Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Maurizio Massaroni
Con questo racconto ha vinto il nono premio del concorso Angela Starace 2003, sezione narrativa

Fenice marziana
 
...I canyon erano giganti neri e tormentati nella luce del tramonto. Si sarebbe detto qualche stupendo panorama desertico dell'Arizona, se non fosse che fuori la temperatura massima era di zero gradi centigradi.
I canyon erano giganti neri e tormentati nella luce del tramonto...
 
Mi rifugiai sotto le coperte plastificate della mia cuccetta. Era la stanza n° 7. Avevo un dolore all'occhio sinistro. Era l'osso o la palpebra a darmi dolore? Di solito l'inizio di un gran mal di testa. Mi stesi supino e respirai profondamente. Dovevo trovare la forza di raggiungere l'armadietto dei medicinali e prendere qualche pasticca di rigenerante. Decisi di alzarmi, ma i miei movimenti erano disarticolati, inciampai e urtai la testa contro l'armadietto dei medicinali che si aprì e il flacone color latte mi cadde quasi tra le mani scosse da fremiti continui. Feci scattare il coperchio di chiusura, maledicendo tutti gli oggetti che con i loro meccanismi di sicurezza sembrano opporsi alla volontà di chi li ha creati e presi tre piccole pasticche gialle. E se avessi svuotato tutto il flacone color latte? Mi sarei sentito bene per tutta la mia vita? Avrei raggiunto la meta di ogni filosofo... la felicità in questo universo apparentemente privo di senso. Ma che vita era prigioniero su una base spaziale su Marte? La voce calda e sensuale di Alexia si fece largo tra le nebbie del cervello: "Sandro, un modulo spaziale in avvicinamento... Sandro, mi senti? Prendi non più di tre pasticche, dormi un'ora e poi vieni in sala riunioni."
"Non mi scocciare... e pensa a sintetizzare altra droga...", le risposi, lasciandomi cadere a terra e sprofondando nel sonno, unico consolatore dei derelitti, e sognai...
 
...Alla fine di un corridoio c'era una finestra dai vetri rotti e al di là vidi un cielo azzurro, primevo, e in alto un Sole luminoso, giovane con mille cerchi come un arcobaleno che si allontanavano dal suo centro... E poi mi ritrovai su di una spiaggia dalla sabbia bianchissima mista a minuscoli cristalli luccicanti. Stavo sotto un ombrellone e sedevo su di una sedia a sdraio di un materiale trasparente. Alla radice del naso sentivo il peso di occhiali da Sole. Alla periferia dell'occhio destro percepii un movimento. Era una mano femminile che si allontanava. La donna indossava un costume trasparente e andava verso la riva. Aveva appena sedici anni. I suoi piedi raggiunsero l'acqua. Ora il suo costume era di un verde smeraldo. Si tuffò nell'acqua, anzi no, continuo a camminare e intorno a lei l'acqua si cristallizzava. Divenne un immenso oceano glaciale. La ragazza camminando rompeva il ghiaccio. Sentivo solo il rumore ovattato del ghiaccio che si rompeva.
Il cielo era azzurro ed eterno.
"Alexia!"
 
Erano 666 giorni che ero prigioniero sulla base spaziale Percival Lowell, tra i canyon della Valle Marineris di Marte, quarto pianeta del sistema solare.
Aprii gli occhi. E scrutai la mia angusta cella. Mi alzai. Il mal di testa era scomparso. Le pasticche avevano fatto effetto. Mi sentivo forte come la colonna di un tempio greco. Gli effetti della droga X666 erano svaniti come aquiloni in una giornata estiva priva di vento. Mi palpai il viso ruvido e conclusi che dovevo farmi la barba. Il cowboy mi salutò ed uscì dalla stanza. C'era ancora qualche rimasuglio di droga nelle mie vene. Scacciai con un gesto quel ruvido mandriano e feci una lunga doccia. Davanti allo specchio mi radei con cura maniacale. Dall'oblò vedevo un tramonto marziano, o era un alba? Quante volte, senza successo, avevo tentato di ritrarre sulla tela quel quid impalpabile? Uscii dalla cella n°7 e percorsi il corridoio circolare che scendeva alla sala riunioni.
