Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Maurizio Cotrona
Con questo racconto ha vinto il primo premio nella settima edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2003
Staffetta
 
È giovedì, ed ho tempo. Il tempo per qualsiasi cosa voglia. Dovrò aspettare almeno lunedì perché il dovere bussi alla mia porta, forse anche di più. Credo leggerò qualcosa oppure mi farò ipnotizzare dalla TV, ma non uscirò di casa.
 
La mia casa ha un lungo corridoio, e non è uno scherzo attraversarla.
Sono cinquantuno passi, li ho contati. Se c'è da muoversi dalla mia camera al salotto, mi assicuro sempre di aver portato con me tutto quello di cui potrei aver bisogno: rubrica, telefono, penna, quaderno, fazzoletti, libri. La mia casa è lunga, e mentre l'attraversi hai tempo per riflettere.
 
Rifletto sul fatto che più nulla mi emoziona. Non voglio nulla e nulla mi manca. Non mi importano più le persone e la loro ammirazione. Sto immobile sul letto nella mia camera e non so nemmeno cosa augurarmi. Ho tutto alla portata di un telecomando, e non lascerei il mio letto se il citofono non mi costringesse ad alzarmi ed attraversare il corridoio.
 
Quando attraverso il corridoio non posso fare a meno di concentrarmi su me stesso, sul mio corpo. Oltre alle spoglie pareti, il mio corpo è l'unica cosa ad esistere qui. Non che sia poco. Il mio corpo in movimento è quanto basta per fare apparire insignificanti le mie facoltà di comprensione: vengo travolto da un mare di intuizioni sulla mia natura, sull'evoluzione della mia specie, su come sto spendendo la mia vita. Fra le tante intuizioni incompiute, mi sembra di scorgerne alcune importanti. Mi sembra di scorgere il percorso del mio destino, e mi viene voglia di seguirlo.
 
Uscire con Massimo era l'ultima cosa di cui avevo voglia.
<Ciao Maurizio, che fai?>
<Niente>.
<Ti va di fare un giro?>
<Scendo>.
Massimo deve comperarsi un cappotto. Lo accompagno in silenzio. Nella testa mi sforzo di mettere in riga i miei pensieri, ma l'impresa è oltre le mie capacità. I pensieri hanno vita propria, non accettano ordini. Ognuno di loro infila le sue nervose radici nel tuo cervello, e pretende la sua parte di ragione: pretendere che tu assaggi i suoi frutti. Di tanto in tanto compare un'idea più forte, e prova a coagularne un grappolo intorno ad un unico ramo.
 
Ho sempre avuto paura delle idee: o le contieni tutte o è meglio non averne alcuna. Le idee sono come virus. Si diffondono di cellula in cellula e ti uccidono, prendono il tuo posto. Le devi combattere tutte, o accettare di soccombere alla più forte, alla più resistente. Arrendermi ad un'idea, una qualsiasi, era la malattia cui ero destinato.
 
<Massimo, non mi sento bene, torno a casa>. Giro i tacchi e mi allontano, ignorando le sue proteste. Ho un improvviso bisogno del mio corridoio, che mi faccia di nuovo affacciare su di un mare di idee in cui cercare comprensione. Faccio in fretta, faccio in un attimo, e sono di nuovo solo con le mie due pareti. Sono con la mia carne e con tutto ciò che un uomo può pensare di se stesso.
 
Cosa può pensare un uomo di se stesso senza affogare? Si può semplificare l'oggetto, certo. Si può fare uno schizzo, ma gli schizzi sono carta ed inchiostro. "Io sono...", non ho mai cominciato una frase con queste parole: sarebbe come morire. Non voglio avere caratteristiche. Non voglio un carattere.
 
Ci vogliono almeno quattro piani per racchiudere uno spazio, ma a me ne è sempre mancato uno, e per questo imbarco acqua. Ci sono "io", c'è il "mondo" e tra me ed il mondo una "rappresentazione". Se fosse tutto qui, sarebbe uno scherzo di cattivo gusto.
 
Non voglio credere che la vita sia tutto uno scherzo, ed è per questo che passeggio, come uno squilibrato, avanti ed indietro per il corridoio. Nessuna magica intuizione arriva a soccorrermi, i pensieri mi scoppiano in faccia come bolle di sapone. La mia intelligenza non sopporta l'infinita varietà e grandezza dell'universo personale in cui sono immerso.
 
Consumo la cena in un silenzio insopportabile e non sarò io ad interromperlo. Negli occhi di mio padre e di mia madre c'è il mio stesso smarrimento. Fuggo da tavola con ancora in bocca l'ultimo morso, deciso, una volta per tutte, a perdermi nella folla felice delle immagini televisive, a lasciarmi cadere nel vuoto.
 
Sono al dodicesimo dei cinquantuno passi, quando una improvvisa vertigine mi fa barcollare. Appoggio le mie due mani alle due pareti e mi fermo. Sto forse morendo?
 
Non sento più le mani e sudo freddo. Ancora una volta mi è concesso di scegliere, purificato del superfluo e dei particolari, mi si ripresenta il bivio del mio destino: fidarmi di un'unica idea che le contiene tutte oppure rinunciare, per sempre, a sapere quanto vale il mio tempo.

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Premio Il Club dei Poeti 2003
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Ins. 13-05-2003