Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Maria Luisa Bertolini
Con questo racconto ha vinto il secondo premio al concorso
Città di Melegnano 2003, sezione narrativa

IL LUNGOMARE DI MENTONE
 
Niente è più bello del lungomare di Mentone in un qualsiasi giorno d'estate.
A pochi chilometri dal confine, si capisce già che siamo in Francia. Lo si capisce, prima ancora che dalle insegne, da come sono allineati i ristorantini sul mare, e dalla cura con cui sono apparecchiati i tavoli: due tovaglie di colore differente, che formano un delicato contrasto; il menu al centro, il tovagliolo ripiegato sul piatto come un origami.
I tavolini dei ristoranti francesi sono rassicuranti, perché sono tutti piccoli. Se si è in quattro se ne uniscono due, se si è in cinque, o in sei, se ne uniscono tre e così via. I tavoloni di alcune pizzerie siciliane non sono rassicuranti. Lasciano presumere che tu puoi mangiare al ristorante solo se hai una famiglia o un'allegra brigata di amici.
Io non ho ne' l'una ne' l'altra.
E' così rilassante la spiaggia che si affaccia direttamente sul lungomare di Mentone. Ciottoli piatti sulla riva, sabbia poco più indietro.
Non c'è il lusso inutile e faticoso della Promenade des Anglais di Nizza o della Croisette di Cannes.
L'assurdo, nel lusso, è che non bastano i soldi per poterselo comprare. Non serve presentarsi al Negresco con le banconote in mano, per essere trattati come si deve: bisogna far capire che a quel lusso che si richiede, si è avvezzi. Che si appartiene all'ambiente. Non importa essere uno che conta, ma essere abituati a stare in mezzo a quelli che, in quell'ambiente, contano. Strana cosa, il lusso, se richiede, in aggiunta al danaro, le stesse condizioni del bar più malfamato della Vucciria. Come dire che la dimensione sociale, in ogni paese e situazione, è assolutamente inevitabile. E indispensabile.
Trovo facilmente un parcheggio. Scendo. Non fatico nemmeno a comprendere il sistema di pagamento.
Mi incammino verso i ristorantini del lungomare. Sono tutti sul lato che dà verso l'interno, ma i tavolini, sotto ombrelloni di tela o di paglia, sono sul lato del mare, e i camerieri fanno la spola destreggiandosi tra le auto che passano sulla strada.
Quale era quello dove andavo con André, a mangiare le moules frites? Non ho mai avuto memoria visiva, solo i nomi mi dicono qualcosa. Li leggo, ma non mi viene in mente nulla: George V, Octopus, Le Calypso, L'Escargot.
Del resto cambiano ogni anno, cambiano i colori delle tovaglie, la posizione delle lavagnette con il plat du jour, gli ombrelloni.
Io e André, in verità, eravamo stati qui a Mentone una volta sola. Gli avevo scattato delle foto e avevamo riso. L'estate successiva ero tornata passando per andare da lui, mi ero fermata a pranzo nello stesso ristorante, e avevo rubato il posacenere per portarglielo in regalo. Anche quel giorno ero sola, ma in realtà non lo ero.
Scelgo il primo della fila, quello che si chiama Octopus. Ha le sedie di paglia con cuscini verdi. Mi siedo nel tavolino a fianco del parapetto che lo separa dalla spiaggia. La spiaggia è alcuni metri più in basso. André avrebbe scelto questo posto, lui che voleva sempre stare in prima linea sul mare.
Il cameriere è un ragazzetto poco più che adolescente, ha gli occhi azzurri un po' acquosi, un'espressione poco sveglia. Mi si avvicina.
"Vous êtes deux?" chiede.
Sono da sola, cretino, non lo vedi ? Evidentemente deve sembrargli più logico che l'"altro" se ne sia andato al cesso prima ancora di prendere posizione, piuttosto che avere davanti una persona sola che intende mangiare.
"Une, seulement" rispondo nascondendo accuratamente l'irritazione, come ho imparato a fare. Il ragazzo accenna un sorrisetto che non apprezzo. Toglie i piatti e i bicchieri in eccedenza e mi porge il menu. Non serve. So già quello che voglio ordinare.
"Moules frites, s'il vous plaît. Une bière pression, et une carafe d'eau. »
La carafe d'eau è un'altra prerogativa dei ristoranti francesi. Ti arriva, di solito, anche se non la chiedi. Da noi nessuno ti porterebbe una caraffa di acqua di rubinetto, avrebbe il timore che poi non gli ordini nient'altro da bere.
