Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Maria Montesano
Con questo racconto ha vinto il sesto premio al concorso Concorso Letterario Angela Starace 2000 sezione narrativa
 
Diritto di vivere
 
Dormiva davanti alla Chiesa, da mesi, anni forse. E chi lo poteva dire con sicurezza? Avanti a quella chiesa consacrata ma, quasi sempre chiusa, andavano a dormire tanti barboni o esseri sbandati, che non avevano casa, famiglia ricordi, nulla: tutto cancellato, come quando si passa una spugna su di un tavolo macchiato e di ogni macchia sparisce tutto, come se non ci fosse mai stata. A parlargli era un'impresa, perché non rispondevano o si ritraevano impauriti o seccati o diffidenti. Non chiedevano nulla, non volevano nulla. Volevano essere soli e basta. Non si facevano neppure aiutare e se qualcuno offriva loro qualcosa, gli giravano le spalle. Spesso puzzavano di vino, oltre al tanfo che avevano addosso, quanto si, ma era naturale, quasi. La solitudine non ti riempie le giornate sempre, e tante volte non basta più. Quel barbone però, era ormai fisso, da anni. Si era ritagliato il suo posto tra la porta e il primo gradino che portava alla chiesa. Con lui non c'era ritagliato il suo posto tra la porta e il primo gradino che portava alla chiesa. Con lui non c'era mai nessuno. Anche gli altri barboni erano andati via e avevano preferito altri posti o non gradivano la sua compagnia, chi sa. Di notte dormiva sotto i cartoni, di giorno stava steso a dormicchiare, sempre al medesimo posto oppure si faceva la sua «passeggiata» come diceva il giornalaio che era all'angolo, di fronte al semaforo. La passeggiata suddetta consisteva in pochi passi, tra la chiesa e l'edicola dove, una volta giunto, si fermava un attimo e ritornava indietro. Infine si appollaiava su un gradino della chiesa e guardava la gente o le macchine che scorrevano senza posa, fra gli scatti del semaforo: rosso, verde, verde, rosso. forse non vedeva niente o forse lo incuriosiva tutto quel traffico che pareva un fiume che scorre al mare. Ma la sua espressione era sempre la stessa, anche perché era difficile che si riuscisse a vedere qualcosa della sua faccia, tra la barba e il cespuglio di capelli, grigi, neri e marroni come se avessero voluto scegliere, nella varietà delle tinte, anch'essi la libertà. Nessuno sapeva chi fosse e da dove venisse, niente di niente. Non parlava, non dava confidenza ad alcuno, non chiedeva nulla. La sera, al massimo, andava a rovistare nel cassonetto dove finivano i rifiuti della pizzeria che era di fronte alla Chiesa. Così, per pietà e per dargli un pasto decente o quasi, don Gennaro il pizzaiolo, diceva ai camerieri di lasciare, nel suddetto cassonetto, un cartone con una pizza intera, in maniera che almeno si sfamasse un poco, soprattutto d'inverno, quando il vento taglia la faccia e si respira aria di neve. Ogni mattina, davanti a lui passava don Peppino, col suo carrettino-negozio, ovvero una specie di carriola su cui conservava tutta la sua mercanzia: pettini, lacci di scarpe, cinture, spazzole, bastoncini per grattarsi le spalle e altro. Si tirava dietro la carriola ambulante e andava ad esporre la sua merce qualche vicolo più avanti, tra una rientranza di un muro perimetrale di palazzi diversi e tra un negozio di biancheria e uno di vestiti. Passava sempre alla stessa ora, con ogni tempo, in ogni stagione, uguale da anni: un volto senza età, quasi senza espressione. Anch'egli parlava poco e dava poca confidenza, persino ai clienti, ma lo consideravano quasi come un orologio e dicevano - Sono le sette, è passato don Peppino - Sull'ora non si sbagliava mai, quasi l'avesse stampata nella testa. E neppure si assentava mai come se fosse refrattario ad ogni malattia e perfino all'età. Era don Peppino dei «lacci di scarpe» e basta. Col tempo aveva fatto tutt'uno con i palazzi e la strada e nessuno ci badava più: una cosa fra le cose. Ma se fosse mancato se ne sarebbero accorti tutti, come quando cade un palazzo e ci si accorge che esiste o esisteva ancora. Don Peppino parlava poco ma, passando nel suo tragitto quotidiano davanti alla chiesa di via Costantinopoli, salutava stranamente il barbone. - Salute barbò - gli diceva e non si capiva se alludesse allo stato sociale di lui o all'immagine che offriva, somigliante ad un cane barbone, tutto arruffato e sporco. E stranamente, a lui rispondeva il barbone, dicendo - salute… buon giorno… - Qualche volta, che non aveva voglia o era più turbato del solito o bisognoso di solitudine, gli volgeva le spalle borbottando - Diritto alla vita, diritto alla vita… - Le prime volte don Peppino, era rimasto come interdetto, poi si era fatto una ragione. Chi sa che aveva passato, qual poveretto, per dire così o forse erano solo brandelli di ricordi che affioravano nella sua mente, chi sa, ma erano fatti suoi. Però quella frase gli frullava nel cervello, quando la udiva e gli restava dentro, come qualcosa che somigliava ad un disagio o ad una pena o semplicemente che non si riusciva a capire. Del resto tutta la vita stessa non si capiva bene e una frase in più o in meno non aggiungeva o toglieva niente.
