Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Maria Carmela Forlenza

Con questo racconto ha vinto il settimo premio del concorso Marguerite Yourcenar 1998 sezione narrativa

 
La porta
 
Posò la mano destra sulla maniglia d'ottone e la ritrasse immediatamente. Per un attimo, gli era quasi sembrata viva sotto le dita.
Dovrei semplicemente voltarmi e andare via. Perché non ne sono capace?
Il ragazzo esitava. Il peso di quella decisione si faceva più gravoso di secondo in secondo. Lasciò che il suo sguardo percorresse l'ingannevole superficie del legno. Era una di quelle porte abbottonate, con la cravatta annodata e i gemelli che si intravedevano appena sotto il polsino della giacca.
È questo che troverò al di là di quella soglia?
Indietreggiò, lievemente disgustato. No. Nonostante i consigli di sua madre, non era ciò che voleva. Lui era come era stato un tempo suo padre, prima che l'ictus piegasse la sua volontà, sopisse il suo vociare.
A pochi centimetri da lui, i tre riquadri di noce ordinatamente incorniciati, marciavano in formazione compatta fino a superare la linea dei suoi pensieri.
Sembrano le tele di papà, rifletté il ragazzo, rimpiangendo ciò che era scomparso in un attacco di pochi istanti. Necrosi, aveva detto il medico. Qualcosa nella sua testa era stato eretto ad obolo di un tributo orami estinto.
Legge dell'entropia, la definiva lui, dopo la lezione di un messe prima della sua insegnante di Fisica. Le forme complesse si riducono a sistemi più semplici.
Cerco di distogliere l'attenzione da quella matassa ingarbugliata che invadeva la sua mente. Feriva.
Avvertendo un lieve tremito alla palpebra destra, fissò nuovamente la maniglia: pareva una esse coricata, disegnata da un bambino. L'ottone soffriva, contorcendosi, specchio fedele di ciò che sentiva in quel momento.
«Devo aprire, papà?», chiese ad alta voce. Qualche anno ancora e la mia voce sembrerà la sua, si disse compiaciuto. «Che devo fare?».
Il silenzio di quell'ambiente scuro e pieno fagocitò i suoni, impallidì le idee. Silenzio.
Tinnn. Si voltò di scatto, sorpreso. «C'è l'acqua, qui dentro?», domandò a quel nero gravido e le sue parole si rincorsero, occupando lo spazio ed il tempo.
«Non credevo che l'acqua fosse da questa parte &endash; concluse. &endash; La mamma è convinta che si trovi al di là della soglia. ma forse ho sentito male, non era una goccia che cadeva.».
Cercò di ascoltare con gli occhi della mente, di riflettere con i rintocchi del suo giovane cuore. «Ti prego, ho bisogno dell'acqua», disse, ma il buio imprigionava i suoi ansiti in un angolo di mondo, impedendo loro di librarsi sopra il dolore.
«Tutti ne abbiamo bisogno», gli rispose la donna che stava uscendo dalla porta aperta, richiudendosela lentamente alle spalle. Aveva il viso stanco, ma i suoi occhi sospiravano. I lunghi capelli castani le ricadevano sul volto in ciocche elegiache. Camminava a testa alta: aveva vinto.
«Non è questa la strada?», le chiese, la speranza a illuminare i suoi pensieri.
«Certo, è una strada. Non era la mia, però». L'adirato tonfo metallico della serratura della porta che scattava, rinnegò quelle parole, e condannò, le costrinse all'abiura.
«Che significa? C'è o non c'è l'acqua al di là di quel confine?».
«Io non l'ho trovata. Ma forse non la stavo cercando».
«Come si fa a non cercare l'acqua?». Il ragazzo non capiva, non esistevano punti fermi in quanto gli veniva confidato con tanta naturalezza.
«Non lo so. A volte capita. In molti aprono le porte senza badare più a nulla. Credo che sia la forza dell'abitudine».
«Mia madre dice che l'acqua sta dall'altra parte».
Doveva essere così. Doveva.
«E tu non le credi?». La donna si era avvicinata, il suo respiro scandiva il passare del tempo.
