in casa propria. Vista di quì, la fiancata della montagna sembrava aver ulteriormente ingigantito la propria estensione in una sfida all'immensità dello spazio. L'occhio si perdeva in una rincorsa obbligata senza vie di fuga laterali che potessero attenuare la severità dell'impatto. Con una differenza, che si era dissolta ogni traccia di ostilità per lasciare il posto alla pura espressione del rigore e dell'essenzialità di una natura per certi versi ancora primordiale. Mai come in questa occasione aveva avvertito la propria presenza come un elemento del tutto accessorio.
Eppure non poteva impedire che un moto di orgoglio cominciasse a vibrare da qualche parte dentro di lui. Anche se la sua posizione su quella montagna non era molto dissimile da quella di una pulce sulla groppa di un elefante, intuiva di possedere, in esclusiva con gli altri suoi simili come lui impegnati nella salita, un privilegio: quello della mobilità e della libera scelta. Il suo orgoglio, insomma, aveva una spiegazione precisa, anche se per capirne le motivazioni avrebbe dovuto consumare un buon numero di anni e di esperienze.
Era così assorbito nell'esercizio dell'arrampicata, così attento a sfruttare al meglio le opportunità offerte dalla struttura rocciosa, da non avvertire affatto il peso della fatica. E sì che erano ormai passate alcune ore da quando aveva lasciato il rifugio. Il contatto con la roccia, il gioco delle mani su quella superficie modellata dall'erosione naturale, gli procurava con il passare dei minuti una sorta di ebbrezza che quasi gli faceva dimenticare la realtà.
Suo padre si limitava a poche occhiate, di tanto in tanto, come fosse consapevole di quel tumulto interiore che sicuramente gli ricordava antiche esperienze personali. Si era liberata tra di loro una forma di simbiosi che aveva dovuto attendere fino a oggi, fino a questo momento e a questo posto, per esprimersi. Era come se suo padre avesse voluto trasferire a lui, in una sorta di misteriosa trasmigrazione, un messaggio tenuto sino allora nascosto. Come se una reciproca complicità li tenesse avvinti in una ideale cordata.
Mai avrebbe immaginato che quella salita tanto sognata e temuta potesse rivelarsi, alla resa dei conti, così entusiasmante. Quell'ebbrezza che rendeva lievi i gesti e i pensieri lo disancorava per così dire da se stesso e lo proiettava nel vortice di un compiacimento cui non era estranea una punta di narcisismo. Che non gli facesse difetto l'autostima, quella stessa che negli anni gli sarebbe venuta più volte in soccorso, poteva per il momento sfuggire alla sua acerba capacità critica. La viveva, quel giorno, come una carica esuberante, come una sensazione di invincibilità abbastanza infantile ma straordinariamente confortante. Vivo e vitale, impossibilitato a immaginare le implicazioni che quell'avventura avrebbe proiettato sul suo futuro, non poteva che abbandonarsi all'esaltazione che si andava liberando dentro di lui. Quell'esperienza lo stava segnando nel profondo, innescava una dinamica di pensieri e di emozioni dalla forte carica condizionante. Costituiva una di quelle esperienze che concorrono a dare un senso all'esistenza.
Senza neppure rendersene conto aveva progressivamente accelerato i movimenti. Guardava alla cima di questa montagna come a un traguardo, come a una conclusione per forza vittoriosa, insomma come al risultato di una competizione. Che tale l'aveva sentita e vissuta, anche se non gli era chiaro chi o che cosa rappresentasse l'avversario. Non suo padre, isolato semmai in un compito arbitrale implicitamente giudicante, non gli altri alpinisti, relegati in un ruolo di comparse, non la montagna, che avrebbe potuto fermarlo e non l'aveva fatto, che si era rivelata onestamente neutrale. Rimaneva lui stesso, o meglio quella parte di sé, quella specie di alter ego con cui era solito confrontarsi. Si trattava di un se stesso a lui uguale e al tempo contrapposto, un suo doppio impietosamente critico e pignolo che non glie ne perdonava nessuna, che trovava sempre a ridire sulle sue azioni e che al tempo stesso lo spronava verso le più ambiziose delle prospettive. Era lui l'avversario-amico con cui aveva gareggiato in tutte queste ore, in questa estenuante altalena di sconforti e di esaltazioni in cui si erano varie volte scambiati i ruoli per incoraggiarsi a vicenda. L'eccezionalità dell'ambiente d'alta quota aveva soltanto aggiunto un di più di merito.
Stranamente in quel momento il suo doppio sembrava volersi astenere dall'abituale ruolo, quasi a concedergli il privilegio di assaporare per intero il frutto della vittoria. Non gli era parso vero di raggiungere la sommità della montagna in un silenzio interiore che risultava perfettamente sintonizzato con quello dell'ambiente esterno. Si era prefigurato una conclusione capace di riassumere in un momento unico ed esaltante la trafila di difficoltà e di fatica appena superate, si ritrovava invece immobilizzato in un inatteso vuoto della mente e del cuore, qualcosa di simile a uno stato di non coscienza e di non senso assolutamente raro e privilegiato. In tal caso, era certamente molto bello e indicava una misura molto raffinata di sensibilità il fatto che suo padre rimandasse a più tardi i gesti e le parole dell'elogio e dell'affetto e manovrasse con discrezione perché nessun altro dei presenti giungesse in mal punto a infrangere l'incantesimo.
In quel vuoto, come aspirato da una forza irresistibile, dapprima lentamente come attraverso una fessura, poi a precipizio come se una paratia avesse ceduto di colpo, si stava riversando la piena di una nuova consapevolezza. La consapevolezza, captata a livello puramente emozionale ma non per questo meno acuta, di essere in qualche modo integrato con la totalità del cosmo, partecipe di un comune destino.
Molte cose avrebbe più tardi compreso, ma nessuna delle sue esperienze avrebbe ripetuto una simile pienezza e intensità. Richiamata dall'arco incandescente del cielo, questa consapevolezza scendeva diretta a trafiggere la sua intimità. Gli sembrava di cogliere nel cerchio d'oro dell'orizzonte un messaggio di accettazione, come avesse superato una prova decisiva e non ci fosse più bisogno di conferme.



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