Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Mauro Lama
Con questo racconto si è classificato sesto al concorso Marguerite Yourcenar 2001 sez. narrativa
Bugie
 
Nacqui in un paesino di 2.513 abitanti, nell'entroterra di questa sterile provincia, di questa sterile regione, di questa sterile nazione. Sterile, incapace di creare vita, di produrre intelligenza. Questa era la mia più ferrea convinzione, che ogni forma di vita, per essere considerata tale, dovesse possedere intelligenza, non sempre capacità di ragionamento, ma piuttosto consapevolezza di far parte di qualcosa di splendido, ragion per cui il proprio comportamento si dovesse plasmare alle esigenze del più vasto ed incomprensibile creato. Nacqui quando le ultime bombe cadevano sulle nostre teste, quando gli ultimi bambini piangevano per i loro padri morti, per i loro fratelli mutilati, per le madri sacrificate. Io forse fui proprio l'ultimo, la mia l'ultima lacrima caduta a terra, su quella terra resa fertile dai cadaveri distesi al suolo, dalle case in rovina, dai campi bruciati, dalla ricostruzione che proponeva i suoi semi, dal progresso che nasceva, dall'avarizia che germogliava, la presunzione che sbocciava e l'ignoranza che cresceva senza ormai nessun controllo.
Quando io ero bambino si correva a piedi nudi, si giocava con i tappi di bottiglia e si rubava nell'orto del vicino. C'era mio cugino, un giorno andammo insieme ai confini del paese dove poca gente pascolava, lì in fondo, c'era un albero di fichi enorme, con dei fichi così grossi che solo uno ti riempiva lo stomaco. C'era mio cugino che un giorno mi disse: "Andiamo a rubare dei fichi, così per oggi siamo a posto". Mio cugino aveva quattro anni più di me, era alto, più alto di tutti, era magro magro, con degli occhi neri neri, tanto grossi, tanto vispi. Si leggeva nei suoi occhi il desiderio d'essere felice, di non preoccuparsi dei problemi quotidiani perché sembrava aver capito che la felicità risiede all'interno del proprio cuore, in fondo però, tanto in fondo che solo pochi riescono a trovarla. Andammo di buon passo, tanto che giungemmo a destinazione prima che il sole tramontasse e che i contadini tornassero alle loro case. L'albero si vedeva già dalla strada, enorme, con i rami che coprivano le viti intorno e quella grossa pietra al suo cospetto. Era solito rubare i frutti dalle piante, ma non molti, si aveva rispetto per i contadini e per i figli dei contadini, che erano gli stessi ragazzi con i quali noi si giocava, e che rubavano le uova delle nostre galline. Ma quel fico faceva paura, nessuno osava andarci, il padrone era come quell'albero, imponente, spaventoso, dominava le paure dei ragazzini, tutti lo temevano, anche i grandi. Ma noi avevamo fame, e quei grossi fichi ci avrebbero saziati, ne bastava solo uno. Uno. Anche piccolo, magari non del tutto maturo, tra quelli caduti a terra, un fico.
Aspettammo che il sole, ormai stanco, si concedesse il meritato riposo nascosti dietro a dei cespugli attendendo la dipartita degli ultimi braccianti, ma l'attesa è disperata, il desiderio di gioire poi, ti fa odiare il presente. Uscimmo allo scoperto, ci avvicinammo al legno, non avevamo mai visto nulla di più invitante, mio cugino più grande e forte si arrampicò sull'albero, prese due fichi e li lasciò cadere, io, sotto, li raccolsi entrambi e corremmo via il più in fretta possibile, ma non più in fretta di un suono cupo, lacerante. Mi voltai, Enzo era a terra, disteso, il viso contro il suolo, ero impietrito, senza forze, mi cadde un fico a terra e cominciò a rotolare fermandosi ai bordi del viale.
 
"Chi va là!"
"..."
"Fermo!"
"..."
Mio cugino non si rialzava, dei passi pesanti e veloci si avvicinavano angosciosamente, mio cugino non si muoveva.
 
"Fermo!".
 
Mi girai e cominciai a correre, ma poi mi fermai, tornai indietro, raccolsi il fico che era caduto e scappai a casa.
Da allora divenni ignorante, chiusi gli occhi al bello e al giusto per guardare solo l'opportuno ed il piacente, per osservare l'ipocrisia, il danno, il vezzo e per fingere d'essere felice, di una felicità che non risiede in fondo al cuore, ma solo sulla punta del membro del consiglio d'amministrazione della propria futile esistenza.
 