Don Peppino, lo conoscete? Ma con voi parla? - gli chiedevano il pizzaiolo o l'edicolante, talvolta, facendo segno al barbone. - Don Peppino scuoteva la testa, quasi scontroso: quel saluto era un fatto tra lui e il barbone, altri non ci dovevano entrare. Gli pareva, se aveva fatto chiacchiere o pettegolezzi, di tradire la sua fiducia. - Perciò tirava diritto con il suo carrettino e non ascoltava nessuno. Però ci pensava, mentre incartava i pettinini e i lacci di scarpe ai suoi clienti. - Una volta o l'altra mi fermo - si diceva - e - gli dico qualche cosa, forse mi risponde -; Ma poi non si decideva mai e lasciava andare e continuava a tirare diritto con il suo carrettino sbilenco, sotto la pioggia e le raffiche di vento, se era di inverno, sotto il sole cocente, se era di estate. Gli bastava che egli fosse lì, sotto i suoi cartoni, a sognare chi sa che cosa, nel suo mondo che si era scelto da anni. Non lo smuoveva neppure l'odore acre di colla e di solventi che usciva dal negozio di restauratore di mobili, che era accanto alla Chiesa e tanto meno il rumore arrogante del clacson della auto e dei motorini che sfrecciavano lungo l'incrocio o ruggivano nell'attesa che cambiasse il rosso del semaforo. Al massimo, quando la via appariva più tranquilla, verso notte, o nell'ora sonnolenta del pomeriggio, prima dell'apertura dei negozi, riprendeva ad andare su e giù sul marciapiede, piano piano, fermandosi a guardare le figurine dei pastori o gli orologi antichi che si intravedevano dalla saracinesca traforata del negozio di antiquariato che veniva dopo quello dei restauri. Guardava un poco le porcellane dipinte, gli orologi che battevano le ore con il pendolo, le bambolotte di carta pesta e poi riprendeva a camminare: con lo sguardo che scivolava sulle cose, senza vederle. Poi si sedeva sui gradini, come un orso polare, tutto peli, che gli si arruffavano ovunque, come una massa uniforme e senza senso.
Una volta, il garzone del pizzaiolo gli aveva offerto un bicchiere di vino, ma tenendosi alla lontana, perché non si poteva mai sapere e aveva detto ridendo, rivolto agli altri - Questo capisce solo il vino - Volete vedere? - Il vino, questi qui, lo capiscono tutti! -
Lui l'aveva guardato un momento, con quello sguardo che scivolava sulle cose senza vederle e poi aveva allontanato la mano che gli porgeva il bicchiere, senza parlare. Aveva girato le spalle ed era ritornato alla sua tana, sotto i cartoni che si era tirato sino agli occhi, quasi non volesse vedere nessuno.
- Lasciatelo stare, aveva detto don Peppino, che andava a conservare il suo carretto con la mercanzia, nel bugigattolo del portiere di un palazzo, che richiedeva «l'affitto» anche se era un buco che riusciva a contenere soltanto il carrettino, essendo, nell'antichità, quello che si diceva «un luogo di decenza» ovvero uno sversatoio multiuso con un foro al centro, ora coperto da un'asse di legno. Il cosiddetto «luogo» era condominiale ma il portiere lo «affittava» con buona pace di tutti, anche perché non serviva più, neppure ai topi, ora che il buco era stato otturato.
