Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Maurizio Mariscoli
Ha pubblicato il libro
Maurizio Mariscoli - Raptus Opera


 
 
 
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
14x20,5 - pp. 136 - Euro 11,50
ISBN 88-8356-886-9


In copertina elaborazione

di Flavio Naspetti


 

Pubblicazione realizzata con il contributo de

IL CLUB degli autori in quanto l'autore con il racconto

«I lupi di Vargas» si è classificato 2° nel concorso letterario

«Marguerite Yourcenar» 2004


Presentazione
Incipit

Presentazione
La mistica di un dio che vacilla è proiettata verso l'unico involucro possibile, quello della carne. Nell'eterno bisogno del sovrannaturale il corpo non mente e ne diventa simbolo, racchiudendo in sé l'erotismo del feticcio, la sprezzante noncuranza dell'idolo. L'ignoto attrae l'avventuriero che proietta la curiosità verso il mondo di dentro, verso il perturbante universo psichico, scoprendone la verità più intima e segreta.
 
La convinzione spoglia Dio di ogni potere generativo e spunta dalla nebbia il terribile sospetto che l'uomo sia l'unico creatore e che la divinità non sia altro che pensiero.

Raptus Opera
 

Parole allo specchio
 
 
 
La verità è al centro del labirinto. Sensazioni mai definitive s'intrecciano in confusi arabeschi illusori, negando ogni principio d'identità. La realtà sfugge continuamente alla ragione che spesso viene invasa dall'impeto dell'immaginazione. I confini fra veglia e sonno si fanno labili in un mondo proteiforme dove ogni cosa rappresenta tutto e niente.
La conoscenza è un'utopia.
La mistica di un dio che vacilla è proiettata verso l'unico involucro possibile, quello della carne. Nell'eterno bisogno del sovrannaturale il corpo non mente e ne diventa simbolo, racchiudendo in sé l'erotismo del feticcio, la sprezzante noncuranza dell'idolo. L'ignoto attrae l'avventuriero che proietta la curiosità verso il mondo di dentro, verso il perturbante universo psichico, scoprendone la verità più intima e segreta.
La convinzione spoglia Dio di ogni potere generativo e spunta dalla nebbia il terribile sospetto che l'uomo sia l'unico creatore e che la divinità non sia altro che pensiero.
Fuori il labirinto, dentro lo spirito. Fuori la realtà, dentro i sogni. Volano in alto per poi precipitare e si smarriscono d'incanto alle prime luci dell'alba, quando tutto si fa nitido, quando non c'è più tempo per sperare e da lontano si intravede la nube nera della disillusione.
Invano si cerca di arginare il sogno che più straborda dal possibile, più diventa incubo. E allora si deve combattere per mantenere l'equilibrio, combattere insieme per una stabilità interiore. Guardarsi negli occhi, farsi forza, finché un giorno si scopre di essere diversi, soli. Soli con le proprie idee, soli con il proprio universo, cercando in tutti i modi di preservare lo spirito selvaggio, il nucleo più elementare, primitivo, contro la tirannia delle convenzioni sociali, contro le ipocrisie collettive, contro gli isterismi di massa, contro tutti quelli che si sono dimenticati di essere uomini, di essere vivi.
E l'eroe coraggioso sfida le avversità con un'invincibile forza di volontà, anche quando il vento soffia contro, quando tutto sembra perso, incurante dei doveri imposti dall'esterno, sempre attento alla sua intima voce interiore, quella della verità.
La sua purezza, pur assumendo infinite forme, finirà sempre e comunque per rappresentare lo stesso significato.
 

Maurizio Mariscoli


C'è una fonte d'acqua pura
 
 
 