La birra arriva quasi subito. Bevo un sorso, è piuttosto calda. Qualcuno tra i miei amici di un tempo l'avrebbe rimandata indietro. Io non lo faccio. In questi casi ho sempre paura che il cameriere decida che sono una cliente rompicoglioni, e si vendichi sputandomi nel piatto che ho ordinato.
Mi accendo una sigaretta, aspiro il fumo lentamente.
A Milano Claudia, poco prima di sparire come tutti gli altri, una sera mi aveva trascinato a cena con due tipi insulsi e alla prima sigaretta che avevo acceso aveva detto:
"Io non riesco proprio a capire perché fumi. Non capisco il perché, sapendo che il fumo fa male, tu insista a fumare" Lo aveva detto con voce chioccia, con l'aria di chi sale in cattedra.
Dopotutto, Claudia era insegnante. Di sostegno.
"Fumo perché mi va di fumare" avevo risposto "del resto, se mi limito nella quantità, non vedo perché non dovrei, se mi va" e avevo aggiunto: "Il mio medico racconta sempre di suoi pazienti che non hanno mai fumato ne' bevuto, che hanno passato la vita evitando i fritti e i grassi e i conservanti, e sono morti di tumore a trent'anni"
Uno dei due uomini, che sono certa portasse il parrucchino, mi aveva guardato con aria paternalistica. "Questa risposta proprio non me la aspettavo. Da una persona intelligente come te."
"Ma questo è fatalismo! E il calcolo delle probabilità dove lo metti? Tu non ti vuoi bene" aveva aggiunto Claudia con insistenza, e la voce le si era fatta ancora più stridula "fumi perché non ti vuoi bene"
"Guarda me, io mi voglio bene" era intervenuto l'altro, con spesse lenti da miope, e sotto i miei occhi stupefatti si era messo a darsi dei baci sull'avambraccio "guarda, guarda, come mi voglio bene."
Cosa mi era successo, com'ero messa, per finire a passare il mio tempo con quell'amica cerebrale e saccente, che mi faceva la predica, e quei due bellimbusti?
Con i miei amici di prima fumavamo Gauloises blondes, ne accendevamo una dietro l'altra, nelle nostre notti francesi, e rubavamo il bicchiere della birra che aveva la scritta più colorata, poi a casa lo riempivamo di cera e lo trasformavamo in una candela con cui illuminavamo il terrazzo, dove facevamo l'alba parlando di sciocchezze, e André preparava le crèpes per tutti, e Claudia non li sopportava.
Claudia ha smesso di telefonarmi dopo aver chiamato egoismo la mia malinconia, infliggendomi la stessa beffa che subisce chi vede scambiata per superbia la propria timidezza.
Il cameriere mi porta le moules e il piatto di patatine fritte. Devo ricordargli la caraffe d'eau.
Le moules sono abbondanti, e piccolissime. Mio zio, che le pescava, diceva che piccole sono migliori. Ma queste sono poco più grandi dell'unghia di un pollice, e non riesco a mangiarle senza usare le mani. Le patatine, al contrario, sono tagliate troppo grosse. Quando finalmente il cameriere arriva con la caraffa, gli domando un rince-doigts. Mi meraviglia che non me lo abbia portato spontaneamente, come a quelli del tavolino di fianco. Sembra quasi che sappia le cose, questo ragazzetto, allineandosi tra coloro che mi canzonano o mi ignorano. Tra canzonare una persona e ignorarla non passa poi così tanta differenza. Comincio a sperare che venga travolto attraversando per l'ennesima volta la strada. Provo simpatia, invece, per quelli del tavolino a fianco, che si fanno i fatti loro, e hanno tutto il diritto di farlo, dal momento che a loro non chiedo nulla.
Della Sicilia della mia adolescenza lontana non ho alcuna nostalgia. Qui ero approdata, e qui volevo restare.
Sulla spiaggia di Mentone, nessun bambino urla, la gente non fa casino, si gode la giornata di sole come fosse l'ultima dell'estate. Hanno portato gli asciugamani a fantasie provenzali, piantato ombrelloni che restano bassi, estraggono bottiglie da borse termiche di dimensioni ragionevoli e discrete, sono immersi in letture che immagino interessanti. Due ombrelloni portano la scritta dell'Orangina, uno della Perrier. Avevo sempre cercato un ombrellone con una di quelle scritte pubblicitarie. Qualcuno mi aveva detto che bisognava chiederlo a qualcuno che aveva un bar. Con André, che parlava con tutti, prima o poi un proprietario di un bar l'avremmo conosciuto.