- Lasciatelo stare - Vuole stare quieto - Chi sa che ha passato -
- Tutti li abbiamo passati i nostri guai - aveva osservato il garzone - Questo era vero, ma lui ne aveva passato qualcuno in più, forse. La dose non era mai uguale, comunque. E la sopportazione neppure. Ma questo don Peppino non lo disse - Sarebbe stato troppo lungo e non era il caso di andare oltre. E poi ognuno aveva le idee sue, che non era disposto a cambiare, almeno non sempre, per non dire mai.
Anche don Aurelio, il vice parroco della Chiesa, tante volte aveva tentato di parlare con il barbone, detto anche «pelliccia» perché, appunto somigliava ad un orso arruffato. Ma non ci era stato nulla da fare. Alle domande del prete non aveva risposto, come del resto faceva sempre con tutti e aveva rifiutato perfino il cibo o qualche indumento che questi gli offriva. Voleva star solo e basta e vivere in quella «tana» che considerava ormai la sua casa, almeno per il momento, tra la porta della Chiesa e i gradini che portavano alla stessa. Altro non chiedeva. Solo da don Peppino, una volta, aveva accettato una sigaretta ed era stato tutto. Se l'era gustata seduto sul gradino che dava sulla strada, piano piano, quasi con golosità, aspirando larghe boccate di fumo. E a don Peppino che lo guardava incoraggiante, aveva detto, con una voce rauca, perché non avvezza più a parlare, - Diritto, diritto alla via; - Poi aveva scosso la testa e se ne era risalito in alto, sdraiandosi davanti alla porta e tirandosi i cartoni sino gli occhi.
Non ci perdete più tempo - diceva l'edicolante a don Peppino, mentre esponeva i giornali: Non capisce niente… E poi vuole stare solo - Don Peppino se ne andava non persuaso, con le sue idee in testa che però non diceva a nessuno. Tanto non lo avrebbero capito, come non capivano quel povero cristo, che qualcosa voleva pure dire con quella frase, chi sa. Forse era un modo suo per chiedere aiuto o conforto o fare una denunzia agli uomini e alla vita stesa, che certamente non dovevano essere stati tanto teneri con lui, altrimenti non si sarebbe estraniato così, li avrebbe cercati, semplicemente, anche per litigare soltanto, come facevano solitamente gli uomini.
La notte, specialmente in inverno, la vita doveva essere ben dura, però, e per il freddo e per la solitudine e la paura di aggressione di ogni sorta perché di notte iniziava un'altra vita, che apriva una parentesi del tutto diversa dalla precedente e tra l'una e l'altra cadeva come un sipario, a dividerle, tanto che neppure le strade parevano le stesse e si riempivano di ombre anche se c'erano ancora le luci ad illuminarle. Ma d'estate non andava meglio, tutt'altro: d'estate si usciva di più e la violenza era sempre la stessa, forse anche più aggressiva. Pure, barbone o «pelliccia» lo lasciavano stare, prima perché puzzava troppo e poi perché non aveva niente, assolutamente, solo gli stracci da troglodita, sempre gli stessi, che indossava chi sa da quanto tempo. Perfino le donne, quelle che giravano la notte, lo lasciavano stare o gli offrivano le sigarette, quando lo trovavano sveglio. Ma lui si schermiva e le scansava e le fissava con quello sguardo che scivolava sulle cose senza vederle e diceva anche a loro ma a bassa voce la frase che diceva a don Peppino - Diritto alla vita… - e le più giovani, allora scoppiavano a ridere - Ma è pazzo? dicevano ed era peggio di un insulto gridato in faccia. Qualcuna più anziana faceva spallucce - Lasciatelo stare - Non vi ha fatto niente - È un povero diavolo - Poi sciamavano tutte verso le macchine da dove provenivano i richiami e barbone rimaneva lì, a pensare, sul poggiolo dell'ultimo gradino della Chiesa e fissava la strada vuota, in pace. Nell'aria rimaneva il profumo insolente delle donne, che però sembrava fargli compagnia.
Talvolta passava la barbona che dormiva sotto i portici della galleria che si apriva alle spalle della Chiesa. Era un barbona vecchia o vecchissima: l'età non si capiva perché gli stenti e la vita randagia potevano anche averle dati tutti quegli anni, come un marchio precoce ed incancellabile. Girava con un sacchetto di plastica appeso ad un braccio, una gonna variopinta a fiori e i capelli bianchi che diventavano di oro alle punte, un oro sporco però, come una tintura mal fatta. Anche lui non parlava, camminava per ore, percorrendo tutta la città, instancabile, col sacchetto di plastica al braccio e la gonna variopinta che le danzava attorno alle gambe. Lei e «pelliccia» si ignoravano, come tutti i barboni, del resto: vite parallele, che scorrevano simili soltanto all'apparenza ma che erano lontane anni luce, mondi separati per sempre.