Venga luminosa la giustizia, venga armata di spada. Sottovoce si esercitava mentre il sole si eclissava dietro ai monti. Il terreno, ricoperto da una fitta coltre di pioppi, sembrava innevato. Un becco sbatteva con insistenza contro una corteccia. Un cacciatore alato. Un leggero ticchettio si diffuse nel rossore del tramonto. Venga luminosa la giustizia, venga armata di spada, lo colpisca a morte attraverso la gola. La sua memoria tratteneva quelle parole, cercando d'imprigionarle definitivamente. Schegge di legno caddero dall'alto, svolazzando sopra di lei. Volse allora gli occhi al cielo e vide l'uccello scavatore. Quella morte vestita di piume assediava la tana di qualche insetto xilofago. Una minuscola forma di vita si contorceva inutilmente, intrappolata nel lungo becco. Ebbe la sensazione di sentire le urla di quell'agonia in miniatura. Piovvero tritumi di legno sulla sua veste bianca. Se li scrollò di dosso con un delicato movimento delle dita, tenendo gli occhi fissi su quei fogli come se volesse mangiarli. Venga luminosa la giustizia, venga armata di spada, lo colpisca a morte attraverso la gola, questo empio nemico di dio. Uno strepito di foglie e piume la fece sussultare. Lo vide volare leggero, fiero della preda catturata. L'ombra nera si stagliò sul cielo infiammato, e quell'uccello, illuminato da riflessi sanguigni, le sembrò una fenice. Libero, spensierato come tutti gli animali; come tutti gli animali immerso nel presente. Volò per qualche istante e si posò non si sa dove, perché lei non prestò più attenzione al suo sbattere d'ali. Era tornata a contemplare quelle parole sfuggenti, scivolose. Doveva prepararsi per la rappresentazione. Tra una settimana. È vero, non era la protagonista, ma ci teneva a far bella figura davanti ai compagni, all'insegnante, a sua madre. A suo fratello. Sì. Suo fratello. Lo avrebbe finalmente rivisto dopo tanto tempo. Era stato all'estero, in una cittadina inglese dal nome buffo e difficile, un nome che sapeva di chewing-gum. Chissà che avventure le avrebbe raccontato? Per lei era un modello, un esempio di specchiate virtù. Lo aveva sempre ammirato e spesso aveva cercato d'imitarlo. Eccelleva infatti in ogni cosa: nel tennis, nella corsa veloce, nel saltare i fossi, nell'arrampicarsi sugli alberi, nel combattere coi bastoni. Conosceva il latino, il tedesco, e ora anche l'inglese; come se non bastasse si era laureato con centodieci e lode. Quando suonava il pianoforte a stento si riusciva a trattenere la commozione. Aveva tutti i pregi che contraddistinguono un ottimo esecutore. Il suo spirito squisitamente musicale faceva vibrare i tasti d'avorio d'intensi fremiti di passione. Possedeva il virtuosismo di Liszt e il lirismo di Chopin. A quelle note impallidivano e si smarrivano gli spiriti, tanta era l'estasi che infondevano. Era stato lui ad insegnarle a suonare il piano. Con amore. Correggeva la postura delle sue mani sulla tastiera con straordinaria dedizione e lei lo ricambiava studiando assiduamente le scale musicali e gli esercizi che si addicono ad una pianista virtuosa. Eseguiva i brani che lui le proponeva con disinvoltura e compunzione. Muovendo le sue belle dita affusolate sui tasti immacolati, immaginava d'avere sotto il palmo della mano un mandarino. Quella fantasia avrebbe disciplinato le sue mani, portandole ad assumere la corretta posizione d'esecuzione. Così lui le aveva detto e lei non voleva deluderlo. Da allieva diligente manteneva costantemente un atteggiamento critico nei confronti del suo operato e coraggiosamente si sforzava di percorrere l'infinita strada della perfezione. Mentre si trastullava con quei pensieri, una brezza leggera l'accarezzò e portò con sé una voce. Remota, agitata. Arianna. Arianna. Probabilmente la mamma la stava chiamando da un po', visto che la sua voce, per il troppo urlare, aveva perso brillantezza facendosi rauca. Arianna! Tra un po' è ora di cena! Non star sempre lì a rimuginare! Muoviti! Vai a prendere l'acqua! Trasalì all'improvviso richiamo e precipitò dalle sue fantasie nella realtà di quel cortile alberato, esposto al debole soffio del vento crepuscolare. S'incamminò svogliata verso la grande casa rosa, che troneggiava a ridosso del verde come un gigantesco dolce di zucchero colorato. Era la casa dove abitava da quando era nata, da dodici anni. Sembrava progettata da un architetto pasticcere o dalla strega di Hansel e Gretel. I suoi piedi sollevarono soffici nuvole di pioppi, che annoiate galleggiarono nell'aria. Stava per abbandonare il cortile, dove era solita studiare, per raggiungere la fonte sepolta nella macchia sotto le fronde del vecchio salice. Volse il suo pensiero allo spirito dell'acqua. Doveva sempre farlo prima di prendere la brocca, altrimenti la maledizione sarebbe piombata su di lei portando sciagure e disgrazie. Si sentiva una bambina sciocca, quando si ritrovava a pregare un essere invisibile, probabilmente frutto della fervida fantasia contadina, ma era stata educata così. Nelle lunghe notti d'inverno sua madre le raccontava spesso dello spirito, della Giana, e le sue storie la riempivano di terrore e sacro rispetto. Si diceva che avesse le sembianze di una bella ragazza vestita di bianco, dai lunghi capelli, neri come la pece. Sua madre credeva ciecamente in quella misteriosa divinità della fonte. Si diceva che avvelenasse coloro che si accostavano alla sorgente senza credere in lei, ammorbando l'acqua col suo sguardo gelido, rendendola putrida e oleosa come quella di una fogna impestata dai ratti. Sì, probabilmente era solo una credenza quella, degna della proverbiale ignoranza contadina, ma ci fu un fatto che dissipò la nebbia del dubbio negli scettici.
Due anni prima, tre ragazzi venuti da fuori che cavalcavano per quelle lande assolate, ignari della leggenda, imboccarono il sentiero all'ombra dei salici e si accostarono alla fonte per dissetarsi. Probabilmente stavano ridendo e scherzando prima di morire. Li trovarono abbandonati lungo gli argini di pietra, un ghigno beffardo dipinto sul volto livido e contratto, i denti digrignanti come quelli di un cane rabbioso, e le mani strette all'altezza dell'ombelico come se avessero voluto strapparsi le viscere.
Uno spettacolo orribile che Arianna non vide di persona. Fu la mamma a raccontarle tutto, una mattina di primavera, mentre i pioppi cadevano fluttuando nell'aria, colorando tutto con il loro biancore. Quando arrivarono i contadini, i cavalli erano ancora vivi, ma non riuscivano a distogliere lo sguardo dalla loro immagine riflessa nella fonte. Furono spronati con grida, bastoni e forconi, ma rimasero immobili in quella strana catalessi. Offrirono loro biada e fieno, ma non ne vollero sapere. Ipnotizzati da un arcano incantesimo, erano come addormentati, ma con gli occhi spalancati, fissi nello specchio d'acqua riflettente. Dimagrirono rapidamente, deperirono. Morirono d'inedia tre giorni dopo, logorati, tragicamente consumati da quell'assurdo digiuno. Immoti, eretti come macabri giocattoli di carne rigida, assediati dalle mosche, divorati dai vermi.
Venga luminosa la giustizia, venga armata di spada, lo colpisca a morte attraverso la gola, questo empio nemico di dio. Arianna prese la brocca e rivolse la sua preghiera alla Giana. La dea l'aveva sempre ascoltata. Dissetata. Le voleva bene, come si vuole bene ad una vecchia amica, la temeva come si teme un dio. La conosceva da sempre, fin da piccola, quando la mamma le raccontava quelle storie, che la facevano tremare sotto le coperte, le lenzuola bagnate appiccicate al viso.
Rallentò il passo sotto l'ombra del salice. Al cospetto della fonte era sempre posseduta da una gelida inquietudine. Si guardò intorno. Non c'era nessuno. L'acqua corrente rompeva il silenzio col suo continuo e sommesso gorgoglio. Si diceva che l'ululato di un lupo avrebbe annunciato l'apparizione della Giana, ma in quelle terre non c'erano lupi. Come sempre a quel pensiero si fece coraggio. Lo colpisca a morte attraverso la gola. Si avvicinò alla magica scaturigine d'acqua fresca. Questo ingiusto figlio di Echione. Il vento sussurrò qualcosa. Come finiva la sua parte? Si sentì ad un tratto debole e stanca e la brocca le sembrò pesantissima. Un guazzabuglio d'immagini infuriò selvaggiamente nella sua testa, e si mescolò a quello sciame di parole sfuggenti che cercava disperatamente di ricordare. Si diceva che, prima di vedere quella bella ragazza vestita di bianco, un dolce tintinnio di campanelle si sarebbe diffuso per le campagne. Vide i ragazzi dai denti digrignanti nella rigidità della morte, i forconi dei contadini, quel picchio spietato assassino d'insetti, e infine quei lugubri cavalli vanitosi che si specchiavano. Fantasmagoria di riflessi d'acqua. Fortunatamente quella visione si dissolse in pochi istanti. Poi si ricordò la fine del verso: questo ingiusto figlio di Echione, partorito dalla terra.
 