La gente di Mentone non ti rompe le scatole. Da quando ho deciso di stare sola e di non annoiarmi mai, c'è sempre qualche uomo che mi si avvicina e attacca discorso. Di solito sono corretti, educatamente galanti, alla fine mi lasciano il loro numero di cellulare su un pezzetto di carta stropicciato che finisco per buttare nel primo cestino, ma non si rendono conto della quantità di stupidaggini che dicono per non sembrare stupidi. Qui non mi sembra possa accadere, non so perché, ed è anche per questo che sono qui.
Non voglio che gli uomini mi si avvicinino. Ho imparato a stare sola. Ho imparato ad andare al cinema da sola, a teatro da sola, al ristorante - ma solo a pranzo - da sola. Non elemosino più contatti umani, non cerco relazioni, che mi farebbero ricadere ogni volta negli stessi errori, e subire quelli altrui.
In realtà sono stufa di ciò che mi viene offerto. Sono stufa di avventure con uomini che non riescono a farselo rizzare, con uomini che si divertono solo se lo fanno di dietro, con uomini che riuniscono entrambi questi aspetti. Dopo André, solo questo mi è stato consentito di trovare.
Mi arriva il rince-doigts, ma non è sufficiente. Le mani mi restano appiccicose. Mi verso l'acqua, non riesco a finire la birra, che ormai è calda come brodo. Mi accendo un'altra sigaretta. Non posso nemmeno impadronirmi del posacenere, è veramente brutto, di plastica leggermente fusa al centro e ai bordi da sigarette mal spente.Chiedo il conto. Pago con la carta di credito. Ovviamente non ritengo opportuno lasciare un soldo di mancia.
Mi alzo e mi incammino senza fretta. Ho ancora mezz'ora prima che il parcheggio scada. Passo il Casinò, con quell'aria un po' lugubre di tutti i Casinò, che sta ad evocare drammi di viveurs rovinati da una puntata sbagliata allo chemin-de-fer, che finiscono ignorati (o canzonati?) allo stesso modo di chi ha perduto l'amore e gli amici in una scommessa troppo azzardata.
Non c'è egoismo ne' cattiveria in chi ti lascia solo: semplicemente le cose vanno così. E' tutto così normale. E' normale che il disprezzo che André ha attirato su di lui sia svanito con i giorni, e l'antica solidarietà sia ritornata. E' normale che la comprensione che ho attirato su di me dapprima, si sia trasformata in compassione, poi in pietà, e dopo in un leggero fastidio, sempre più acuto, che ha portato ad evitarmi. Nessuno ha colpa: la vita funziona così. Chi perde non ha diritti.
Passato il Casinò, guardo verso la facciata dei palazzi: noto che uno degli ultimi ristoranti si chiama Paris Palais. Era quello. Ma certo, nelle foto il Casinò era alle spalle. Non ha importanza.
Cammino e mi lascio dietro gli ombrelloni dai bordi che ondeggiano nel vento leggero, i tavolini con le loro tovagliette e le loro ombre che ondeggiano, afflosciandosi di nuovo al termine della folata quasi volessero arrendersi, poiché tutto ciò che ondeggia e freme finisce poi per ripiegarsi verso il basso, contorcersi e affondare.
Camminare per far credere agli altri e a sé stessi di dirigersi in una qualche direzione; camminare per guadagnarsi un'estate di strade e di nulla, e nascondervi dentro la lenta agonia dei giorni; rifugiarsi nei passi, ripetitivi come un'abitudine rassicurante; passiva come può esserlo solo chi è riuscita a distaccarsi dalle cose e a guardarle con lucidità, ormai lontana dalla gioia e dallo strazio, dalle stagioni dell'allegria e dai vicoli bui, la vita trasformata in una sequenza di gesti necessari e insensati, come un guardaroba di abiti appesi e pedantemente catalogati, per dare il senso dell'ordine e salvare - almeno quella, cazzo! - la facciata. Che chiamare dignità è ormai un azzardo.
I miei passi sulla strada, questa luce, il vento leggero, la placida indifferenza delle cose: è tutto ciò che voglio.
E' così bella, nelle giornate d'estate, la spiaggia di Mentone.

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