Negli ultimi tempi la notte erano accaduti e accadevano episodi sempre più inquietanti, spesso sfrecciavano come impazzite macchine di teppisti o balordi o di chi sa che cosa, che passavano con il loro carico umano vociante, che volevano litigare o divertirsi o dar fastidio alla gente, comunque. Assaltavano anche quei pochi bar o i ritrovi che trovavano ancora aperti, più per il gusto di distruggere e seminare terrore che per denaro. Naturalmente tenevano anche a questo perché poi era immancabile lo scasso alla biglietteria, alla cassa, alle macchinette distributrici e a qualunque cosa potesse contenere denaro. Ora l'edicolante chiudeva prima, la sera, e i camerieri e i lavoranti della pizzeria stavano sul chi vive e guardavano spesso la strada, pronti ad intervenire o a chiamare qualche volante in perlustrazione. Le macchine correvano come animali impazziti e sgommavano nel silenzio della notte, con il loro carico umano che spesso finiva per schiantarsi da qualche parte e bruciare la vita in un fumo che durava poco, troppo poco, anche se era il fumo di una vita giovane, che aveva sognato chi sa che cosa.
Qualcuna di esse, talvolta, si fermava al semaforo ma non per rispettare il rosso che indicava, che quello che semplicemente ignorato, bensì per dare fastidio a barbone, che dormiva sotto i suoi cartoni oppure si aggirava come uno spettro attorno alla Chiesa, inseguendo i suoi incubi notturni.
Lo chiamavano sacco di «immondezza» e ridevano oppure gli offrivano le sigarette ma solo per scherno, per vedere se era buono ad afferrarle in aria, come si fa con i cani, quando gli si getta qualcosa o facevano la proposta di «dagli fuoco», tanto per divertirsi un poco, se la notte era noiosa. Ma infine lo lasciavano stare o perché si annunciava la sirena di una volante che li metteva subito in fuga o perché non c'era gusto a tormentarlo, così svaporato e taciturno, senza reazione alcuna. E poi puzzava troppo e faceva senso perfino a guardarlo, una miseria totale di uomo, buono soltanto per il camion della spazzatura che triturava i rifiuti e faceva piazza pulita di essi.
Una volta però, o anzi più volte, si erano avvicinati anche i «volontari» della notte, quelli che raccattavano per la strada i rifiuti come lui e li trattavano come persone normali e gli offrivano un pasto o un panino, specialmente d'inverno, o una coperta per ripararsi dal freddo. Li chiamavano per nome, se essi lo ricordavano e lo dicevano, oppure non chiedevano nulla, se mostravano che non volevano dare confidenze, neppure a quelli che volevano aiutarli. Ma Barbone non si apriva neppure con loro e rifiutava ogni cosa e girava loro le spalle e correva a rintanarsi sotto i suoi cartoni. Così, gli lasciavano il panino o la vaschetta con il pasto sui gradini dell Chiesa o accanto ai cartoni dove era rintanato.
Una notte accadde un fatto che rivoltò tutto il quartiere: avevano sparato ad un uomo, che era morto lì, proprio davanti alla Chiesa, ucciso si diceva, da una banda rivale per la spartizione dei «traffici» della zona o per uno «sgarro» commesso. Era caduto proprio davanti a quella Chiesa antica che forse, in tanti secoli o anni, pur avendo assistito a tanti e analoghi delitti, un omicidio così non l'aveva visto mai. Perché i sicari, a quel morto, gli avevano quasi staccata la testa, con quelle pistole a silenziatore, che non facevano rumore ma che frantumavano la vita. Naturalmente nessuno aveva sentito nulla, nessuno aveva visto nulla: testimoni: zero, del resto la fine di quell'uomo nessuno la voleva fare. E poi, erano fatti «loro», che si erano liquidati «in famiglia» e «in famiglia» dovevano rimanere. Erano venute le forze dell'ordine, in numero cospicuo, a presidiare la zona e a fare indagini, oltre che, a raccogliere i rilevamenti del caso, ma non erano approdate ad alcunché. È vero che era notte e a quell'ora, presumibilmente, tutti dormivano ma qualcosa, qualcuno, avrebbe potuto o dovuto pure vedere o udire. E invece niente: come se il morto si fosse sparato da solo.