Faceva caldo nel teatro: un caldo insopportabile. Era colpa dei riflettori: arroventavano l'aria rendendola irrespirabile. Era colpa del palcoscenico: piccolo per le bambole. Forse i grandi le avevano scambiate per bambole tutte quelle garrule dodicenni dalla voce sguaiata. Il pubblico non era numeroso. Le sedie erano poche ed alcune erano vuote. Non si poteva pretendere niente da uno spettacolo scolastico pomeridiano. Forse i grandi non avevano dato il giusto valore a quella rappresentazione, ma ad Arianna non interessava nulla dei grandi. Era selettiva per natura, e non concedeva confidenze tanto facilmente, un po' per l'educazione che aveva ricevuto da sua madre, un po' perché era animata da uno smisurato amor proprio che le causava spesso problemi nelle relazioni interpersonali. Si sentiva un genio da quando per diletto, due estati prima, col prezioso aiuto dell'insostituibile fratello, aveva tradotto alcuni passi delle Metamorfosi di Ovidio, quelli che riguardavano il mito di Narciso. Padroneggiava la grammatica latina con un'agilità di pensiero sconvolgente. Era una bambina, un piccolo prodigio dai riccioli biondi che guardava le sue coetanee, incapaci di comprendere l'antica romana lingua, con deliziosa alterigia. Arianna si sentiva diversa. Dentro di lei la sete di conoscenza era inestinguibile. Suo fratello l'aveva contagiata con l'ancestrale malattia che nei secoli aveva colpito poeti, filosofi e scienziati: la malattia del sapere, caratterizzata da una curiosità morbosa, aristotelica. E poi c'era il pianoforte. Era questo strumento a farla sentire più di ogni altra cosa diversa. Una dea. Quando eseguiva un brano volando leggiadra con le dita sui tasti d'avorio, aveva come l'impressione di vincere ogni avversità. Le sublimava. Suonava gli Arabesques di Debussy con precisione e trasporto, vivificando le note con l'intensità del suo spirito. Il suono del pianoforte permeava le pareti di quella casa rosa fino a perforarle, a trapassarle, invadendo l'aperta campagna e gli intimi recessi della macchia, su, fino alla fonte. La sua maestria nell'esecuzione di quelle composizioni esatonali d'indubbia difficoltà stilistica era ovviamente dovuta alla devozione di suo fratello. Quell'adorabile precettore aveva instillato in lei la convinzione di essere speciale, unica. Un genio. Una dea. Gutta cavat lapidem.
Ma dov'era quel creatore di dee? Perché prima di cominciare lo spettacolo non era ancora comparso?
Esaminò il pubblico con lo sguardo. Niente. Un sudore appiccicoso cominciò a colarle sotto il delizioso vestitino bianco. Le sue speranze cominciarono a vacillare di fronte all'incalzante sconforto che dilagava come un'epidemia. Poi lo vide seduto. Se ne stava lì, vicino alla mamma, assorto nella contemplazione della scena. Come un miraggio. Sognante, estatico, la stava guardando. Lui che sapeva fare gli origami più incredibili, lui che sapeva combattere e tirare di scherma, lui valoroso guerriero, scaltro risolutore d'enigmi scacchistici, sapiente filosofo, musicista eccentrico, impareggiabile amante. Versatile, multiforme come Proteo, poteva essere tutto ai suoi occhi incantati.
Arianna fu scossa da una violenta emozione alla vista di quello sguardo pieno d'aspettative. E tu manifestati in forma di toro, o di drago dalle molte teste, o di leone fiammeggiante, recitarono le fanciulle. Per fortuna pronunciarono quei versi in coro e nessuno fu in grado di distinguere chiaramente la voce di Arianna. Tremava.
 