La vidi seduta dietro il tavolo di plexiglas, tra montagne di documenti. Inforcava dei piccoli occhiali da maestrina, indossava jeans lisi e sopra le ampie spalle un giubbotto di pelle. Mi guardò un attimo e disse: "Ah, è lei!" Poi si rituffò nello studio delle sue carte. Andai verso la zona liquori. E sì, ci voleva qualcosa di forte. Nonostante la rigenerazione, dovevo essere talmente intossicato di droga X666 che continuavo a vedere fantasmi.
La donna si decise di degnarmi della sua attenzione. Si alzò porgendomi la mano tesa: "Irene Grandi, geologa."
Sorrisi, come si può sorridere ad un'illusione, e mandai giù un bicchiere intero di whisky.
"Prevedibile atteggiamento il suo. Deve essere imbottito di droga. La selezione sugli equipaggi dovrebbe essere più severa", disse la donna con distacco e malcelato disprezzo.
Mi lasciai andare confuso su di una poltrona nera e le dissi: "Non so se lei sia vera... ma le mie illusioni hanno subito un miglioramento. Sa, i cowboy non sono molto attraenti. Da quel punto di vista, intendo." Le sorrisi come un idiota.
La donna tirò fuori da uno zaino delle pasticche verdi, e porgendomele come la vestale di un antico culto, mi disse: "Cura definitiva contro la droga X666. Quando si sarà ripreso, vorrei parlare con lei dell'incidente al modulo Marte1. Non mi sono chiari alcuni dati del computer."
"Non posso farci nulla" , le risposi affogandomi in un bicchiere di whisky. "E poi non sono un tecnico. Non m'intendo di computer... Sono un pittore."
Irene sfogliò un incartamento, fece una strana smorfia, probabilmente di disgusto: "E stato ingaggiato nella missione come 'esperto estetico di culture aliene'. Le è stato dato un regolare addestramento di tre mesi. Le sue condizioni fisiche sono ottime... almeno lo erano." Chiuse l'incartamento e con le mani giunte lo poggiò proprio nel punto dell'addome che scende verso il pube. Guardai i suoi occhiali da maestrina, gli occhi di un indefinibile azzurro, vagai sulle forme del suo corpo che i jeans aderenti mettevano in risalto.
Si accorse dei miei sguardi e assumendo un'aria composta, militaresca, disse: "Comunque, ritengo che sia adatto alla missione che voglio compiere." E con queste parole si allontanò evitando accuratamente di muovere il sedere.
"Lei non è niente male!", le gridai dietro. "Mi ricorda una maestrina che avevo nell'infanzia. Sicuro! Perché non vuole credermi?! E poi non sono alcolizzato e nemmeno drogato... E poi si ricordi che siamo lontani dalla terra, su di un pianeta deserto. Lontani migliaia di chilometri dalla civiltà... la civiltà... che cosa buffa vista da qui. Sembra un film! Ma di chi è la regia? Vuole rispondermi? Ma che l'hanno mandata a fare qui? Di questa missione non frega più niente a nessuno, sono troppo impegnati nella loro stupide guerre... E a noi non resterebbe nient'altro di meglio da fare che scopare e riempirci di droga fino alla morte..."
Ridendo di gusto, tirai sul muro il bicchiere che si frantumò in mille pezzettini di cristallo simile a sabbia.
Irene interruppe parte delle funzioni del computer che non fu più in grado di fornirmi la droga. Fui sottoposto ad una terapia intensiva di una settimana a base di pasticche anti-droga, e dopo il trattamento ero tornato vigoroso e pronto a intraprendere i progetti della geologa. E tornando allo stato di normalità, mi resi conto che finalmente dalla Terra avevano mandato una missione di soccorso. Ma perché solo una donna?
La mattina del settimo giorno, Irene mi ordinò di seguirla nella sala moduli.
Digitato il codice per l'apertura, la donna entrò nella sala moduli. Qui c'era, simile ad una manta metallica, il modulo gemello di Marte 1: Marte2.
"Si prepari" mi disse, indossando a sua volta una delle tute di volo. La tuta di un blu elettrico le stava che era una meraviglia, era talmente aderente da farla sembrare nuda. Chissà che impressione avrei fatto io con una di quelle tute? Sicuramente con Irene non ebbe molto effetto. Quando la geologa salì sul modulo, mi offrì la vista del suo sedere fasciato dall'aderente tuta blu. Si sistemò in plancia di comando e mi fece segno di sedermi nel posto del secondo pilota. I sette sedili vuoti del modulo mi fecero un certo effetto. Immaginai i sette cosmonauti morti che mi guardavano con sguardo di condanna. Io ero sopravvissuto. Era stato il caso, ma mi sentivo lo stesso colpevole. Colpevole di averli in qualche modo uccisi. Stavo farneticando. Cosa avrei potuto fare per salvarli? Niente di niente.