Napoli e il rione parevano ormai diventati un deserto, quella notte, un deserto senza alcuna forma di vita vivente. Anche il pizzaiolo, che faceva a quell'ora le pulizie nel locale, assieme ai suoi lavoranti, ma, come aveva specificato, nell'interno del negozio, nel locale più riparato, aveva sentito o visto nulla e nulla poteva dire. Se qualcuno era morto requie all'anima sua, ma egli non sapeva niente. Dei possibili passanti non si era presentato nessuno e nessuno, del resto, si aspettava che si presentassero. L'unico possibile testimone poteva essere Barbone ma non era il caso di farci alcun affidamento. Lo interrogarono, comunque, per scrupolo di coscienza e per dovere di servizio, non che sperassero alcun che. E infatti Barbone non capiva, non rispondeva e tanto meno sapeva nulla o mostrava di sapere nulla: tremava tutto e non si riusciva neppure a parlargli. Le forze dell'ordine lo atterrivano del tutto, almeno così si pensò e lo resero più sfasato ancora, completamente fuori di sé.
Cercò perfino di interrogarlo il Commissario, sui gradini della Chiesa, rassicurandolo e trattandolo con pazienza e dicendogli che non doveva temere nulla. Volevano sapere da lui soltanto se avesse visto qualcosa, o qualcuno che sparava al morto. Ma egli taceva, rinserrandosi tra i suoi stracci come un animale ferito e fuggendo a rintanarsi in qualche angolo, balbettando la solita frase che però ora gli usciva smozzicata e monca «La vita… la vita» sembrava che soltanto quel brandello di parole gli rimanesse nel cervello e che ogni altra cosa, seppure ci fosse mai stata, gli fosse sfuggita.
Lo lasciarono stare anche se il commissario rimase pensoso, forse perché sentiva pena per lui o perché inseguiva un suo pensiero lontano, che non lo persuadeva.
Barbone era diventato più selvatico ancora e non rispondeva neppure più al saluto di don Peppino.
Spesso spariva pure per qualche giorno e poi riappariva e riprendeva il suo posto, davanti alla Chiesa, ma era sempre scorbutico e come malinconico. Socievole non era mai stato e tanto meno allegro, ma ora appariva più scontroso, diffidente, come se avesse paura di tutto e di tutti. Ora ogni suono di clacson lo metteva in agitazione e sembrava un animale braccato, sempre pronto a scappare, in vista del pericolo.
Poi una mattina d'inverno, di quelle che sanno di aria di neve e che sembrano tagliare la faccia per via del vento, fu trovato morto, sotto i cartoni. Non se ne accorsero subito perché credevano che dormisse, come sempre. Ma poiché non si muoveva da ore, cosa inusitata per lui che, comunque, usciva almeno per sgranchirsi le gambe, specialmente se faceva freddo, andarono a vedere che cosa gli fosse successo e perché non si muoveva.
Pareva intatto, come se fosse passato dal sonno alla morte senza accorgersene. Ma quando lo rivoltarono, gli ritrovarono un foro nel polmone e una macchia di sangue rappreso sulla schiena. Gli avevano sparato, chi sa chi e chi sa quando. Poi lo avevano trascinato sui gradini della Chiesa e coperto sotto gli stracci e i cartoni, per dare ad intendere che dormisse. Si rivoltò in un momento tutto il quartiere: accorse l'edicolante, il pizzaiolo; accorsero i negozianti, tutti quelli che lo conoscevano e lo vedevano sempre lì, da anni. Accorse don Peppino che chiuse in anticipo il «suo negozio» e volle aspettare la «Volante», che era stata avvertita ma si era impantanata nel traffico, che sembrava impazzito per via del morto che qualcuno, pietosamente, aveva coperto con un telo ovvero con una tovaglia dei tavoli della pizzeria.
Accorse pure don Aurelio che benedisse la salma e recitò le preghiere dei morti, con accanto don Peppino che rispondeva con il capo chino e si teneva il berretto di lana tra le mani. Gli altri seguivano la cerimonia distrattamente e gli automobilisti di passaggio, fermi nel traffico, si sporgevano a chiedere «Ma che è stato?» - «Hanno sparato ad uno…» -
le risposte si perdevano nel suono assordante dei clacson, che parevano impazienti di riprendere la corsa, come gli uomini: c'era il lavoro che attendeva, c'erano gli impegni, la famiglia, i divertimenti, la vita insomma e un morto qualsiasi, un morto, comunque, non poteva certo fermare tutta una città: era un'indecenza! Solo a Napoli accadevano simili sconcezze! Qualcuno gridava, altri litigavano in quel traffico che pareva un animale cieco, sfrenato e senza meta.