S'abbracciarono per un istante interminabile. Le sue narici ispirarono avidamente l'odore della sua pelle. Ancora insieme dopo tanto tempo. Fratello e sorella. Amanti immaginari. Quello era il suo cavaliere: si sarebbe arrampicato sulla sua treccia per salvarla dalla strega malvagia, avrebbe sguainato la spada per decapitare il drago fiammeggiante, l'avrebbe salvata in ogni modo possibile e immaginabile, ma adesso quegli occhi sembravano diversi. Arianna stentò a riconoscerlo. Ma era davvero suo fratello? Sembrava freddo, insensibile. Dov'era finita la loro intesa speciale fatta di sguardi e palpitazioni? Le prime dieci parole che fuoriuscirono da quelle labbra infransero per sempre la magica empatia. Fra di loro una distesa di ghiaccio.
Quattro stagioni lo avevano trasformato? Erano bastati dodici mesi per seppellire tutto quello che c'era stato? Dov'era finito il suo fascino alla Lord Byron? Dov'era finito il suo eroe? Annegato in un frullato d'arroganza?
No, certo. Non era possibile, eppure le sue parole non traboccavano più d'amore. Trasudavano il corrotto liquame del vizio. Fastidio.
Arianna percepì chiaramente la mutazione che aveva subito il fratello. Idiosincrasia.
Ora il suo pensiero era volto al concreto e il suo alito sapeva di insulse banconote e monete rugginose. Repulsione.
Trecentosessantacinque giorni e lo sentiva lontano. I suoi discorsi erano volti all'esaltazione di sé. Nient'altro. I complimenti che le aveva rivolto erano dettati esclusivamente dalle buone maniere; le smorfie che faceva con le labbra erano leziose, affettate, come finti baci di prostitute. Sorrideva a sua madre, sorrideva ad Arianna, ma il suo era lo spaventoso sorriso di circostanza dei politici. Emanava superbia da tutti i pori della pelle. Quel sussiego solenne e ostentato, quella rigidità da superuomo in carriera avevano soppiantato la dedizione, l'affetto e gli amorevoli riguardi dei tempi trascorsi. Michele! Come sembri grande! Sarà il lavoro! Lui diceva di essere quello di sempre e si nascondeva dietro uno schermo di falsa modestia mentre la mamma tesseva lodi sperticate nei suoi confronti. Diventerai importante! Il migliore di tutti! Probabilmente la sua sfrontata superbia non aveva bisogno che qualcun altro gli confermasse quello che sapeva già. Si limitò a sorridere, continuando la farsa di colui che finge di non meritarsi elogi. Superarono il bivio che portava in città e si diressero sotto il grande ponte a bordo di quell'auto che puzzava di nuovo. Oltrepassarono i campi da tennis, dove spesso Arianna aveva giocato con Michele. Quindici-zero. Si erano divertiti molto insieme. Trenta-zero. La palla gialla rimbalzava baldanzosa sul terreno rosso. Match-point. E Arianna così piccola che riusciva a batterlo. Forse era lui che la faceva vincere, perché le voleva bene; il suo amante immaginario, quello che ora le appariva come un estraneo, un alieno venuto da chissà quale pianeta. Parlava di sé. Nient'altro. Rivolse le prime finte parole d'affetto alla sua sorellina, quando la macchina stava ormai percorrendo il cortile di pioppi. La cortesia spinse Arianna a rispondere, ma dentro di lei un'indefinita allergia paralizzava ogni suo moto sentimentale verso quel repellente ultracorpo venuto dallo spazio. E pensare che una volta la faceva sentire così speciale. Scesero dall'auto al crepuscolo. Arianna! Vai a prendere l'acqua che ceniamo!
Quell'ultracorpo travestito da fratello le concesse la sua compagnia.
 
Avanzarono lungo la landa desolata che precede la macchia; lui parlava delle sue avventure in Inghilterra, del suo lavoro che gli stava dando notevoli soddisfazioni, ma lei non lo ascoltava. Le parole scivolose trasportate da quella voce meccanica e strisciante la infastidivano notevolmente. Non ascoltava, e a lui non importava. Incurante della repulsione che suscitava nella sorella, quello smargiasso sputava frasi imbevute di catarro e brama di denaro.
S'inoltrarono in mezzo alla vegetazione fatta d'alberi secolari, glicine e rampicanti attorcigliati, punteggiati qua e là di ginestra e passiflora.
Hai detto la tua preghierina? Accennò alla Giana. Lei lo guardò in tralice lampeggiando rabbia. Certo che l'aveva detta. Aveva pregato. Dentro di lei. Nelle parole di quel marziano in carriera lo scetticismo dell'illuminista era mescolato al distruttivo desiderio dell'iconoclasta. L'uomo di successo poteva permettersi il lusso di dileggiare quelle puerili credenze campestri e lo faceva senza il minimo rimorso, senza rendersi conto che si stava allontanando dalle sue origini, da tutto ciò che era stato, da sua madre, da sua sorella. Il brivido di credere in qualcosa non lo scuoteva più. Si sentiva in grado di deridere quella diafana ninfa trasparente, protettrice delle fonti, che per lui aveva smesso di esistere. Ora era abbastanza forte da uccidere la sua leggenda, abbastanza forte da uccidere qualsiasi fiaba.
Quando s'appressarono alla sorgente, Arianna fu colta dalla solita sottile inquietudine, ma questa volta era più intensa. Penetrò nella sua spina dorsale come una lama di ghiaccio. Da un momento all'altro s'aspettava di veder comparire la bella dama vestita di bianco. Quell'eretico rideva, rideva, e sfidando la leggenda s'avvicinò all'acqua, oltraggiandola col pensiero. Improvvisamente si udì il lontano lamento d'una bestia. Un lupo. Ma non c'erano lupi in quelle campagne. Una folata di vento scosse il salice, e un tintinnio di campanelle risuonò nell'aria, come se da tutte quelle foglie piangenti cadessero lucenti lacrime di cristallo. La brocca le tremò in mano. Improvvisamente le sembrò di marmo.
Il miscredente rideva asciugandosi le labbra bagnate con la mano. Si sentiva l'eroe che più non era agli occhi di lei. Cascate immonde sgorgavano dalle labbra di quel demone sghignazzante. Le campanelle si diffusero ancora nell'aria. Femminee. Sembravano suoni d'arpa o di pianoforte suonato come un'arpa. Stordirono la ragazzina impaurita. La illuminarono. Solo allora il presentimento divenne certezza e Arianna comprese che quello non era il lamento di un cane, ma l'agghiacciante ululato di un lupo.
 
Lo ritrovarono galleggiante in quello specchio d'acqua. La fonte lo aveva inghiottito. Quando era stato colto dal malore, Arianna si era precipitata a casa dalla mamma, piangendo disperata dalla paura. I dottori ipotizzarono un infarto. Ma lei sapeva.
Guardava quel corpo turgido d'acqua, teso e rigido come una statua di pietra, fisso in quell'estrema espressione d'agonia. Digrignava i denti come quei ragazzi venuti da fuori. Era morto come quei poveri cavalli. Tutti si facevano domande e cercavano invano di far luce su quel mistero. Tante risposte. Nessuna vera. Lei sapeva.
I denti serrati dallo spasmo, le labbra tumide, rigonfie di liquido. Sembravano corrose. Qualcosa di spaventoso penzolava da quella bocca. Lembi di pelle o filamenti di saliva? Non aveva più importanza. Il cavaliere impavido, l'arrampicatore di trecce, il cacciatore di streghe, l'uccisore di draghi galleggiava morto nella vasca della fonte, colpevole d'essersi trasformato in un immondo ultracorpo. Ma lei non pianse. L'acqua non si mescolò alle lacrime. Rimase pura, cristallina. E mentre sua madre si disperava di fronte a quell'involucro di carne che fissava nella rigidità della morte le fronde del vecchio salice, Arianna inspirava. Espirava. Come se niente fosse. Un'inquietante indifferenza s'impadronì di lei. Accadde così. Inaspettatamente.
Venga luminosa la giustizia, venga armata di spada, lo colpisca a morte attraverso la gola, questo empio nemico di dio.
 