1975
 
Mi sono appena alzato, il tempo promette bene, seppure ormai l'inverno sia padrone delle giornate. Un raggio di sole batte sulla mia finestra, sciogliendo un filo di ghiaccio creatosi sul vecchio legno della persiana, gocciolando giù dal balcone, fermandosi sul parabrezza di una macchina, colpendo in centro un foglio di carta fermato dal tergicristallo destro, "città di Legnano": una multa. La macchia si espande giungendo fino alla data: 18 dicembre.
Esco di casa, non mi lavo, a malapena mi vesto, coprendomi il necessario. Anche oggi un'altra giornata di atona sofferenza, di dolore senza agonia, la mia inettitudine cresce, avanza, si sviluppa, si espande. Non uso la macchina da mesi, non vado al lavoro da settimane, non mi lavo da giorni, uso sempre gli stessi vestiti, esco poco, il necessario, vorrei mai, vorrei restare chiuso in casa a fissare il soffitto, ad osservare le crepe nei muri, come vene pulsanti di distruzione, l'inevitabile che avanza, la fine di tutto. Cammino per ore, ore, ore. La gente mi osserva, si sofferma sulla barba lunga, arruffata, i vestiti sgualciti, le scarpe sporche, i pochi capelli in testa. Nessuno guarda i miei occhi, nessuno si accorge che sono morto, che dall'età di otto anni il mio corpo aspetta l'ultimo respiro, l'ultimo battito, l'ultimo. L'ho aspettato per anni, seduto sui banchi, con una divisa addosso, dietro la scrivania di un ufficio, sul divano di casa, tutte le sere, ogni giorno.
Ma ora ho deciso di cercare, di trovare, o forse di farmi trovare.
Passeggio per un lungo viale, le macchine passano, via, si allontanano, si perdono. Io continuo a camminare, ormai stanco, non per la fatica, ma per la tediosa ed inutile convinzione di fare qualcosa che io ritengo giusto, l'avvicinarsi alla fine, là dove si crea l'inizio. Svolto a destra, un bambino mi passa correndo, lo insegue un ragazzo:
"Ridammelo!"
"..."
"Se ti prendo ti ammazzo!".
Le parole hanno tanto significato quanto una patata bollita nell'oceano. Le azioni sono l'unica verità, l'unica realtà empirica, senza possibilità di svago, di alternative, di ripensamenti.
Il ragazzo corre, ora inciampa e cade, a terra, ma subito si rialza e continua a correre. Enzo non si è mai più rialzato, non ha continuato a correre, non è riuscito ad arrivare a casa, ma è morto, è finito, non c'è più.
Manca, è assente, ma se ora fosse qui accanto a me? In questo preciso istante, guardare insieme a me la stessa scena, cosa cambierebbe? Cosa sarebbe diverso? Cosa per me e cosa per il calzolaio di Siena, in via Roma 14, dopo il fotografo. L'assenza di una persona non si nota quando non serve, non serve quando non è presente. Amara realtà, amara come un caffè senza zucchero, magari un po' di limone, tanto per rendere il tutto ancora più schifoso. Ma manca a me, ad una persona che ci teneva a lui, a chi gli voleva bene, questo non importa a nessuno? E allora mi tengo il mio dolore, la mia ottusa sofferenza, e la dimostro come più mi piace, e non venite a giudicarmi.
Sono davanti all'ospedale, guardo la facciata nord, tante finestre, tante stanze, in ognuna c'è qualcuno, qualcuno che sta male, un'immensa costruzione di sofferenza, che si basa e vive sul dolore altrui, con la pretesa di placare i mali, di guarire le malattie, di combattere la morte, di ridare la vita. Gente che entra e gente che esce, chi a piedi, chi in macchina, chi su un'ambulanza, chi dentro una bara. C'è un grande parcheggio, con tante automobili, si ferma una FIAT 600, parcheggia affianco ad una FIAT 128. Scende un uomo, piccolo di statura, i capelli ricci, neri, con un cappotto grigio, aiuta a scendere una donna, con un pancione grande grande, i capelli scuri, lisci, non troppo lunghi. Ha in viso un'espressione strana, sorride, è preoccupata, soffre, consapevole, contenta, stanca, tutto insieme, in un vortice di emozioni che la rende semplicemente bellissima, la carnagione bianca, le guance rosee, i movimenti sgraziati, la camminata costretta, cosa c'è dentro di lei? L'unione di due persone, una cellula riprodottasi all'infinito, una legge inspiegabile di natura, il solito acclamato miracolo della vita, l'amore di due persone. Dentro c'è qualcuno che nessuno sa chi è, non ha ancora un nome, ma questo non importa, non si distingue una persona dal suo nome, ma dal suo naso, dalle sue orecchie, dagli occhi, dal modo di pensare, di agire, di affrontare le situazioni. E come saranno i suoi occhi, azzurri, neri, il naso a patata o aquilino? Ci sono domande che hanno risposta, basta in questo caso attendere, freneticamente, sul corridoio di un reparto. Ma altre richiedono anni, lunghi periodi di coltivazione, per ottenere un frutto degno di essere ammirato, desiderato ed infine gustato.
Dentro quella pancia c'è un bambino, sicuramente bellissimo, tenero, ecc.... ma dentro quel bambino c'è l'infinito, ci sono illimitate possibilità, un vigile, un astronauta, un dottore, un pazzo, un bandito, un omicida, un giocatore di basket o un discreto nuotatore. Tutto. Alcuni legati esclusivamente al carattere genetico della natura, altri alle esperienze che maturerà, alle scelte che farà o che faranno per lui, al suo fottutissimo, incomprensibile, immutabile destino.
 