Dall'alto, visto dall'oblò di Marte1, il paesaggio marziano sembrava una tela astratta, un vuoto campo di rocce, vulcani alti diecimila metri, crateri immensi larghi decine di chilometri, mentre io guidavo il modulo con mano ferma. Le pasticche di Irene avevano fatto il loro effetto. Dopo una settimana di cura ero un astronauta modello.
Irene se ne stava davanti alla sua strumentazione a fare rilevazioni.
"Eccola! La vedi?! E' immensa!"
"Cosa?", risposi
E finalmente lo vidi.
Il volto era parte del pianeta, poteva quasi essere stato creato dalla pietra stessa, da sommovimenti naturali, dal caso che nel corso di millenni avesse modellato una forma umana. Ma perché aveva le nostre fattezze? Le fattezze umane... se fossimo stati esseri diversi cosa avremmo visto? O la forma umana era alla base dell'universo? Uno scienziato, non ricordo più il suo nome, definì l'umanità una muffa in uno sperduto sasso dell'universo. E se così non fosse? E se una mente avesse creato l'intelligenza con una forma umana? Questa poteva esserne la prova... Guardai Irene, anche lei, lo capivo dalle sensazioni che trapelavano da quella maschera di gelido atteggiamento scientifico, provava la stessa cosa e quindi le mie sensazioni non potevano essere ancora i rimasugli della droga che Alexia mi aveva procurata per tutti quei mesi. Il volto sul suolo marziano ricordava uno dei quei quadri astratti dove a prima vista non noti una forma, ma poi, creando il vuoto mentale e incrociando gli occhi, puoi intravedere forme galleggiare in linee e puntini, in colori che si solidificano in una forma definitiva.
"Dobbiamo atterrare. Il terreno è accidentato..."
La voce di Irene mi strappò via da quelle meditazioni. La donna stava in piedi davanti al quadro comandi, illuminata dai riflessi verdi e rossi dei LED, e il suo corpo modellato dalla tutta era di una bellezza scultorea. Per un attimo vidi miscelarsi nei suoi tratti quelli del volto di pietra.
Il modulo si abbassò, e un brivido di fronte all'incomprensibile per la prima volta si rivelò in Irene: "Quanto sarà grande? Da qui stimo un'altezza di 800 metri e una lunghezza di almeno... tre chilometri."
Mi domandai quale mano umana o aliena avesse potuto creare una simile assurdità architettonica... E poi, per quale scopo? Forse, pensai, affinché loro due la scoprissero... E se questo era stato il fine, allora quella donna ed io eravamo i rappresentanti dell'umanità, ma, sinceramente, non mi sentivo per niente pervaso dall'importanza di questo scopo. Ero sempre stato un ubriacone e ora anche un drogato. Ma come ci ero capitato in quella missione? Nonostante non avessi mai brillato nel fisico, tantomeno nell'intelligenza, inspiegabilmente superai tutti i test. E se qualcuno avesse deciso di scegliermi? Se un uomo è senza qualità come me, per accedere a un superiore scopo non può essere altro che un predestinato.
Il modulo planò dolcemente. Irene indossò la tuta pressurizzata e lo stesso feci io. Ci guardammo un attimo in un'intesa silenziosa prima di aprire il portellone, poi l'atmosfera di Marte ci accolse. Il Sole illuminava di candida luce quel suolo di sassi e polvere. Il cielo era bianco e l'astro solare una lampada opaca. Scendemmo la scaletta e quando posai il piede sul suolo mi sentì leggero, la bassa gravità aveva ridotto di due terzi il mio peso. Da bravo comandante, Irene mi precedette verso il cumulo di sassi grande come una montagna che visto dal basso perdeva tutto il suo fascino, troppo simile più ad un accumulo naturale che a un'opera umana.
L'adolescente mi camminava accanto. La ragazza sui tredici anni indossava un bikini trasparente e mi sorrideva. I capelli color rame le ricadevano sulle spalle e il viso triangolare incorniciava gli occhi di un azzurro intenso. La ragazza assomigliava a come mi ero immaginato Alexia, il computer, nei giorni di solitudine spaziale.