L'orco
 
 
Il vento faceva tremare i vetri in quel tardo pomeriggio d'autunno. Caterina osservava il parco solitario dalla finestra della sua cameretta, in mano il cellulare ancora illuminato per l'ultimo messaggio ricevuto. Non ti piaccio, quindi sarebbe inutile uscire con te. Grazie per la sincerità. Uno dei tanti spasimanti che aveva rifiutato, anche se questo era diverso. Non insisteva come gli altri, ma accettava la sconfitta senza la minima pretesa di rivalsa. La rispettava. Il corteggiatore perfetto. Le sue parole sembravano uscite dalle labbra di un impavido cavaliere traumaticamente trasportato nell'asettico mondo contemporaneo. Quella non era una frase da adolescente. Amo la trasparenza anche quando mi fa sentire il mostro delle fiabe. Le aveva soltanto chiesto di uscire, ma si sentiva ugualmente un mostro, per aver osato insidiare un'acerba fanciulla quattordicenne. Sì, perché lei aveva quattordici anni, esattamente la metà di quanti ne aveva lui.
Lo aveva conosciuto per caso, due settimane prima. Avevano un amico in comune, nient'altro. Quello era stato il suo lasciapassare. In un attimo quel perfetto sconosciuto si era sentito in diritto di guardarla dritta negli occhi, di rivolgerle la parola. Ho scritto un cortometraggio. Sto cercando un'attrice e mi chiedevo se tu... Lei? Ma aveva solo quattordici anni! Caterina, colta alla sprovvista e al contempo lusingata dall'implicita ammirazione che quel ragazzo nutriva per lei, gli aveva lasciato il suo numero di cellulare; una mossa avventata di cui si era subito pentita.
Mai dare confidenza agli estranei, neanche a quelli appena conosciuti, che sventolano un amico in comune come biglietto da visita.
Sì, era carino. Più grande di lei. Da come le aveva rivolto la parola lo si poteva giudicare un ragazzo romantico. Senz'altro maturo. Meno stupido dei suoi coetanei. Forse vent'anni. Non sembrava avere cattive intenzioni; le aveva soltanto chiesto di partecipare al suo cortometraggio, ma sicuramente c'era sotto qualcosa. Non era un'ingenua. Sapeva di essere bella e sapeva che cosa volevano i ragazzi di vent'anni da una come lei; non si accontentavano certo di baci fugaci e frivole promesse. Poi scoprì che quel misterioso ammiratore non ne aveva venti, ma vent'otto di anni, e fu allora che la sua naturale ritrosia divenne repulsione. Paura. Ma che voleva da lei? Come si permetteva? Con che diritto le inviava quei messaggi?
Amo la trasparenza anche quando mi fa sentire il mostro delle fiabe.
Belle parole, soprattutto dopo un rifiuto. Dimostravano consapevolezza, autoironia, introspezione, fantasia. Spero che tutto ti vada bene. Un bacio-M. Belle parole, ma non l'avevano convinta. Caterina fissò per qualche istante il quadrante del suo cellulare, il tempo necessario per decidere che non gli avrebbe risposto. Dopo tutto non c'era nessuna domanda.
Tornò a guardare il parco fuori della finestra. Il vento sollevava turbini di foglie secche, facendo vibrare gli scheletri degli alberi.
Non c'era nessuno tranne lui.
Caterina lo aveva visto altre volte. Compariva sempre a quell'ora, a pomeriggio inoltrato, quando i raggi di sole s'indebolivano, quando le ombre s'allungavano sinistre sui salici o quando, in giorni come quello, il vento imperversava su ogni cosa gli capitasse a tiro. Era un uomo di mezza età, corpulento, robusto. Portava sulla schiena un enorme sacco di iuta e se ne stava lì, curvo su se stesso, rastrellando l'erba del parco con la mano. Cosa cercava? E che c'era dentro il sacco? Possibile che raccogliesse foglie secche? Così sembrava. Ma a cosa gli servivano? Forse era un giardiniere. Lo vide oscillare in avanti; per un attimo ebbe l'impressione che il vento stesse per farlo cadere rovinosamente a terra, ma quell'uomo dalla stazza poderosa riuscì a reggersi in piedi, il sacco sulle spalle, curvo sotto le sferzate d'aria gelida; riuscì persino a torcere la testa verso di lei. Centottanta gradi sul suo asse. Come un rapace notturno.
Non era possibile, eppure quegli occhi lontani la fissavano.
Un forte odore d'erba giunse fino a lei su ali di vento. Lo avvertì distintamente. Proveniva da fuori. Dal parco al di là del vetro. Un odore pungente. Muschiato. Caterina si ritirò istintivamente dalla finestra, fuori della sua vista. Aveva paura. Era enorme, la testa lucida, completamente priva di capelli e gli occhi... non poteva vederli, ma ne era sicura... gli occhi di chi sa aspettare, gli occhi di chi ha fame.
Odore d'erba bagnata. Non poteva crederci. La finestra era chiusa e nessun odore poteva raggiungerla.
Si distese sul letto cercando di rilassarsi, le braccia lungo i fianchi, il cellulare ancora in mano. Il cuore le martellava il petto, furiosamente, come se volesse sfondare la gabbia toracica. Cercò di dominare il respiro, dilatando il diaframma, disperdendo il pensiero. Poi il sonno l'abbracciò e le sussurrò dolci parole all'orecchio. Non è possibile. Nessun odore da dietro la finestra. No. Non è possibile. Nessun odore. Eppure l'aveva sentito. L'odore di quell'uomo, mescolato a quello del parco. Era giunto fino a lei trasportato dal vento. Penetrante. Oltre il fragile vetro della finestra. Odore di muffa.
 