«Non lo so», ammise finalmente. Quelle frasi affiorarono dalla sua anima, rigurgito involontario del suo cuore. «A volte, lei mi spaventa».
«Una madre non dovrebbe».
«Quando papà ebbe l'ictus, pensai che si sentisse quasi sollevata».
«Perché?».
«La prima cosa che fece quando tornammo dall'ospedale, fu rinchiudere in soffitta il nostro vecchio aquilone, quello che lui dispiegava nel vento quando andavamo in montagna. Non ho mai capito perché temesse tanto del filo e della carta colorata».
Tinnn. «Hai sentito?» le domandò. Ma la donna non rispose, doveva riprendere la ricerca.
«Che hai al polso?», chiese, afferrandole la manica del vestito per farsi ascoltare, trattenendola.
«Un gemello di giada». L'attenzione di lei ormai catalizzata dal respiro dell'oscurità.
«Che ci fa una donna con un gemello di giada legato al polso? E poi, perché solo uno?».
«L'altro l'ho abbandonato dietro quella porta».
Poi lei si voltò e si allontanò nel buio, raggiungendo il suo destino. Mentre scompariva al di là dell'orizzonte degli eventi, il suo lungo abito ondeggiava quieto, compagno fedele del suo incedere.
Il ragazzo rimase solo ad aspettare, finché si accorse delle cicatrici del legno, memorie di gente che aveva testimoniato con una firma i proprio passaggio. Milioni di nomi si aggrappavano l'un l'altro, ferendosi a morte, negando le ani che li avevano consegnati a quella superficie inerme, allontanandoli per sempre dal tempo.
E poi l'oscurità partorì l'uomo, che si fermò accanto a lui, esile figura priva di origini e destinazione. Anch'egli osservava l'uscio, ingannevole soglia che godeva nel celare la sua natura, mentendo ed osteggiando il pensiero.
«Chi sei?», gli chiese.
«Un uomo di trentasette anni». La sua voce, aura del futuro.
«Perché sei qui?».
«Sono uno che deve decidere».
«Perché non l'hai fatto prima?».
«L'ho fatto. Avevo diciassette anni, la prima volta che venni in questo luogo. Ma ci sono dovuto tornare spesso».
A quella parole, un guizzo si accese nella mente del ragazzo, esaurendosi prima che potesse afferrare la creatura che l'aveva prodotto. «E non hai mai attraversato il confine?».
«No. Mi sono sempre rifiutato. Era la strada di qualcuno che sfuggiva la ricerca dell'acqua, che voleva risalire la corrente per seguire gli altri salmoni, perché era quella da sempre la vita dei pesci e così sarebbe stato anche per lei».
«Ed ora? Perché vuoi aprire la porta?».
«Ho capito che in fondo, trovare l'acqua causa più problemi di quanti ne risolva».
Il ragazzo rimase in silenzio per molto, poi chiese: «Allora l'acqua è da questa parte?.
«Non è facile dirlo».
Tinn. Quel suono aveva dissanguato il silenzio, sbiadendo la superficie del legno che avevano di fronte. «Hai sentito?».
L'uomo esitò, il vostro e il nostro conflitto ardeva nelle trincee scavate nelle profondità del suo viso. «Cosa?».
«L'acqua».
«No».
«Io sì. Fidati. Non è lontana. Lascia che ti guidi»».
squassato dalle onde, l'uomo tentò di recuperare il timone, lasciò che l'imbarcazione virasse, vi si aggrappò con i ricordi e gli artigli della ragione, e ne fu nuovamente sbalzato. Ma alla fine, dominò la corrente. «Va bene», rispose dal ponte della sua chiatta, semidistrutta dalla lotta, e per un istante, gli parve di respirare il vento che aveva mosso l'aquilone, che l'aveva spinto al di sopra dell'ottusità e della paura, soffrendo al posto delle sue carte colorate, per mutare in aria le catene che l'avevano trattenuto.
Il ragazzo tese la mano e l'uomo la prese, come aveva fatto con la forza che gli aveva trasmesso poco prima. E insieme, ponti irrequieti sospesi nel vuoto a pochi metri dal fronte, si allontanarono nell'oscurità, per riprendere la ricerca. Semplicemente.
 
Classifica Concorso Marguerite Yourcenar 1998 sezione narrativa
 
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inserito il 10 novembre 1998