Solo don Aurelio e don Peppino pregavano, recitavano le preghiere dei morti, quietamente. Poi rimase solo don Peppino: gli altri tornarono a lavorare e don Aurelio corse in Chiesa a dire la Messa.
Don Peppino stava ritto avanti al cadavere, con il berretto in mano e la testa sul petto: gli faceva compagnia. Non se la sentiva di lasciare solo, li, con un cane, mentre le macchine avevano ripreso a correre, indifferenti, e il semaforo smistava il traffico, come sempre. Sentì, dalla sirena, che era arrivata finalmente la Volante. Tutti i curiosi furono allontanati; furono interrogati i possibili testimoni ma anche questa volta, come del resto la prima, nessuno aveva visto niente. Lo avevano trovato morto sotto i cartoni e basta. Arrivò pure il furgone che avrebbe dovuto caricare il cadavere e portarlo all'obitorio, dopo gli opportuni accertamenti.
Sul selciato, quando lo rimossero, restò una piccola macchia scura che qualcuno ricoprì con la segatura.
Tolsero i cartoni davanti alla Chiesa e don Aurelio fece pulire i gradini: il traffico riprese a scorrere normalmente e la vita pure.
Don Peppino ritornò a casa, piano piano. Non se la sentiva di riprendere il lavoro per quel giorno, e poi, ormai la giornata era perduta e, a quell'ora, e con il freddo che faceva, clienti ne sarebbero venuti veramente pochi, per non dire nessuno. Un'acqua gelata cadeva dal cielo: - «È neve squagliata!» - osservò qualcuno ritandosi il bavero fino agli occhi. Già, era neve squagliata, una neve che cancellava ogni cosa, anche la macchia che ricopriva il selciato, davanti alla Chiesa, anche Barbone di cui nessuno si sarebbe ricordato più tra qualche tempo. Don Peppino camminava rasente al muro, col berretto calato sugli occhi, scansando i passanti, che avevano fretta e lo urtavano nella corsa, senza neppure accorgersene o scusarsi. Nessuno lo aspettava, a casa. Si sarebbe preparato un po' di brodo o di latte caldo: aveva freddo, un freddo che gli penetrava sino alle ossa. Si sentì solo, più solo del solito. L'indomani non avrebbe rivisto Barbone al solito posto, non lo avrebbe rivisto mai più. «Diritto alla Vita» diceva.
Si, ma a quale vita? Chi sa quale vita intendeva o sognava o fuggiva e, pure quel sogno o quell'illusione o quel desiderio, gli avevano spento. Oppure lo avevano liberato da un peso, Chi sa.
Solo ora, forse, conosceva la pace, finalmente.
Chi sa se forse domani non avrebbe trovato un altro barbone: il posto vuoto lo avrebbe occupato qualche altro come lui. Non lo lasciavano mai vuoto per troppo tempo. Forse il nuovo Barbone sarebbe stato più socievole dell'altro. Chi sa.
Don Peppino sollevò gli occhi al cielo che si era rasserenato, come ripulito dal vento che aveva spezzato via le nuvole: domani, forse, ci sarebbe stato il sereno, lo sapeva almeno. Con l'acqua, con la pioggia, tutto si complicava e si sentiva di più la malinconia.
«Addio Barbone» - pensò - . Era un saluto, come glielo rivolgeva la mattina e lui neppure rispondeva oppure gli faceva un cenno, come per fargli capire che lo aveva sentito. Si sentì più consolato e disse anche egli, tra sé, quella frase che poteva non poter dir nulla o dire tutto, chi sa. - Diritto alla vita, diritto a vivere -. Perché la vita non si sceglie di vivere. Si vive e basta.
Guardò di nuovo il cielo così azzurro e terso e si sentì quasi intenerito, finché gli occhi si riempirono di lacrime, che gli solcarono la faccia, lentamente.
Piangeva per sé, per Barbone, per la vita, per quella solitudine infinita che ognuno si porta dentro come una compagnia che si condivide sino alla morte.
 
 
Concorso Letterario Angela Starace 2000 sez. narrativa
 
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ins. 9 gennaio 2001