 
Non sapeva quanto tempo avesse dormito. Fu svegliata dal respiro pesante di suo padre. Si stropicciò gli occhi, la testa confusa, le membra ancora intorpidite. Le formicolava la gamba sinistra. Probabilmente durante il sonno aveva assunto una posizione innaturale che aveva ostacolato la circolazione sanguigna. Il suo sguardo vagò per un po' senza meta per le buie pareti della stanza, finché non incrociò le cifre luminose dell'orologio. Le nove. Dunque aveva dormito soltanto pochi minuti. Per questo si sentiva così stordita.
Si alzò dalla sua posizione distesa e ristette confusa e attonita a fissarsi i piedi, mentre lentamente scivolavano dentro le pantofole. Quello sinistro le pulsava fastidiosamente come un pezzo di carne anestetizzato. Laggiù non sentiva niente; solo circolari vibrazioni irradiate dal sangue che debolmente ricominciava a fluire. Con un tremendo sforzo di volontà riuscì ad alzarsi in piedi. Si stiracchiò emettendo suoni inarticolati farciti di sbadigli, mentre emergeva lentamente dalle nebbiose paludi del sonno. Fra i pensieri che dentro di lei galleggiavano opachi ce n'era soltanto uno che brillava di luce propria: aveva fame.
Dai flebili rumori che provenivano dalla cucina, capì che sua madre era tornata e che stava preparando la cena. Era in ritardo. Di solito mangiavano prima, ma evidentemente quel giorno la mamma aveva avuto una lunga giornata di lavoro. Suo padre non sembrava così preoccupato per la cena, visto che ronfava beato sotto le coperte, ma lo stomaco di Caterina stava vivacemente protestando.
Si accorse che la temperatura era vistosamente calata da quando si era addormentata. Faceva freddo. Fece due passi e accese la luce. Posò una mano sul termosifone e si accorse che era spento. Ma che stava facendo sua madre? Perché non aveva acceso il riscaldamento? Il vetro della finestra vibrò, resistendo a una gelida folata di vento. Caterina, scossa dai brividi, prese il maglione bianco appoggiato alla sedia della scrivania e lo indossò rapidamente.
Ora sì che andava meglio!
Si rimirò allo specchio verticale vicino al grande mobile di noce. Il bianco le donava; metteva in risalto il rosso dei capelli e conferiva al verde dei suoi occhi la magica luminescenza dello smeraldo. Stava pensando che tutte le ragazze coi capelli rossi e gli occhi verdi avrebbero dovuto avere un maglione bianco come quello, quando sentì il bicchiere cadere.
Mamma mani di ricotta.
Sorrise e disse a voce alta: "Mani di ricotta."
La mamma non rispose a quella provocazione. Silenzio. Soltanto il respiro sommesso di suo padre scandiva lo scorrere dei secondi. Caterina fece due passi in avanti, decisa a raggiungere la cucina, quando la sua pantofola schiacciò qualcosa. Guardò a terra e rabbrividì. Una foglia. Ma come era finita lì?
Il vento.
Forse sua madre era uscita un attimo in terrazzo e aveva lasciato la finestra aperta. Sì, era sicuramente andata così, perché non poteva credere all'altra ipotesi che stava formulando il suo cervello. Nessuno poteva entrare in casa sua. La porta d'ingresso era blindata e avrebbe sfidato chiunque... e poi c'era suo padre... sua madre... si sarebbero accorti... non avrebbero mai permesso che...
Altre foglie furono soffiate dal vento fino alla sua cameretta. Caterina le fissò per un attimo, cercando di soffocare quel pensiero che cercava di terrorizzarla. Per un po' riuscì a resistere, poi cedette. Come un assassino s'insinuò dentro di lei uccidendo una dopo l'altra tutte le sue fragili certezze. Non ci sono. Mamma e papà non ci sono. Non ricordi? Dormono fuori stanotte.
Era sola. La mamma non stava preparando la cena, non era andata in balcone, qualcun altro aveva aperto la finestra permettendo alle foglie di entrare; non di suo padre, ma di qualcun altro era quel respiro che ora si era fatto più vicino.
Caterina restò in silenzio, le orecchie tese, paralizzata dalla paura. Quel respiro lento, pesante dilatava all'estremo gli enormi polmoni di quell'essere quasi a farli scoppiare, per poi sgonfiarli come fosse vento. Lo immaginò contorto, col sacco sulle spalle, il collo disarticolato come quello di un gufo. Vicino a lei gli anfibi neri con i quali era andata a scuola quella mattina. Lentamente, senza fare il minimo rumore se li infilò. Dalla porta semichiusa Caterina non poteva vedere nulla. Solo le foglie. Solo il buio. Chissà, forse era già là, oltre la porta, appollaiato nell'oscurità, e la divorava con gli occhi, mentre s'infilava gli anfibi.
Calma. Caterina stai calma. Sai cosa devi fare.
Prese il cellulare da sopra la coperta del letto e se lo infilò in tasca. Voleva telefonare ai suoi, ma non poteva. Avrebbe infranto quel magico silenzio e allora lui sarebbe venuto a prenderla. Le rimaneva soltanto una cosa da fare. Cominciò a contare dentro di lei. Uno, volse lo sguardo al di là della finestra: il parco era vuoto. Due, strinse forte i pugni delle mani per accumulare energia, chiedendosi se ce l'avrebbe fatta. Tre, con un estremo sforzo di volontà, singhiozzando e tremando di paura, cominciò a correre. Si catapultò fuori della porta, attraversando il corridoio da dove proveniva il tenebroso respiro e non si fermò più, neanche quando le foglie secche scricchiolarono sotto di lei, neanche quando davanti alla cucina le venne in mente di prendere un coltello, neanche quando le sembrò di vedere vicino alla poltrona del salotto un grosso sacco di iuta.
 