Chiusi gli occhi, tentando di scacciare quel rimasuglio di droga dal mio sangue, ma fu tutto inutile, perché quando li riaprii Alexia mi era ancora accanto e con il dito teso indicò Irene e parlò: "Lei non può vedermi."
"Perché?", le domandai.
"Sei tu il prescelto. Lei deve morire..." E a queste parole un ghigno, subito svanito, ondeggiò sul volto d'adolescente di Alexia.
"Sei Schitian?", e questa domanda mi colpì per primo, l'avevo pronunciata senza pensarci, come se la causa fosse in qualche cunicolo segreto del mio cervello, in una zona dove si consumavano segreti innominabili che consciamente non ricordavo, ma che erano così estranei da sembrare quelli di un'altra persona. Mi sentii diviso in due, come tagliato verticalmente da una lamina di ferro, squarciato da una nuova consapevolezza. Feci un gesto nell'aria con l'indice, un gesto magico che ricordavo di aver appreso in una caverna oscura dove dei volti indecifrabili erano illuminati da torce... e Alexia svanì.
Alexia, Schitian, un termine antico per indicare colui che veniva chiamato l'Avversario nell'Antico Testamento.
Irene era in pericolo, dovevo avvertirla, ma come potevo farlo se il pericolo ero io stesso? Alexia mi aveva instillato il gusto d'uccidere. Il sangue della donna! Quella era la chiave d'accesso per i segreti del volto, che si sarebbe aperto al contatto con il sangue della donna. Dovevo ucciderla in cima al volto, nell'incavo di sassi che era la sua bocca. La dovevo uccidere con un sasso tagliente come una lama che avrei trovato sulla cima. Ecco lo scopo del volto! Era un altare, un altare eretto dagli dei dell'universo. Ma quale mostruosità avrebbe risvegliato?
Quando fummo giunti in cima al volto di pietra, colpii Irene con tutta la mia forza alla nuca. La donna stramazzò al suolo. A terra brillava una pietra appuntita, simile ad una venatura di quarzo. Disposi il corpo della geologa sull'incavo delle labbra della testa di pietra, e alzando le braccia in un antico gesto rituale le trapassai la tuta, le costole e le conficcai la pietra nel cuore. Il sangue mi schizzò sulla visiera del casco. Poi mi accasciai esausto accanto al cadavere.
Alexia si avvicinò, mi accarezzò la nuca, e provai una grande pace quando mi porse la mano invitandomi a seguirla nell'incavo della bocca che ora si apriva su un'apertura interna. Scesi delle scale a spirale di un marmo antico, prima dell'uomo...
Con affanno superai la piccola entrata nella pietra ed entrai in una grande stanza dalle pareti di granito rosso scuro, rettangolari e levigate, lucidi macigni di quaranta tonnellate, disposti geometricamente. Dava l'idea di una grande antichità e di una modernità incredibile. Sembrava uscita dalla mente di un matematico per espletare qualche soprannaturale funzione. In fondo alla sala c'era un parallelepipedo cavo. Mi avvicinai al grande sarcofago scolpito e scavato nella roccia viva. Quale strumento sconosciuto l'aveva forgiato? Nel fondo di quel sarcofago c'era la sagoma scavata nella pietra di un uomo ed era disposto all'ovest vero di Marte. Entrai nel vano e mi stesi nella sagoma che stranamente aderiva perfettamente al mio corpo. Quella bara di pietra sembrava attendermi da sempre, dalle profondità dei millenni in cui fu concepita e costruita. C'era un impalpabile luminosità proveniente non da un punto preciso ma dalle pareti stesse della sala. Era avvolgente e grigia ed udivo un suono continuo che sfumava in un volteggiare d'ali. Restai così non so per quanto tempo, poi una sagoma scura mi passò davanti e aguzzando la vista ne vidi altre. Come sospinte da venti di forze invisibili, brandelli di carta volteggiavano nella sala, sembravano brandelli di enormi stampe di foto, ma io sapevo che erano state strappate dal muro della realtà. Oltre questa crepa che si allargava sempre di più, vidi la struttura ultima del muro: un liquido bianco, lattiginoso, continuo, una molla e compatta gelatina dove la mia mano affondava...