2000
 
Mi sono appena alzato, il tempo promette bene, seppure ormai l'inverno sia padrone delle giornate. Un raggio di sole batte sulla mia finestra, sciogliendo un filo di ghiaccio creatosi sul vecchio legno della persiana gocciolando giù dal balcone, fermandosi sul parabrezza di una macchina, colpendo un foglio di carta: liquidazione totale! Sconti fino al 80%.
Credo che tutto sia finito, ogni mattina vedo il mio corpo stanco, lo vedo riflesso nello specchio, e lo schifo è tale da aver eliminato tutti gli specchi della casa, solo quello in bagno è rimasto, il più veritiero, quello che ti permette di vedere il tuo corpo nel suo totale disfacimento.
Li ho tolti tutti, nella vana speranza di non pensare a ciò che sono, ciò che sono diventato, ma non basta, ogni giorno mi alzo con fatica, sento i miei movimenti lenti, stanchi, ogni mattina quando prendo gli occhiali vedo le mie mani, secche, rugose, senza vita. Non c'è più un senso, non più un motivo, non c'è mai stato, da anni a questa parte, tanti di quegli anni che non ricordo neppure quanti.
Esco, passeggio, cammino, saluto per cortesia gli altri anziani signori che incrocio, alcuni portano a spasso il cane, altri i nipoti, altri da soli, alcuni si fermano, scambiamo qualche parola, lo stretto necessario, mi parlano della benzina che costa sempre più, della politica confusa ed inutile, ma io non ci sono, non partecipo a questo gioco, della benzina non me ne frega niente, i politici potrebbero morire anche tutti, non cambierebbe la mia vita, non mi interessa nulla, nulla.
Giro l'angolo, con la mente altrove, una macchia verde mi passa davanti, poi frena bruscamente, sedici metri oltre.
Un ragazzo si gira, guardandomi, accosta la macchina, scende.
"Tutto bene?".
"Sì, grazie".
"Mi ha fatto spaventare".
"Ero distratto".
"Va bene, arrivederci".
Avete mai visto il destino? Ha gli occhi azzurri, i capelli biondi, un paio di occhiali blu, il pizzetto corto, ed è un po' in carne. Ma poi il destino vola via, così come è arrivato. Mi giro di nuovo, una signora passeggia con la borsa della spesa, un ragazzo torna da scuola, uno in bicicletta, vedo altri destini passare, di quelli fatti dalle proprie azioni, dalle proprie scelte, dalla consapevolezza che tutto non è scritto, ma si crea ogni giorno, combattendo per i propri sogni, cercando di realizzarli, di essere soddisfatti, orgogliosi di se stessi, fieri del proprio nome e della propria immagine riflessa nello specchio. Fieri di essere ciò che si è diventati, dopo anni d'impegno e di vita.

 

Classifica Concorso Marguerite Yourcenar 2001 sezione narrativa
 
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inserito il 3 novembre 2001