Stava ancora correndo quando tentò di telefonare ai suoi genitori col cellulare e fu costretta a sentire quella maledetta voce meccanica. Il telefono della persona chiamata non è al momento raggiungibile. La preghiamo di richiamare più tardi. Rallentò il passo. Respirò profondamente, cercando di calmarsi. Attraversò la piccola piazza di fronte alla chiesa. Sopra il portale la bianca statua della Vergine l'attendeva come sempre a braccia aperte. Da sempre stava lì; da sempre in quella scultorea posizione di misericordia, per confortare tutti coloro che volevano essere confortati, per perdonare tutti coloro che volevano essere perdonati, coi suoi gelidi occhi di marmo.
Il campetto dell'oratorio era illuminato dai pallidi riflessi lunari. Tutt'intorno una vertiginosa rete metallica, che Caterina non aveva mai visto prima. Forse avevano fatto dei lavori. Era un po' che non ci passava davanti. Era un po' che non andava a messa. Sua madre diceva che era l'età, l'adolescenza coi suoi pruriti e le sue smanie improvvise, la voglia di cambiare, di stravolgere la propria scala di valori, ponendo al di sopra di tutto il desiderio più forte: trovarsi un ragazzo. Sì. Forse sua madre aveva ragione. Era per quello che non andava più in chiesa; non perché non credeva più in Dio, ma perché aveva altro di meglio da fare. Questione di priorità. Sta di fatto che non aveva mai visto quella soffocante recinzione che imprigionava il campetto, come non aveva mai visto quei ragazzini che giocavano a pallone in piena notte. Urlavano, imprecavano, e le loro parole giungevano incomprensibili alle orecchie di lei, smorzate, sbiadite, semicancellate dall'ululato del vento. No. Anche senza vento non avrebbe compreso. Erano stranieri.
Non appena uno di loro la notò, tutti i giocatori di quella misteriosa partita al chiaro di luna si fermarono. Erano sei, tutti fra i tredici e i quindici anni, di carnagione olivastra, voltati verso di lei. La osservavano in silenzio, lo sguardo stolido. La desideravano come si desidera un dolce spruzzato di zucchero a velo. Caterina avrebbe dovuto raggiungere la casa della zia, situata al di là della rete, ma si arrestò, incapace di proseguire, intimorita da quel branco di ragazzini che la fissavano come lupi affamati. Ma come avevano fatto ad entrare? Di notte era proibito giocare a pallone nel campetto. Avevano scavalcato la rete?
Indossavano felpe consunte, pantaloni logori, rattoppati qua e là con delle sudice pezze. Nient'altro, ma il vento non aveva alcun potere su di loro.
Caterina, come una testuggine, ritrasse la testa fra le spalle e si abbracciò forte, cercando di resistere alle gelide frustate d'aria.
Rimpianse di non aver preso una giacca più pesante, ma quando si era indossata quel bellissimo maglione bianco, non avrebbe mai immaginato di uscire di casa. Di notte. Al freddo.
Rimpianse il suo corteggiatore ventottenne; quei ragazzini sembravano molto più pericolosi di lui. Era sicura che il suo cavaliere romantico l'avrebbe protetta, ma ormai era del tutto inutile fantasticare: la realtà era un'altra. Una dozzina d'occhi puntati contro di lei. Affamati.
Uno di loro si era chinato e aveva preso qualcosa da terra. Una pietra?
Un altro fece la stessa cosa.
Volevano lapidarla?
Un terzo li imitò.
Ma allora perché aspettavano?
Quattro ragazzini con le pietre in mano.
Che cos'era? Una tortura?
Anche facendo appello a tutto il suo coraggio, Caterina non riusciva proprio a muoversi. Non era in grado di parlare, di emettere alcun suono. Se solo l'avessero aggredita, lei non avrebbe avuto neanche la forza di gridare aiuto. Se ne stava lì sotto l'assedio del vento, paralizzata dalla paura. Congelata.
Ad un tratto, la domanda che aveva in testa e che non riusciva a fare a quei ragazzi fu formulata da una voce adulta dietro di lei.
Scusate, come si arriva al di là della rete?
Era una signora sui cinquanta; indossava un pesante cappotto marrone, un paio di pantaloni blu e scarpe da trekking ai piedi. Ci fu un attimo di silenzio, poi uno dei ragazzi, dopo aver scambiato un'occhiata d'intesa con un suo compagno, indicò la zona d'ombra a sinistra del campetto. La donna ringraziò cordialmente e s'incamminò nella direzione indicata.
"Aspetti! Vengo anch'io con lei!" - Caterina aveva ritrovato voce e coraggio.
"Va bene" - sorrise la signora - "Brrr...che freddo! Ma come fai a stare solo con quel maglione?"
"Sono rimasta chiusa fuori casa. Non ho le chiavi...stavo andando da mia zia, solo che quella rete..." - inventò Caterina, seppellendo sotto un tono di normalità tutta la paura che aveva dentro. Non poteva certo raccontarle dell'uomo col sacco sulle spalle. Aveva quattordici anni. Era grande ormai e non aveva nessuna voglia di essere scambiata per una bambina piagnucolosa.
Avanzarono verso la macchia scura. Una costruzione fatiscente, laggiù, dove lussureggiavano le tenebre.
Per oltrepassare la rete dovevano entrare lì dentro?
Caterina era sicura che c'era sotto qualcosa e non riusciva a capire se la signora, che aveva detto di chiamarsi Amanda, era un'ingenua o aveva fatto finta di credere alle parole di quei loschi ragazzini.
Scossi dal vento i rami degli alberi cigolavano spettrali, mentre l'insegna scolorita che si intravedeva da lontano, diventava più grande, sempre più grande, la sua scritta più leggibile. Parrucchiere.
"Ex-parrucchiere" - disse Caterina dopo aver aperto la porta cigolante, divorata dai tarli.
L'ambiente in cui erano finite faceva venire la pelle d'oca. Caschi e lavandini sommersi dalla polvere, infestati dalle ragnatele.
In quel posto non entrava più nessuno da anni. Amanda si mise a ridere e pensò che quello era uno scherzo.
In fondo alla stanza un gigantesco scaffale ricoperto da un sudario di cellofan e due tende di plastica; se ne stavano lì, impenetrabili, come se aspettassero. Sicuramente non portavano da nessuna parte.
Caterina pensò che non c'era neanche da discutere: sarebbero tornate indietro. Quel lugubre sipario nascondeva qualcosa di pericoloso e non conveniva rischiare. Una voce le urlava dentro. Scappa. Scappa. Ma aveva troppa paura per tornare indietro da sola e quindi fu costretta a proseguire, perché Amanda, spinta da una curiosità morbosa, era già stata ingoiata dalla porta traslucida.
Quegli opachi strati di plastica si sollevarono e si richiusero per due volte, rivelando un ambiente umido e stretto, fatto tutto di legno. Per terra una grande pozza d'acqua. Era entrata dal soffitto. Fra le assi sconnesse si erano formate voragini per l'acqua scrosciante.
Appoggiati ad una parete intrisa di muschio e umidità due manichini disarticolati, semidistrutti. Uno aveva un buco sulla testa e aveva perso un braccio, mentre l'altro era stato letteralmente smembrato. Era come se una furia omicida si fosse abbattuta su quei corpi di gesso.
Lo sportello a specchio di un vecchio armadio a muro si apriva e si chiudeva famelico, stregato dal malefico influsso del vento.
Caterina sobbalzò. Scappa. Scappa.
Lo specchio era rotto e riflesse l'immagine spezzata di Amanda, mentre faceva scorrere la mano sinistra sulla superficie scheggiata dell'armadio, attratta dal suo fascino ammuffito. Caterina non si accostò allo specchio, non si avvicinò all'incauta signora, ma rimase a fissare cogli occhi pieni di terrore la lunga lama appesa alla parete, proprio sopra la macchia scura. Il coltello faceva paura, perché era bagnato come se qualcuno l'avesse appena usato, ma più paura faceva la macchia. Aveva attecchito sulla parete fradicia, prolificando. Puzzava. Non una semplice chiazza verdastra, ma una colonia.
Nella sua mente confusa una miriade di pensieri turbinò furibonda intorno a quell'afrore che aveva sentito più di una volta; quell'odore di palude, d'erba bagnata, di muschio. Muffa.
Istintivamente si nascose dentro l'armadio, veloce come il lampo, incurante delle ultime parole pronunciate da Amanda; perché sentiva che non c'era più tempo per riflettere, non c'era più tempo per scappare. Lo sentiva correre. Dietro di loro. Sapeva che aveva già oltrepassato la vecchia porta mangiata dai tarli e stava caricando come un cinghiale impazzito contro le lucide ante di plastica. Rapido l'odore di muffa correva infestando l'aria, scagliandosi contro chi aveva profanato la sua dimora. Acutissimo, il suo grugnito fu l'ultima cosa che Caterina udì prima di rannicchiarsi dentro l'armadio, prima di chiudere gli occhi, di tapparsi le orecchie.
 