Prigioniero nel modulo di sicurezza, della grandezza di una bara o poco più, vidi scorrere dall'oblò un viale di sfingi sospese nel nero indefinibile. Un corridoio lungo chilometri che si inabissava nella fornace termica del Sole. Se una rappresentazione del terrore cosmico fosse possibile, ciò che vedevo avrebbe avuto, sicuramente, la precedenza su ogni altra immaginazione. Stavo scivolando ad una velocità folle verso la mia annichilazione, ma d'improvviso qualcosa cambiò, le sequenza di sfingi s'interruppe ed un grande tempio, dalle colonne alte centinaia di metri, eruppe come lava. Istintivamente mi coprii il volto, ma quando scostai le mani mi resi conto che il tempio doveva essere lontano ancora migliaia di chilometri. Era solo la sua grandezza illimitata che mi aveva illuso sulla sua vicinanza. Una grande scala alla base conduceva in cima, dove su di un altare si alzava una delle fiamme del Sole. E da quel fuoco sorse come il Sole un'enorme testa. Era regale, la testa funeraria di un faraone, scolpita sulla crosta di un pianeta grande come Giove. La testa era d'incalcolabile bellezza e il modulo era attratto in un'attrazione circolare intorno ad essa. Presentivo che quel viaggio non avrebbe mai avuto fine, ma io dovevo fare qualcosa. Come erano possibili dimensioni così colossali? Chi aveva costruito quelle architetture impossibili che superavano in grandezza i pianeti più grandi dell'universo? Non era possibile, doveva esserci una spiegazione razionale, allora respirai profondamente, tentando di calmarmi, di pensare, mentre il modulo, correndo ad una velocità incredibile, mi dava l'impressione di stare fermo. Se dovevo morire in quel luogo inconcepibile, tanto valeva provare. Decisi di uscire dal modulo. Con tutta probabilità mi sarei schiantato su quella colossale costruzione, o forse, prima di ciò, sarebbe finita la mia riserva d'ossigeno ed io sarei morto della più orribile delle morti : l'asfissia. Indossai il casco, sistemai le bombole dell'ossigeno e aprii lo sportello. Ero preparato ad essere catapultato lontano dal modulo, ma niente di tutto questo avvenne. Quando scesi dal modulo, mi ritrovai sul pavimento di granito rosso di una sala di una decina di metri di diametro e una ventina in altezza che andava restringendosi fino a terminare a punta. Le pareti s'inclinavano fino a congiungersi, ero in una piccola piramide e davanti a me c'erano dei modellini. Dei modellini oleografici che cambiavano forma e l'enorme testa non era più alta di venti centimetri.
Scoppiai in una risata fragorosa, una risata simile a quella di un dio il primo giorno della creazione. E con la mia risata svanì la sala segreta della Grande Piramide e mi ritrovai nella Camera del Re, più piccola, quadrata e costruita con blocchi neri e geometrici.
Ecco dove mi trovavo. All'interno della piramide di Cheope, nella sala del Re. Una coppia americana in calzoncini colorati mi guardò stupita della mia improvvisa apparizione. La donna si riprese prima dell'uomo e mi scattò una foto proprio nel momento che scendevo di corsa le scale ripide del Grande Galleria della piramide. Uscendo da quella montagna di pietra, mi ritrovai nella piana di Giza, accolto dal calore del Sole. Inalai l'aria. Ero felice. Alexia mi aveva salvato. Ero fuggito da quel pianeta deserto, da quell'inferno dell'anima. Mi ritornarono in mente antiche parole: "Santa Sophia Excelsa Domine..." La donna eterna che salva l'uomo dalla dissoluzione. Dio mi aveva rifiutato per tutta la mia vita, ma io ero stato accolto da lei, tra le sue braccia. Come la Fenice, ero rinato dalla morte. M'incamminai come un purificato verso il quartiere popolare di Giza...
 
Documento planetario numero 666: "La seconda missione di soccorso su Marte, dopo aver tentato di mettersi in contato con la base spaziale Percival Lowell, ha trovato su di una collina i cadaveri di Irene Grandi e Sandro Reni, unici superstiti della missione Mars 13. La donna, unica sopravvissuta della prima missione di soccorso, con tutta probabilità è stata uccisa dall'uomo, colto da pazzia, causata dal panico di restare per sempre sul pianeta senza la speranza di una nuova missione di soccorso. In allegato, abbiamo riportato questi fogli scritti a mano ritrovati in una tasca della tuta dell'uomo..."
(2000-2001)

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 Ins. 09-12-2003