 
Aveva contato fino a tre. Ci aveva tanto sperato. Sì. Al tre avrebbe riaperto gli occhi e si sarebbe ritrovata al sicuro, in camera sua. Ci aveva sperato, ma non fu così. Per prima cosa vide le scarpe da trekking di Amanda che oscillavano a dieci centimetri da terra. Vicino c'era un paio di pantaloni sporchi, rigati d'erba e dentro i pantaloni c'era l'odore di muffa. Un rumore di carne trapassata da una lama. Perforava, tagliava senza pietà. Quel macellaio non l'aveva vista, ma l'avrebbe cercata. Oh sì, l'avrebbe cercata!
Caterina s'acquattò contro la parete di legno scongiurando Dio. Non voglio morire. Ti prego. Andrò tutte le domeniche a messa. Ti prego. Non voglio morire. Ma era come parlare al muro. Dov'era Dio? Perché permetteva succedessero cose tanto cattive ad una ragazza così bella come lei? Dov'era? Forse non c'era. Anche lui era uscito quella notte. Aveva da fare. Faceva soffiare il vento, faceva cadere le foglie e poi... chissà... anche lui le raccoglieva mettendole in un sacco.
Un torrente di sangue scese impetuoso sulle scarpe da trekking di Amanda. La stava sventrando, sviscerando, la voleva fare a pezzi per poi metterla nel sacco. L'avrebbe smembrata come aveva fatto coi manichini.
Finalmente l'aveva scoperto. Non raccoglieva foglie secche, ma pezzi di carne. Ecco cosa c'era dentro il sacco. Carne.
L'avrebbe denunciato alla polizia e per lui sarebbe stata la fine. Si trattava soltanto di aspettare in silenzio. Aspettare che finisse di giocare con Amanda. Aspettare che se ne andasse.
Ce l'avrebbe fatta. Non sospettava di lei. Si era nascosta in tempo.
Poi un suono flebile, acuto infranse il silenzio. Caterina sentì il suo stomaco contrarsi. Quel suono maledetto veniva dalle sue tasche. Se n'era completamente dimenticata. L'aveva lasciato acceso. Il cellulare. Un messaggio. Represse un grido isterico sperando che lui non se ne fosse accorto. Scese il silenzio come un panno bagnato su un cuore in fibrillazione. Poi i passi pesanti e quel respiro. Cavernoso. Dalla stretta fessura dell'armadio vide i pantaloni rigati d'erba e quel viso fatto tutto di tenebra. Uggiolò disperata, gli occhi spalancati, il fiato corto di chi sta per affogare. Era la fine. Lo sportello dell'armadio si aprì e il tanfo dilagò soffocandola. Una zaffata di morte. Mani umide di sangue si protesero verso di lei.
L'ultimo atto di un corteggiamento perverso.
Tutto finito per colpa di quel messaggio.
Perché fai così? Io non sono il mostro delle fiabe!

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Ins. 30-05-2005